L’utopia spesso, forse sempre, si trasforma in incubo. Sono stati pensati come il luogo in cui essere vicini, anche se lontani, ai propri amici, ai propri cari. Trovarne nuovi. Una piazza virtuale dove tutti sono collegati per scambiarsi informazioni, magari creare opportunità di lavoro inimmaginabili prima. Tutto questo è accaduto e accade ogni giorno a miliardi di persone, grazie a Facebook e agli altri social media. Ma il prezzo che stiamo pagando rischia di essere davvero troppo alto.
È questa la tesi di un libro e di un documentario che mettono sul banco degli imputati Mark Zuckerberg, la sua creatura e il resto dei grandi monopolisti del web.
Lo scrive senza mezzi termini Roger McNamee nel suo Zucked – Come aprire gli occhi sulla catastrofe di Facebook (Nutrimenti 2019): “Le piattaforme internet che amiamo stanno danneggiando gli stati e il mondo intero. Probabilmente danneggiano anche noi ma non ce ne rendiamo conto…”
L’accusatore sa di cosa parla: McNamee ha passato la vita dall’altra parte della barricata. A 64 anni, da decenni è uno dei principali investitori della Silicon Valley, strenuo sostenitore dell’industria tecnologica, l’ha vista cambiare dai grandi computer mainframe che avevano i governi come principali clienti, alla rete globale che unisce miliardi di persone e che negli ultimi decenni ha cambiato il mondo ad una velocità impensabile fino a pochi anni prima. Ha creduto alla forza positiva dei social media ed è stato uno dei primi consiglieri del giovanissimo Zuckerberg. Fino a convincersi che il problema di Facebook… è Facebook.
L’aforisma è noto, “se non paghi il prodotto, quel prodotto sei tu”. Nel documentario The Social Dilemma, in streaming su Netflix, Jaron Lanier si spinge oltre: per il genio informatico coi dreadlock che invita a chiudere i propri account social, il prodotto non siamo noi, ma il cambiamento progressivo del nostro comportamento. Ma allora chi sono i clienti? Semplice: gli inserzionisti, coloro che pagano per avere i nostri dati, per conoscere le nostre abitudini e lentamente, ma non troppo, plasmarle a loro vantaggio. Lo scopo può essere puramente commerciale, ma visto che il prodotto finale sono le nostre vite, in breve tempo i nostri pensieri, le nostre idee e i nostri valori diventano merce di scambio; dati messi in vendita e offerti come frutta sul banco di un mercato a chiunque ne faccia richiesta.
È quella che il Center for Humane Technology fondato dall’ex esperto di etica digitale di Google, Tristan Harris, chiama “economia dell’estrazione dell’attenzione”: come un albero è utile solo per il legname e una balena vale più da morta che da viva, l’essere umano ha più valore se depresso, oltraggiato, polarizzato, dipendente. Un concetto sul quale le piattaforme Tech guadagnano miliardi grazie ai nostri “like” e alle nostre condivisioni, perché il loro obiettivo è quello di tenere il più possibile gli utenti davanti allo schermo. Più tempo, più interazione; più interazione, più dati; più dati, più conoscenza da vendere agli inserzionisti che saranno in grado di produrre messaggi pubblicitari fatti su misura per gli utenti. Talmente su misura da aver creato quello che
Shoshana Zuboff – professore emerito della Harvard Business School – definisce un mercato di “Futures” umani, che funziona grazie a un sistema di algoritmi e di intelligenza artificiale così sofisticato da poter predire ciò che può interessare l’utente prima ancora che lui l’abbia pensato. Un mercato nuovo, che ha reso le grandi compagnie di internet le più ricche della storia.
Facebook e gli altri social, così come Google e Amazon, sono in grado di influenzare comportamenti ed emozioni. L’hanno studiato, ne sono consapevoli. E lo hanno capito anche i “clienti”.
A spiegarlo in The Social Dilemma, è un gruppo di ex dirigenti e programmatori della Silicon Valley. Come dei pentiti di Mafia che raccontano i loro crimini passati, sentiamo l’ex presidente di Facebook Sean Parker dire: “Si sfrutta la vulnerabilità della psiche umana…”, o un altro ex dirigente di Facebook, Chamath Palihapitiya ammettere: “Vogliamo capire come manipolarti il più rapidamente possibile…”. Perché i Social Media, spiega Tristan Harris, non sono uno strumento passivo, che puoi usare bene o male, ma qualcosa che seduce, che pretende, che manipola.
Se l’obiettivo fosse solo quello di vendere un prodotto, forse potremmo trattarlo come una versione 2.0 del Carosello. Purtroppo, non è così. È un sistema che cambia la percezione di noi stessi e di come veniamo percepiti dai nostri “amici”, dalla nostra comunità; che semplifica e deforma le nostre emozioni, rendendole elementari. Amore, odio, felicità, tristezza, tutto viene rappresentato, falsificato e moltiplicato. A rischio è il futuro dei nostri figli, i più giovani e vulnerabili, viene minato il tessuto su cui si basa la nostra società. È in gioco l’idea stessa di democrazia, perché i Social Media sono diventati il mezzo di informazione privilegiato di miliardi di persone. Un’informazione drogata dalla stessa “economia dell’estrazione dell’attenzione” usata per venderci una cravatta o una vacanza e privata della mediazione giornalistica. Attraverso le “bolle di filtraggio”, viene mostrato solo quello che ci interessa, che apprezziamo e statisticamente è stato provato che notizie false e teorie cospirazioniste vengono visualizzate sei volte di più delle informazioni verificate. Una potentissima arma in mano ai regimi dittatoriali e autocratici che sfruttano i social a loro vantaggio sia sul piano interno – controllando e manipolando i loro cittadini – che su quello esterno, come dimostra il caso Cambridge Analytica e l’influenza russa sulle elezioni americane nel 2016, ormai comprovata dalla conclusione bipartisan di una commissione del Senato USA a maggioranza repubblicana.
È un mondo nuovo, nato con l’idea di connettere tutti liberamente e gratuitamente, ma presto si è corrotto diventando il suo opposto: il capitalismo della sorveglianza. Crediamo di essere liberi di scegliere come mai prima, in realtà non siamo mai stati così manipolati nelle nostre scelte senza rendercene conto. È un mondo nuovo che può cambiare, secondo McNamee, limitando l’influenza dei monopolisti, riducendo la loro forza, impedendogli di gestire a piacimento e a nostra insaputa i nostri dati. Può cambiare solo con l’intervento della politica. Un’altra utopia, forse, ma il governo americano comincia a muoversi. Il dipartimento di Giustizia ha ufficialmente avviato un’azione antitrust contro Google. Un’inchiesta che nasce dal rapporto bipartisan del Congresso che ha accusato di monopolio i colossi della Silicon Valley. L’inizio di una battaglia che arriverà a colpire anche le altre Big Tech o un debole, disperato, tentativo di riportare indietro le lancette della storia?