The Science of Where Magazine incontra Sarah Kreps. Sarah è John L. Wetherill Professor of Government, Adjunct Professor of Law, Direttore del Tech Policy Lab at Cornell University. E’ anche Non-Resident Senior Fellow presso Brookings Institution. Lavora sulla intersezione tra tecnologia, politica e sicurezza nazionale.
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Qual è l’importanza di politiche che guardino alla “rivoluzione” portata dalla innovazione tecnologica in tutti i campi del nostro vivere ?
C’è un considerevole dibattito sul fatto che siamo in una quarta rivoluzione industriale, se la rivoluzione tecnologica in cui ci troviamo sia qualitativamente diversa dall’economia precedente o se ne rappresenti una evoluzione. Perché la differenza è importante ? Lo è perché, se siamo in una quarta rivoluzione industriale, dobbiamo implementare importanti cambiamenti politici che affrontino la natura dirompente della tecnologia. La mia opinione è che ci siano davvero tecnologie che hanno sconvolto la politica e la società: ciò è vero, nella maggior parte dei casi, più rispetto alla potenza che non al tipo di tecnologia. A esempio, abbiamo sempre avuto disinformazione e propaganda. La disinformazione online si amplifica sicuramente di più e più velocemente rispetto a quando la disinformazione avveniva attraverso volantini o tabloid. I droni, dato il loro status di “pilota senza pilota”, abbassano anche la soglia di conflitto riducendo il rischio; essi, però, non costituiscono una tecnologia rivoluzionaria poiché, nella maggior parte dei casi, gli attori utilizzano i droni in modi simili agli aerei con equipaggio (ad eccezione degli attacchi antiterrorismo). Direi, pertanto, che se le tecnologie non sono rivoluzionarie non abbiamo bisogno di una trasformazione della politica ma, piuttosto, di una valutazione consapevole e ponderata nelle aree specifiche in cui le tecnologie agiscono con più determinazione e radicalità. Un buon esempio, negli Stati Uniti, è una legge del 1996 chiamata Communications Decency Act che cercava di regolamentare Internet (allora molto diverso da oggi): entrambe le parti politiche ritengono che la parte fondamentale di quella legge, la Sezione 230, debba essere aggiornata ma, secondo me, è un caso in cui la revisione della legge come rimedio sembra probabilmente peggiore della malattia. Penso che, nella maggior parte dei casi, la risposta migliore debba venire dalla società che aggiorni le norme collettive di uso e comportamento piuttosto che da una revisione completa della legislazione esistente.
Le tecnologie “dirompenti” hanno, e avranno sempre più, un impatto decisivo sui servizi essenziali (penso, ma non solo, alla salute) e sul mercato del lavoro (abbiamo pubblicato un’intervista a Keith Sonderling – Commissario dell’EEOC, L’intelligenza artificiale contro le discriminazioni sul lavoro). Quali sono, secondo Te, i rischi e le opportunità?
Le tecnologie disruptive includono una vasta gamma di tecnologie: penso che sia importante disaggregare e distinguere. Prendiamo l’automazione, a esempio. Per molto tempo si temeva che l’automazione avrebbe messo in pericolo i posti di lavoro. Questo è certamente un tema reale ma, con la pandemia, abbiamo avuto rischi per la salute associati al contatto stretto tra le persone. Molte persone hanno lasciato il lavoro per prendersi cura dei genitori più anziani o dei membri della famiglia contagiati o per istruire a casa i propri figli. Quindi, in tal caso, l’effetto combinato è stato quello di rendere l’automazione più attraente sia in quanto più sicura sia come qualcosa che avrebbe affrontato la carenza di manodopera. Spostare online pratiche come il rinnovo della patente di guida, in modo che siano digitalizzate, appare utile ora che gli uffici comunali sono stati aperti sporadicamente o devono affrontare interruzioni di lavoro a causa delle persone in quarantena. O automatizzare attività come la riscossione dei pedaggi o la localizzazione delle merci in un magazzino Amazon. In questa fase non parlerei di un compromesso tra efficienza e occupazione in quanto l’automazione è vantaggiosa per tutti ma, certamente, dobbiamo essere sensibili alla possibilità che il mercato del lavoro cambierà di nuovo: dobbiamo prendere atto che ora questi lavori sono automatizzati e che i lavori precedentemente disponibili non lo sono e non lo saranno più. L’intelligenza artificiale, invece, introduce più pericoli, più compromessi. Introducendo algoritmi che aiutano a vagliare e dare un senso a decisioni complesse, possiamo aumentare l’efficienza, ad esempio esaminando le domande di lavoro o universitarie basate su un algoritmo che ha calcolato il “tipo” di curriculum vitae, ovvero in base alle prestazioni passate e ai profili, molto probabilmente di successo. Tuttavia, abbiamo appreso che questi algoritmi spesso incorporano pregiudizi. Dipende, con tutta evidenza, dai dati che utilizziamo per “addestrare” l’algoritmo. Ma ciò non significa necessariamente fare a meno dell’IA per rendere più efficienti i lavori e le decisioni. Uno degli sviluppi più convincenti è stato garantire la supervisione umana in modo da avere un’interfaccia computer-uomo che monitori le decisioni e che crei barriere contro l’uso illimitato e potenzialmente parziale dell’IA.
Bob Fay del think tank CIGI, da noi intervistato (Verso il Digital Stability Board per una Bretton Woods digitale), ha parlato della prospettiva di una “Digital Bretton Woods”. Pensi che questa sia una strada percorribile?
È una proposta provocatoria. Per coglierne i meriti, però, dovremmo tornare al sistema originario di Bretton Woods, che si avviò alla fine della seconda guerra mondiale per creare un ordine internazionale liberale superando le politiche economiche nazionali degli anni ’30 che esacerbarono il disastro economico della depressione e probabilmente favorirono le condizioni per lo scoppio della seconda guerra mondiale. Bretton W oods creò un sistema di gold standard per aiutare a stabilizzare le valute e l’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio, “padre” dell’Organizzazione mondiale del commercio, che avrebbe aiutato a ridurre le barriere commerciali rispetto alle politiche protezionistiche degli anni ’30. Due caratteristiche hanno reso possibile il sistema di Bretton Woods. Uno è stato il disastro della seconda guerra mondiale, che ha creato una psiche internazionale del “mai più”. Un altro era che gli Stati Uniti erano un egemone globale e che riunirono le parti per elaborare l’accordo. Le circostanze attuali non hanno quasi alcuna somiglianza con la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta. Non stiamo uscendo da una guerra e, quindi, non vi è alcun chiaro impulso per questo tipo di coordinamento. In secondo luogo, gli Stati Uniti, piuttosto che essere coerenti e dominanti a livello internazionale, sono polarizzati e divisi al loro interno. La Cina e la Russia dovrebbero far parte di un tale sistema ma i presupposti per un accordo internazionale sono tutt’altro che presenti. Una cosa che gli Stati Uniti hanno cercato di fare è creare norme digitali tra democrazie industrializzate avanzate che la pensano allo stesso modo ma il Summit sulla democrazia del dicembre 2021 è stato ampiamente criticato e giudicato come ipocrita, mal concepito e inefficace. Negli Stati Uniti stiamo ancora cercando di capire come sviluppare norme digitali a livello nazionale, come è stato chiaro in ogni incontro tra i CEO delle Big Tech e il Congresso, il che rende quasi impossibile creare consenso oltre i confini. Invece, realisticamente, è l’idea di sovranità digitale, in cui ogni Paese realizza le proprie soluzioni digitali che incorporano le norme e i valori autoctoni, a essere in ascesa, non una Bretton Woods digitale che implica un coordinamento concertato globalmente.
Infine, c’è la questione strategica della governance e dell’uso dei dati. Questo è un tema sempre più decisivo, “esploso” nella pandemia. Cosa ne pensi ?
I dati sono un’arma a doppio taglio. Le caratteristiche dell’utilizzo dei dati che possono rendere la società, le imprese e il governo più efficienti sono le stesse che creano le condizioni per l’abuso. Ad esempio, si sono verificati casi di tracciamento digitale dei contatti in cui i governi locali hanno venduto i dati sulla posizione a terzi per uso commerciale. E ci sono ancora casi in cui governi autocratici stanno sfruttando la crisi della pandemia per superare e condurre la sorveglianza nella vita privata dei loro cittadini, in nome della salute pubblica. La pandemia ha creato una situazione di crisi e di permissività per la sorveglianza e una concentrazione di potere negli esecutivi: potrebbe essere difficile tornare indietro. Accade un po’ come nei tempi di guerra. La difficoltà, nella fase attuale, è che non sembriamo vedere la fine dell’emergenza. Il settore pubblico è diverso da quello privato, dove è possibile porre le condizioni perché le piattaforme vengano rese più sicure soprattutto riguardo a una insufficiente protezione della privacy (si veda il caso di Facebook); guardando al pubblico, invece, i membri di una società democratica, passata la pandemia, dovranno valutare quando le misure di salute pubblica “in tempo di guerra” siano passate dal renderci sicuri all’essere invasive della nostra privacy.