Anticipiamo l’intervista al Generale Mario Arpino, già Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica e della Difesa, che sarà pubblicata sul Magazine cartaceo in uscita per la Conferenza di Esri Italia del 10 e 11 maggio 2023.
Sempre di più, seguendo le analisi, l’intelligenza artificiale e le tecnologie “disruptive” entrano nella nuova configurazione della difesa. Come l’innovazione sta cambiando la guerra?
E’ vero, indubbiamente, intelligenza artificiale e nuove tecnologie entrano sempre di più nel fenomeno guerra. Parallelamente, verrebbe però da proporre anche un’altra osservazione: è l’innovazione tecnologica a cambiare il fenomeno guerra, o è stato quest’ultimo a favorire, per necessità urgente e con spinta prepotente, il veloce salto di qualità nell’innovazione? Sembra in qualche misura l’antico quesito dell’”uovo e della gallina” o, meno prosaicamente, della “corazza e della spada”. Si dice che la globalizzazione sia in regresso. Lo sarà forse per l’economia e la finanza, ma non pare sia così per la guerra. Lo stesso Santo Padre ha parlato di una terza guerra mondiale, ma “a pezzi”. Vent’anni fa siamo entrati in un secolo dove molti concetti cominciavano a cambiare, e molti erano già cambiati all’inizio, con la prima guerra mondiale. Ad esempio, prima, assieme ai vecchi geopolitici, ci si accontentava di due “poteri”, quello terrestre e quello marittimo. E gli strumenti tecnologici disponibili sembravano adeguati. Poi, dopo il telegrafo, la guerra aveva favorito una progressiva diffusione dell’uso della radio, mentre, parallelamente, stava nascendo un terzo potere, quello aereo, con un corredo tecnologico proprio e, per l’epoca, molto avanzato.
Tre poteri erano già tanti da controllare in termini tecnologici, e così ci siamo accorti che la parola “potere” non ci bastava più. Abbiamo allora cominciato ad esprimerci con “dominio”. Ma, molto presto, nemmeno la nuova specificazione dei tre domini terra, mare e cielo ci è sembrata sufficiente, e cosi se ne sono aggiunti altri due, ciascuno con un proprio tasso di instabilità e di rischi: il dominio dello “spazio”, in concorrenza con quello del cielo, e quello “cibernetico” (abilitante, oppure nemico, di tutti gli altri). Ultimamente, la realtà dei fatti (affaire Aukus, tra Australia, Usa) ci ha anche avvertito che si sta delineando anche un sesto dominio, ovvero il controllo degli abissi marini, come corollario del dominio del mare. Se dovessimo frazionare (e accadrà, vedremo perché) anche Spazio ed Aerospazio, i domini di fatto diventerebbero sette, ciascuno con necessità diverse in termini di Intelligenza artificiale e continua innovazione tecnologica. E, a dire il vero, sette domini sembrano davvero troppi da controllare. Persino per i Grandi della terra!
Perché le tecnologie spaziali sono così importanti anche nel campo della difesa?
Abbiamo appena osservato che il dominio dello Spazio tende a frazionarsi, e di fatto già lo è. Sarà bene cominciare ad abituarsi a pensare all’Aerospazio come quella “porzione di cielo” compresa tra la superficie terrestre e la così detta linea di Karman (dove, magari poca, ma si trova ancora un po’ d’aria). Questa oggi è convenzionalmente fissata intorno ai 100 chilometri, ma si tende ad innalzarla fino a 120-150 (Inner Space). Poi c’è la parte superiore, lo Spazio vero e proprio, dove ogni traccia di aria è assente (Outer Space), che va dalla linea di Karman all’infinito, o al dominio gravitazionale di un altro pianeta. Ciascuno di questi due differenti ambienti “…è caratterizzato da proprie tecnologie, normative e modalità di intervento, destinatari di convergenti interessi anche strategici, economici ed industriali”. Questa intuizione, fatta propria anche dalla nostra Aeronautica nel 2019, implica un’estensione di alcune competenze istituzionali, tra le quali la Difesa Aerea. Il concetto globale di Space Economy, con le recenti fughe in avanti, si porta come corollario un campo di battaglia virtuale anche nell’Outer Space (i grandi progetti di esplorazione dell’universo, il rinnovato interesse per alcuni dei pianeti più prossimi, l’eventuale rientro di missili ipersonici, ecc.).
Nell’Inner Space, sotto la fascia di Karman, l’attuale interesse è per il trasporto ipersonico transcontinentale, il così detto turismo spaziale, l’osservazione della terra “usa e getta”, in parziale alternativa ai costosi satelliti fissi, sperimentazioni brevi in assenza di gravità, ecc.). Questa somma di interessi, ovviamente, finisce per favorire la comparsa di sperimentazioni militari: infatti è logico che, quando gli interessi economici cominciano ad aver premio su quelli scientifici, si faccia immediatamente strada il concetto di “protezione”, rischiando di promuovere già nell’arco della nostra generazione almeno lo spazio “vicino” da campo di battaglia virtuale in campo di battaglia reale. Regolamentazioni approvate sul divieto di uso militare dello Spazio ci sono, ma sono datate (una cinquantina d’anni) e non di rado sono state ignorate. In questo settore Cina e Russia sono al momento i Paesi più attivi, mentre gli Stati Uniti, che hanno avuto una battuta d’arresto nel doppio quadriennio di Barack Obama, hanno cominciato a recuperare con Donald Trump. Joe Biden, almeno in questo, sembra in continuità con il suo predecessore. Anche l’Occidente europeo sta cominciando a prendere qualche iniziativa con singole misure nazionali, visto che le orbite basse comprendono proprio la fascia dove si prevedono attività “pacifiche” legate alla Space Economy. Quindi, da proteggere.
Il dominio Cyber è ormai entrato a pieno titolo nell’ambito della dottrina strategica. Come sta cambiando quella dottrina, sopratutto in ambito Nato e rispetto alla crecente complessità ed interrelazione dei rischi?
Anche questo è vero, il dominio Cyber sta entrando a pieno titolo nelle dottrine. Il problema è che non se ne sa molto, obbligati come siamo (ameno in questo campo) a ritornare alla vecchia cultura del segreto. Gli Stati più avanzati tecnologicamente si stanno già attrezzando, ma ancora singolarmente e con scarsa capacità (o volontà?) di intesa. Una vera e propria dottrina per questo dominio quindi non è stata varata e ciascuno, anche in Occidente, si sta comportando a modo suo. Lo sta facendo anche l’Italia, che si sta muovendo verso un’organizzazione necessariamente multidisciplinare, complessa, da collocarsi a livello di Presidenza del Consiglio. A fattor comune, Nato ed europeo, viene riconosciuto che il dominio Cyber va considerato come una sorta di “primus inter pares” , essendo in grado di condizionare gli altri domini sia in condizioni di difesa, sia in operazioni di offesa. A livello europeo ancora non si comprende bene come e se si vada verso una dottrina, in quanto l’unico documento strategico partorito recentemente dall’Unione, lo Strategic Compass (bussola europea per la Difesa) altro non è che una linea guida, nel cui alveo arrivare a decisioni mature, condivise e fattibili. Per il dominio Cyber, al momento, non risulta nulla di definito.
A livello Nato, dove il principale azionista continuano ad essere gli Usa, certamente ci si sta attivando con serietà, e la questione è in fase più avanzata di elaborazione concettuale. Ma, anche qui, giustamente sinora le notizie scarseggiano. Il pilastro dottrinale della Nato, dopo il documento istitutivo, è il Concetto Strategico, che, dopo lunga elaborazione, si rinnova di fatto ogni 10 anni. Il più recente, non classificato e quindi di pubblico dominio, è stato approvato dopo l’aggressione all’Ucraina, introduce qualche importante variante rispetto al precedente (la Russia rientra nel mirino e per prima volta viene citata con preoccupazione anche la Cina). Non si trovano accenni, tuttavia, al problema Cyber. Conoscendo compiti e struttura della National Security Agency degli Stati Uniti (NSA) e sapendo che tra Senato e Camera bassa è allo studio un “Cybersecurity Act”, è possibile intuire anche la futura direzione di marcia della Nato. Infatti, questo documento Usa si struttura in tre diversi disegni di legge: il Cyber Incident Reporting Act (CIRA), Il Federal Information Security Management Act (FISMA) e il Federal Secure Cloud Improvement and Jobs Act (FSCIJA).
La guerra in Ucraina è ormai entrata nel secondo anno. Data la sua esperienza, come valuta la situazione sul campo e quali prospettive realistiche di soluzione vede all’orizzonte?
Al momento, stallo totale. Potrebbe durare anche a lungo, ma non per sempre. Per comprenderne le motivazioni, è necessario rifarsi un pò alla Storia, quella vera, ed anche un pò a quella parte desueta della Geopolitica, che ormai è anch’essa diventata Storia. Ciononostante, si tratta di strumenti che potrebbero senz’altro esserci utili, almeno in termini di comprensione e di previsione degli eventi. Oggi Vladimir Putin è uno Zar chiuso in gabbia. Che ci si sia infilato volontariamente, oppure sia stato “chiamato”, o, ancora, “sfruttato” da qualcuno più abile di lui, lo stallo per ora resta tale. Il fatto che il suo comportamento venga venduto al suo pubblico, ed in parte anche al nostro, come immagine di forza, di determinazione e di superiore acume politico, certamente soddisfa il suo ego, e quello di molti russi “patriottici”, ma non sposta di una virgola la realtà. Rimanere in gabbia certamente può far male, ma, dal momento che se l’è costruita, può darsi che non abbia alcun desiderio di uscirne. Probabilmente anche lui guarda alla Storia, e sa che sotto molti aspetti gli potrebbero dar ragione.
Certamente Putin pensa alla seconda guerra mondiale, ed a come l’esercito sovietico, proprio nel febbraio del 1943 (esattamente il mese in cui lui ha cominciato la sua “operazione militare speciale” in Ucraina), ha ottenuto a Stalingrado la resa del generale tedesco Von Paulus, già molto vicino al successo. Certamente vede delle analogie (anche noi le vediamo) e cerca di copiare ciò che ha fatto Stalin. La vittoria, infatti, è stata ottenuta, più che con la qualità dei mezzi, gettando nella mischia migliaia e migliaia di coscritti male armati e peggio addestrati, votandoli alla carneficina. Si è anche ricordato della scarsa fiducia di Stalin nei capi militari, che, anche allora, si era tradotta in un’incredibile girandola di generali. Fino all’individuazione di chi, con spietatezza e accettando perdite enormi, aveva consentito il logoramento di un nemico che non aveva la stessa possibilità di alimentazione umana. Ora Putin ha deciso la terza mobilitazione di coscritti, arruolandone altri 170 mila, dopo i 300 mila precedenti. Non vi sembra un’analogia? Ce ne sarebbero altre, ma è prematuro parlarne…
In quanto all’esperienza personale, nell’ultimo decennio del secolo scorso (dopo che con la caduta del Muro è “scoppiata la pace”), a vario titolo mi sono trovato ad aver a che fare con alcune operazioni militari, come Golfo, Somalia, Jugoslavia, Bosnia, Kosovo e Timor Est. In ciascuna di queste si è sparato, ma solo le operazioni nel Golfo e (assai meno) in Kosovo possono essere considerate “guerre”. In ogni modo, guerre o meno, è mia convinzione che quando si decide di sparare bisogna anche essere decisi a vincere. Se nessuno vince, il problema non si risolve. Certo, è possibile arrivare a soluzioni pasticciate, come in Bosnia e in Kosovo, ma quando si inizia a dividere il territorio conteso, separare le etnie ed accettare compromessi, le crisi non si risolvono, ma si rimandano e si perpetuano. Guardando più lontano, ancora oggi è quello che si può osservare in Corea. Se l’attuale situazione di stallo permane, questo sembra essere il destino segnato per Russia e Ucraina. All’altro estremo, c’è la carneficina. Soddisfacenti spazi diplomatici non sono per nulla evidenti.