mercoledì, Ottobre 30, 2024

DIARIO AMERICANO. NUOVA ENCICLOPEDIA (31 agosto-9 dicembre 2023) Lettere da Varese. di Mauro della Porta Raffo, Presidente onorario della Fondazione Italia-USA

“Leggo che per conoscere perfettamente l’inglese, padroneggiarlo, occorrono diecimila ore di studio.
Oltre quattrocento sedici giorni.
Quasi sessanta settimane.
E penso a quanti altri magnifici argomenti non facendolo volutamente ed anzi quasi ignorandolo mi sono proficuamente dedicato!”
Mauro della Porta Raffo

 

‘Il Discorso dell’Orso’
ovvero il Destino degli Stati Uniti secondo Teddy Roosevelt, “quel maledetto cowboy” (come lo aveva definito Mark Hanna) che sapeva guardare lontano

“Secondo me, l’orso grizzly è il vero simbolo degli americani.
Forza, intelligenza, aggressività.
Forse è un po’ cieco, avventato, ma coraggioso in tutte le circostanze.
E ha un’altra cosa in comune con gli americani: lo stare solo.
L’orso passa tutta la vita da solo, è indomabile, invincibile sempre da solo.
Non  ha  alleati,  solo nemici,  ma  nessuno  della sua  mole.
E  questo  lo  fa assomigliare agli americani.
Il mondo non ci amerà mai.
Ci rispetteranno, forse.
Avranno paura di noi ma non ci ameranno.
Perché  noi  siamo  un popolo  troppo  audace  e un  po’  cieco,  un  po’ avventato.
Come l’orso!”
Questo,   nella   versione   del   regista e   sceneggiatore   John   Milius   nel coinvolgente  ‘Il vento  e  il  leone’,  il  celebre ‘Discorso  dell’orso’ pronunciato   dopo   una   giornata   di   caccia   nel   parco   nazionale   di Yellowstone   dal Presidente  Theodore   Roosevelt (molto bene rappresentato nella circostanza da Brian Keith che non sfigura affatto nel confronto a distanza con uno splendido Sean Connery a propria volta nei panni di Mulay Achmed Mohammed el-Raisuli il Magnifico) dispiaciutissimo per essere  stato  costretto dalle  circostanze  ad abbattere  anche  un
grizzly, animale  verso cui nutriva  la  massima
considerazione  e  al  quale mai avrebbe voluto sparare.
Siamo  agli  inizi  del Novecento  e  già  gli americani  sanno  quale  sia il destino  che  li aspetta:  il mondo  potrà  rispettarli, temerli,  ma  non  li amerà mai!

 

“Es gibt eine göttliche Vorsehung, welche die Dummen, die Kinder, die Betrunkenen und die Vereinigten Staaten beschützt” (Esiste una particolare Provvidenza divina a favore degli stupidi, dei bambini, degli ubriachi e degli Stati Uniti d’America)
Otto von Bismarck-Schönhausen

Essenziali, in ogni occasione e circostanza, nelle trattazioni storiche, la contestualizzazione (‘die Kontextualisierung’) e la successiva esposizione dello stato delle cose (‘der Stand der Dinge’)

 

Premessa di metodo:
nella trattazione, molte le ripetizioni riguardanti persone, fatti, disposizioni, dettati, decisioni, argomentazioni e via dicendo.
Non ho ritenuto di eliminarle perché i lettori possano sempre avere modo nelle righe cui attendono di conoscere per quanto possibile ogni documento senza dover cercare altrove nel testo o chissà

 

Varese, 9 dicembre 2023

Ping pong (Diplomazia del)
Ovvero, Nixon da Mao

Ben lungi dall’essere qualcosa di non ponderato, ben lungi dall’essere un colpo d’ala, l’idea di allacciare rapporti con la Cina comunista di Mao era nella mente di Richard Nixon da tempo, addirittura dall’anno precedente la campagna elettorale del 1968.
Ne aveva infatti scritto nell’ottobre 1967 in ‘Foreign Affairs’.
Una volta in sella, il presidente repubblicano operò compiutamente in tale direzione.
Certamente, fra i molti provvedimenti, tra le molte iniziative intraprese, importante oltre ogni dire la decisione di votare contro ma di non porre il veto alla risoluzione dell’ONU che ammetteva nel consesso la Cina nel contempo includendola al posto di Taiwan nel Consiglio di Sicurezza.
Correva l’anno 1971 che, in quest’ambito, sarà caratterizzato dalla strombazzata visita della squadra americana di tennis da tavolo nel Paese asiatico (la cosiddetta ‘Diplomazia del ping pong’) e soprattutto dalla missione segreta in quelle bande di Henry Kissinger tra il 9 e l’11 luglio, missione tesa a preparare la successiva, storica visita, annunciata il 15 luglio, del Presidente USA.
E’ tra il 21 e il 28 febbraio 1972, quindi, che gli Stati Uniti d’America e la Cina maoista davvero si incontrano superando barriere ideali, ideologiche, politiche e sociali di grande conto.
Si mirava alla costruzione di un clima di fiducia e dopo si opererà in tal senso.

Varese, 9 dicembre 2023

Vietnam (‘Guerra dei bianchi’)
Clay/Ali e Martin Luther King fra gli altri

Certo, la Guerra del Vietnam fu indubbiamente tra le più contestate negli USA.
Un incredibile crescendo di malcontento, protesta e appunto contestazione.
E basti qui ricordare che se nelle prime settimane del 1965, quando ebbero inizio i bombardamenti sul Vietnam del Nord, nel Parco Municipale di Boston i dimostranti contro erano all’incirca un centinaio, il 15 ottobre 1969, nel medesimo luogo gli indignati contestatori del conflitto non erano meno di centomila.
Peraltro, tra i primi a dichiararsi assolutamente contrari indubbiamente i neri raccolti nel movimento per i diritti civili.
Un gruppo di uomini di colore del Mississippi, a metà 1965, distribuì un volantino che diceva:
“Nessun nero del Mississippi dovrebbe combattere in Vietnam…finché nel Mississippi tutta la popolazione nera non sarà libera”.
E fu solo l’inizio.
Seguirono discorsi di esponenti neri contro la leva, denunce delle predette associazioni per i diritti civili della politica johnsoniana in Indocina come di “una politica di aggressione in violazione del diritto internazionale”.
Ancora, e correva il 1967, eclatante per la notorietà del contestatore, il rifiuto (che gli sarebbe costato il titolo e provocò il momentaneo ritiro da parte degli organismi che governavano all’epoca il mondo delle dodici corde della sua licenza di boxeur) del nero campione del mondo di pugilato dei pesi massimi Cassius Clay/Mohammad Ali di prestare servizio in quella che definì ‘la Guerra dei bianchi’.
Ecco, in proposito, quanto ebbe a dire, parlando alla Riverside Church di New York, il reverendo Martin Luther King:
“Questa follia deve cessare.
Dobbiamo fermarci adesso.
Parlo come figlio di Dio e fratello dei poveri che soffrono in Vietnam.
Parlo per coloro la cui terra viene devastata, le cui case vengono distrutte, la cui cultura viene sconvolta.
Parlo per i poveri d’America che stanno pagando un duplice prezzo: le loro speranze infrante in patria, la morte e la corruzione in Vietnam.
Parlo da cittadino del mondo, per il mondo che guarda atterrito il cammino che abbiamo intrapreso.
Parlo da americano ai leader della mia nazione.
Questa guerra è stata una nostra iniziativa, e nostra deve essere l’iniziativa di fermarla”.
Magnifico discorso, in specie ove si pensi a come i predicatori neri (e King era tra i più carismatici) parlavano ai fedeli.
All’atmosfera che sapevano creare.
Alla partecipazione che suscitavano!

Varese, 9 dicembre 2023

Populismo americano
James Weaver

Approdato al grado di Brigadiere Generale verso la fine della Guerra di Secessione, dapprima repubblicano, in corsa per White House nel 1880 in quota Greenback Party, James Weaver fu tra i fondatori nel 1890 del Partito del Popolo, o Populista.
Erano i populisti ultrademocratici in economia (anticapitalisti e antitrust), conservatori in politica e tendenzialmente razzisti.
Al congresso appunto del 1890 tenuto a Topeka, Kansas, fece seguito due anni dopo una seconda
adunata in quel di St Louis.
La ‘platform’, colà adottata dal nuovo movimento fu così introdotta all’assemblea da Ignatius Donnelly:
“Ci riuniamo al centro di una nazione ridotta sull’orlo della rovina morale, politica e materiale.
La corruzione domina le urne, i Parlamenti statali, il Congresso e raggiunge persino l’ermellino del Giudice.
La gente è demoralizzata…
I giornali sono finanziati o imbavagliati.
l’opinione pubblica è messa a tacere.
Gli affari vanno in malora.
Le nostre case sono coperte di ipoteche.
I lavoratori sono in miseria.
La terra è concentrata nelle mani dei capitalisti”.
Nel luglio del medesimo anno, a Omaha, Nebraska, il partito scelse quale candidato a White House proprio il predetto Weaver.
Fu la sua una più che onorevole campagna e il giorno delle elezioni conquistò oltre un milione di voti popolari, quattro Stati (Colorado, Kansas, Idaho e Nevada) e ventidue delegati.
I populisti, di lì a quattro anni, caddero nell’errore di appoggiare per la Presidenza il democratico William Jennings Bryan.
Fu un errore, dicevo, perché le loro istanze finirono per disperdersi soffocate da quelle espresse dal partito dell’Asino (la nobile bestia era il simbolo dei democratici fin da quando Andrew Jackson, indicato appunto come un asino, aveva detto di ammirare quell’animale e di non sentirsi offeso per l’epiteto) fra l’altro sconfitto dai repubblicani guidati da William McKinley.
Pochi anni ancora e il movimento del popolo cessò di avere ogni e qualsiasi espressione elettorale nazionale.

Varese, 9 dicembre 2023

Sport americani: davvero in breve, il seguito che oltre oceano hanno e l’attrazione che nel sottoscritto suscitano.

E’ possibile classificare i dieci Sport maggiormente seguiti negli USA non solo sulla base del numero degli appassionati fan ma anche degli spettatori televisivi dei differenti eventi.
La decima posizione è occupata dal Wresting.
La nona dagli Sport del Motore
L’ottava dal Pugilato
La settima dal Golf
La sesta dal Tennis
La quinta dall’Hockey su Ghiaccio
La quarta dal Calcio
La terza da Baseball e Softball
La seconda dalla Pallacanestro
La prima dal Football Americano.
Inutile dire che una mia elencazione trascurerebbe una metà abbondante della lista.

Infinite, ovviamente, però, le opere letterarie, le rappresentazioni di ogni genere che delle vicende e dei personaggi – gli Eroi – della pratica sportiva USA sono da sempre oltreoceano in scoperta e celebrazione.
Con ogni possibile eco e risvolto.
Sul grande schermo cinematografico (non che la televisione sia trascurabile, anzi, tanto è penetrata nella vita di ogni giorno…), a mio modo di vedere, davvero memorabili i film nei quali l’ambito consente di rappresentare vicende umane e accadimenti ai quali mi viene fatto di dedicare la più naturale partecipazione emotiva.
In pratica, questo m’accade è vero non poi raramente.

Varese, 9 dicembre 2023

Segue l’ultima parte del Glossario essenziale della politica americana 

‘Safe Harbor’:
la data entro la quale gli Stati devono dare comunicazione della composizione e dei nomi degli Elettori di spettanza.
Attualmente è fissata all’8 dicembre successivo alle votazioni.

‘Sampling error’:
è l’errore nei sondaggi compiuto selezionando i dati a disposizione, tralasciandone uno o più e per conseguenza arrivando a risultati che non rappresentano correttamente il volere degli elettori.

‘Scalawags’:
furono così denominati i pochi bianchi del Sud ammessi al voto dopo la fine della Guerra di Secessione. Il termine, offensivo, era riferito alla località di Scalloway, Isole Shetland, dove si allevano bovini e cavalli di taglia ridotta.

‘Scum-saking pig’:
letteralmente, ‘maiale mangia spazzatura’, fantasioso insulto rivolto a un avversario politico.

‘Second Lady’:
è il titolo formale assegnato alla moglie del Vice Presidente.

‘Secret supporters’:
sostenitori segreti sono gli elettori che non risultano dai sondaggi alle cui rilevazioni sfuggono. È nel giorno delle votazioni che – ove nella circostanza significanti – si rivelano.

‘Senate’:
al Senato (sulla base di quanto proposto dalla sua delegazione e dalle altre approvato), per via del cosiddetto ‘Compromesso del Connecticut’ – che ha introdotto il bicameralismo – sono rappresentati gli Stati.
Questi avendo tra loro pari dignità, a prescindere da considerazioni quali quella in particolare del numero dei rispettivi abitanti, hanno sempre lo stesso numero di Senatori, due.
In origine, e fino alla attuazione della riforma voluta approvando l’Emendanento datato 1913, i Laticlavi erano scelti dai Legislativi statali. Dopo, direttamente dal popolo.
Il mandato è di sei anni ma il rinnovo attraverso il voto avviene per Classi essendo a tale bisogna gli eletti divisi. Ogni due anni – in coincidenza con le votazioni per la scelta degli Elettori e dell’intera Camera, pertanto ‘il primo martedì dopo il primo lunedì’ sia dell’anno bisestile che del conseguente pari nel quale si svolgono le Mid Term Elections – va al voto un terzo degli scranni. (La finalità è quella di evitare mutazioni troppo rapide, radicali e poco ragionate delle maggioranze).
Ovviamente, i due Senatori di ciascuno Stato (che funge da Circoscrizione) non possono essere votati contemporaneamente. Entrano in attività il 3 gennaio dell’anno successivo a quello elettorale.
Per quanto, guardando alla proposizione e approvazione delle leggi i due rami del Congresso abbiano le medesime funzioni così non è in materia soprattutto di ratifica dei Trattati Internazionali e delle nomine operate dal Presidente relativamente a Ministri, Ambasciatori, Giudici della Corte Suprema e Federali di spettanza esclusivamente senatoriale.
Sono altresì divise le facoltà in merito alla procedura di Impeachment, messa in stato d’accusa del Presidente (o di altri ‘funzionari’): la Camera a maggioranza incrimina se lo ritiene e il Senato può destituire se al minimo i due terzi dei presenti al giudizio lo vogliono.
Nel caso di decesso o dimissioni di un Senatore il regolamento da seguire è quello dello Stato coinvolto che può differire (in alcuni casi il Governatore provvede direttamente alla sostituzione e in altri si va al voto). Comunque, colui che subentra, porta a termine il mandato del predecessore mantenendo assolutamente le stesse scadenze (non parte a suo riguardo un diverso seiennio).

‘Shy voters’:
sono gli elettori ‘timidi’ così chiamati perché per diverse ragioni non dichiarano nei sondaggi le loro reali intenzioni di voto.

‘Silver lining’:
espressione traducibile in italiano con la frase ‘il lato positivo’. È in qualche modo il rifugio, la parte che dà speranza al candidato. Se manca, va davvero male.

‘Sit-in’:
il tipico ‘sit-in’ utilizzato dai neri nel lungo periodo delle proteste non violente tese ad ottenere il rispetto dei loro diritti civili negati specialmente a Sud consisteva nell’entrare in un locale ‘proibito’ alla gente di colore, sedersi sul pavimento finché la polizia interveniva per sgomberare, nel non reagire alle eventuali minacce e nel farsi trascinare fino alle locali prigioni.

‘Snapshot’:
ovvero ‘istantanea’. Come può essere correttamente definito un sondaggio elettorale che in effetti coglie il preciso attimo nel quale viene effettuato e può essere successivamente smentito.

‘Solid dem’, ‘likely dem’, ‘leaning dem’, ‘toss up’, ‘leaning rep’, ‘likely rep’, ‘solid rep’:
la sequenza dei risultati dei sondaggi Stato per Stato. Da solidamente, a probabilmente, a possibilmente democratico. A non attribuibile (‘toss up’). E in senso opposto in casa repubblicana.

‘Solid South’:
tra il 1877 – anno indicato come l’ultimo della ‘ricostruzione’ post Guerra di Secessione – e il 1964 – che vide la rivoluzione geopolitica attuata da Lyndon Johnson – il Partito Democratico fu fortemente, solidamente, sostenuto a Sud nelle sue politiche favorevoli in primo luogo alla segregazione razziale.

‘Southern strategy’:
fino al 1952, il Partito Repubblicano aveva evitato di fare campagna negli Stati del Sud assolutamente democratici. È Dwight Eisenhower a dare il via alla Strategia che porterà con il tempo, attraverso riallineamenti vari, il GOP a diventare il movimento politico più votato da quelle parti.

‘Speaker’:
è il titolo attribuito al Presidente della Camera, espressione del partito che nel consesso ha la maggioranza e seconda persona in ordine di linea nella successione al Presidente dopo il Vice.

‘Special election’:
elezione indetta per coprire una carica vacante.

‘Spin doctor’:
letteralmente, ‘esperto nei colpi ad effetto’. È così definito il consulente che opera al fine di creare (se il mandante è un candidato), mantenere o aumentare (quando dipende da un politico già noto) il consenso elettorale. Non sempre l’espressione è stata ed è usata positivamente.

‘Split-ticket voting’:
è quella particolare situazione nella quale l’elettore, dovendo votare per diverse cariche (il giorno delle cosiddette Presidenziali, anche per la Camera e spesso per il Senato) divide le sue preferenze esprimendosi non uniformemente e quindi per candidati di differenti partiti.

‘Spoils System’:
“È giusto che le spoglie appartengano al vincitore”. Queste le parole pronunciate nel 1832 dall’allora Senatore jacksoniano William Marcy trattando della distribuzione a piene mani degli incarichi pubblici a colleghi di partito fatta dal Presidente ed entrata poi nell’uso comune praticamente ad ogni cambio di amministrazione.
Per il vero, il primo a percorrere questa strada era stato Thomas Jefferson.

‘Stalwarts’:
nel significato di ‘duri’. Così fu chiamata la fazione radicale del Partito Repubblicano che ebbe potere specie a New York negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento. Tra i suoi esponenti il Vice Presidente e poi Capo dello Stato Chester Arthur.

‘Straight-ticket Voting’:
si ha quando l’elettore vota candidati dello stesso partito in una elezione multipla (vota cioè repubblicano, democratico o altro sia per la Presidenza che per la Camera che per il Senato). Si ha invece ‘Split-ticket Voting’ nel caso in cui ciò non avvenga.

‘Straw Poll’:
‘voto di paglia’, non ufficiale. Organizzato dai partiti per conoscere le idee e le opinioni degli elettori a proposito di specifici argomenti o determinate persone.

‘Stump speech’:
(dove ‘stump’ significa ceppo) era il discorso elettorale standard, dalla struttura sempre uguale, adattato al pubblico e alle circostanze, mai letto, che si teneva nelle comunità rurali. Il candidato si collocava sopra il ceppo tagliato di un albero per parlare dall’alto ai presenti.

‘Superdelegates’:
ovviamente ‘superdelegati’ in italiano: in particolare nel Partito Democratico (tra i Repubblicani contano davvero poco), oltre ai delegati alla Convention, tre Primarie e Caucus, vengono eletti i cosiddetti ‘superdelegati’ – nel 2020 nel numero cospicuo di settecentoquarantuno – che dal secondo ballottaggio, ove nel primo non sia eletto il candidato ufficiale, intervengono e sono liberi dagli impegni invece, almeno all’inizio delle votazioni costrittivi, nei confronti del ‘normali’ delegati. Sono scelti tra i maggiorenti del partito.

‘Supertuesday’:
giorno nel quale si vota in molti Stati contemporaneamente e sono pertanto in palio molti Elettori.

‘Swiftboating’:
è un neologismo nato nel 2004 (George Walker Bush contro John Kerry) e indica una azione politica tesa ad attaccare l’avversario usando slealtà e menzogne. Qualcosa di molto vicino alla ‘Smear campaign’ nella quale comunque si attacca la reputazione del desso.

‘Swing State’:
Stato che cambia il proprio voto a seconda delle circostanze politiche e dei candidati proposti, del quale, pertanto, non si può conoscere preventivamente con certezza l’orientamento. Sulla carta geografica che rappresenta gli Stati nel giorno elettorale è colorato di viola salvo dipoi volgere al blu o al rosso a seconda del risultato definitivo.

‘Swing Voters’:
elettori non necessariamente legati ad un partito e disposti a votare secondo programmi e candidati.

‘Term’:
il mandato è chiamato ‘Term’ e per la Presidenza dura un quadriennio. Dal 1937 si entra in carica a mezzogiorno del 20 gennaio dell’anno seguente le votazioni e si decade sempre a mezzogiorno di quattro anni dopo.
Gli eletti si dividono in ‘One Term President’, quelli non rieletti. ‘Two Terms President’, coloro che sono stati confermati. Uno soltanto il ‘Four Terms President’, Franklin Delano Roosevelt il cui record non è nemmeno avvicinabile dato il disposto dell’Emendamento del 1951 che vieta una terza elezione.

‘Term limit’:
il limite dato per legge alla rieleggibilità nella medesima carica.

The Big Apple’:
ovvero ‘la Grande Mela’, termine nato probabilmente nell’ambiente del jazz degli anni Venti o Trenta del Novecento o prima ancora in quello dell’ippica. Descrive in ogni caso New York come città piena di promesse e meta ideale. Significativo il fatto che la mela, il ‘frutto proibito’ per definizione, identifichi un luogo ricco di lusinghe.

‘Three-way race’:
è così chiamata una tornata elettorale che veda concorrere tre candidati di peso (si pensi al 1992, quando si confrontarono George Herbert Bush, Bill Clinton e Ross Perot).

‘Thugs’:
ovvero ‘teppisti’, definizione da parte dei conservatori dei dimostranti violenti e facinorosi spesso in azione nelle città americane. Così si chiamavano i feroci seguaci della Dea Kali in India la cui organizzazione fu soppressa dagli Inglesi nei primi decenni dell’Ottocento. Di loro parla Emilio Salgari nei suoi romanzi colaggiù ambientati.

‘Ticket’:
dalle votazioni del 1804 i partiti devono presentare uniti appunto in un ticket il candidato alla Presidenza e il suo Vice.

‘Tie-breaking votes’:
quando al fine di decidere in una votazione senatoriale finita in parità il Vice Presidente, nelle vesti di Presidente della Camera Alta, esprime il proprio suffragio determinando l’esito.

‘Tipping-point State’:
è il primo Stato che, indicando una direzione, superando il momento di incertezza, assegna i propri delegati al candidato che poi risulterà vincitore.

‘Too close to call’:
espressione usata allorquando il risultato di una votazione è incerto al punto di non poter dire chi abbia vinto se non a scrutinio terminato.

‘Top-two Primary’:
è una Primaria che seleziona i primi due candidati più votati i quali si contenderanno a novembre il seggio. È caratterizzata dal fatto che i predetti possono anche appartenere allo stesso partito.

‘Toss-up’:
così viene definito (nella sostanza, tale espressione descrive una situazione da ‘testa o croce’, lancio di una moneta per decidere) lo Stato che nei sondaggi che riguardano l’ipotetica attribuzione degli Elettori non può essere assegnato neppure tendenzialmente.
Le situazioni intermedie conseguenti ad una rilevazione che appunto intenda verificare lo stato delle cose in tale contesto sono: ‘Likely (Democratic or Republican)’, ovvero ‘probabilmente’ di qua o di là. ‘Leans (Democratic or Republican)’, ossia che tende a volgere dall’una o dall’altra parte.
Ovviamente, se uno Stato è graniticamente assegnato, viene definito ‘Red’ se repubblicano o ‘Blue’ se democratico.
I due colori si attenuano, intensificano o spariscono a seconda della collocazione che permane o muta nel tempo secondo l’esito sondaggistico.

‘Town Hall Meeting’:
dibattito a livello locale nel quale i candidati rispondono alle domande illustrando il loro programma.

‘Trifecta’:
modo di dire in uso allorquando un partito controlla, a livello nazionale, Presidenza e Congresso (entrambe le assemblee e pertanto i tre più importanti incarichi). E a livello locale, quando occupa gli scranni sia Governatoriali che di Presidenza delle due Camere. L’unico Stato nel quale non si può verificare è il Nebraska che ha una sola Camera e non due.

‘Turnout’:
affluenza, partecipazione alle urne.

‘Underdog’:
espressione presa dalle corse per cani che indica il non favorito. Si applica al candidato che pur non avendo i favori del pronostico vince.

‘Unpledged delegates’:
altresì detti ‘unbound delegates’, sono i delegati alle Convention non obbligati da limiti (‘bound’) e pertanto liberi di votare nella circostanza come credono.

‘Unwinnable States’:
vengono in cotal modo indicati gli Stati in determinate circostanze non contendibili da un partito troppo, e non colmabile neppure con una massiccia propaganda e grande impegno economico, essendo il distacco dall’altro in termini di voti popolari. Tanto vale nell’ipotesi evitare un inutile impegno e rivolgersi altrove.

‘Vice President’:
eletto solo a partire dal 1804 in un ‘ticket’ che forma con il candidato allo scranno Presidenziale del suo partito (prima il sistema elettorale non prevedeva una separazione delle due posizioni ragione per la quale colui che otteneva più Elettori diventava Capo dello Stato e il secondo, anche se appartenente ad un differente partito, aveva la funzione appunto vicaria), il Vice Presidente, proprio per il fatto di essere il primo in linea di successione del titolare dell’incarico, deve possedere i tre requisiti richiesti dalla Costituzione a chi sieda a White House.
Per il dettato costituzionale presiede il Senato potendo però votare solo in caso di parità (potere, peraltro, non da poco essendo nell’ipotesi sempre determinante).
Presiede necessariamente in quanto uscente anche la seduta del rinnovato Congresso nella quale saranno convalidate le elezioni delle due massime cariche.
Per il disposto dell’Emendamento del 1951 che limita a due le possibili elezioni presidenziali è in un particolare caso in grado di governare oltre gli otto anni che configurano due quadrienni e quindi più a lungo di un ‘two terms President’.
Se infatti subentrato al titolare nel secondo biennio di Presidenza può candidarsi, ovviamente, per il mandato seguente ma altresì, per quanto eletto, per quello ancora dopo, cosa che gli è invece vietata quando sia succeduto nel primo biennio.
Sette i Vice che si sono seduti sulla poltrona del Presidente a seguito della morte del titolare. Due a seguito delle dimissioni (la prima volta nel 1832 quando John Calhoun preferì fare il Senatore e la seconda allorché nel 1973 Spiro Agnew dovette lasciare perché coinvolto in scandali che riguardavano il suo precedente operato di Governatore).
Fino alla approvazione di un Emendamento datato 1967, il Vice deceduto o dimesso (mai verificatasi questa seconda ipotesi prima del citato 1973) non poteva essere sostituito. Da allora, con una particolare procedura (nomina presidenziale e conferma da parte del Congresso) può esserlo (il primo ad avere avuto modo di seguire tale iter è stato Gerald Ford poi approdato addirittura a White House a causa delle dimissioni di Richard Nixon. Dopo di lui, Nelson Rockfeller che lo stesso Ford chiamò al proprio fianco).

‘Virtual debate’:
è la finzione televisiva in conseguenza della quale i partecipanti a un dibattito politico appaiono nello stesso studio mentre non lo sono. Il terzo dibattito Kennedy/Nixon, 1960, vide il primo a New York e il secondo a Los Angeles cosa che in diretta tv non appariva.

‘Voter guide’:
guida elettorale che illustra all’elettore le regole da rispettare nell’esercizio del voto.

‘Voter intimidation’:
azione illegale tesa a impedire il voto o a costringerlo in una direzione non voluta dall’elettore.

‘Voting District’:
è l’area geografica nella quale viene espresso un rappresentante del corpo elettorale. Per il Senato, corrisponde allo Stato stesso. Quanto alla Camera, i singoli Stati delimitano al proprio interno i Distretti ai quali hanno diritto.

Wasp’:
ovvero ‘White, anglo-saxon, protestant’.
È il gruppo etnico-religioso che ha ‘fatto’ gli Stati Uniti d’America come sono.
Maggioritario alla grande per lunghissimo tempo, è in netto declino essendo in forte crescita Ispanici e Neri.
Due soltanto i Presidenti non wasp. John Kennedy, bianco ma cattolico. Barack Obama, nero, per quanto tale fosse la madre.

‘Wet’:
ovvero ‘umido’, termine usato per definire gli antiproibizionisti.

‘Wave elections’:
si definiscono ‘Wave elections’ quelle riguardanti la Camera dei Rappresentanti che portano ad un risultato assolutamente negativo il partito del Presidente in quel momento in carica, come fosse travolto da un’onda.

‘Whip’:
‘frusta’ – dal nome che nella caccia alla volpe viene dato a colui che è incaricato di tenere unita la muta dei cani usando se del caso il frustino – è il parlamentare appunto incaricato di tenere i collegamenti con i colleghi eletti e coordinarne i lavori stando altresì attendo alla disciplina peraltro non certamente opprimente negli USA come in altri Paesi.

‘Whistle stop train tour’:
lo stile di fare campagna elettorale nelle stazioni ferroviarie richiamando l’attenzione dei locali abitanti con il fischio del treno.

‘Whitelash’:
ovvero ‘contraccolpo bianco’ è la reazione in termini di voto a favore dei repubblicani (così la denominò Ronald Reagan negli anni Sessanta) alla quale venivano invitati i bianchi.
In non pochi momenti, l’incitamento in questione ha debordato declinando pericolosamente verso un invito all’odio razziale.

‘Winner takes all method’:
è il metodo usato oggi da quarantotto dei cinquanta membri dell’Unione (Maine e Nebraska esclusi) e dal Distretto di Columbia per attribuire ad uno dei candidati alla Casa Bianca gli Elettori di spettanza. È così denominato in ragione del fatto che il candidato che vince in termini di voti popolari in uno Stato anche di un solo suffragio conquista tutti gli Elettori ai quali lo Stato stesso ha diritto.
Il Maine e il Nebraska non usano il ‘Winner takes all method’ avendo deciso di dividere il loro territorio anche in Circoscrizioni (due dei loro delegati vengono assegnati al partito che prevale per voto popolare nello Stato e i restanti al candidato che in ciascuna Circoscrizione vince).
Nel differente momento della scelta dei delegati alle Convention, invece, il ‘method’ è applicato in particolare dai repubblicani mentre i rivali usano praticamente sempre il proporzionale. Occorre pertanto che il Grand Old Party arrivi più rapidamente alla attribuzione della maggioranza dei delegati stessi.

‘Working class white voters’:
sono gli elettori bianchi addetti all’industria in crisi appartenenti ai ‘Midwestern Rust Belt States’ risultati determinanti nel 2016 avendo, inaspettatamente per i media, votato Trump.

‘Write-in candidate’:
è il candidato il cui nominativo non è sulla scheda elettorale o nelle liste ma il cui nome può essere aggiunto scrivendolo manualmente.
Il ‘Write-in vote’ non è ammesso dovunque.

Varese, 8 dicembre 2023

Caucus e Primarie, i motori in casa repubblicana vanno scaldandosi

15 e 23 gennaio 2024.
Caucus in Iowa e Primaria nel New Hampshire.
I primi due appuntamenti della maratona elettorale repubblicana tesa ad ottenere la Nomination.
Secondo la tradizione, saranno i due Stati rispettivamente del Midwest e del New England ad aprire i giochi.
Guardando ai sondaggi, per quanto prematuri, mentre Donald Trump (ancora una volta assente nel recente e probabilmente ultimo pubblico dibattito in casa Grand Old Party in quel di Tuscaloosa, Alabama) svetta nettamente comunque, è da notare come nello Stato con capitale Des Moines, in data 6 dicembre, secondo FiftyThirtyEight, il Governatore della Florida Ron DeSantis preceda ancora di un paio di punti Nikki Haley, l’ex Governatrice del South Carolina comunque anche qui in notevole ascesa (il fatto che proprio a Tuscaloosa sia stata oggetto degli attacchi – peraltro rintuzzati benissimo – dei rivali superstiti la dice lunga) mentre nel New Hampshire (peraltro, in rilevazioni meno recenti) la Signora avrebbe superato nettamente il pretendente italoamericano (mai successo che un ‘nostro’, Rudolph Giuliani compreso, arrivasse davvero lontano in questi certami).
La storia elettorale insegna che i due confronti possono addirittura essere decisivi perché un risultato inferiore alle attese da parte del supposto front runner (un Donald Trump meno incisivo del previsto?) come in particolare un esito sorprendentemente favorevole per un outsider (una Nikki Haley superiore alle aspettative?) indicherebbero una strada alternativa.
Mancano comunque parecchi giorni e può capitare praticamente di tutto:
– che il tycoon riporti un qualche successo in campo politico/giudiziario
– che il ‘momento’ favorevole ad Haley fiorisca ulteriormente o al contrario appassisca
– perfino che improvvisamente un nuovo, inatteso candidato appaia.
Certo che mentre comunque in casa repubblicana ci si agita altrettanto non accade tra gli Asinelli che sembrano, come dire, rassegnati alla ricandidatura di Joe Biden.

Varese, 8 dicembre 2023

Patriarcato e matriarcato con particolare riferimento agli USA

Secondo Luigi Zoja, il successo sociale di un gruppo è determinato dall’adozione del patriarcato.
“Se l’elemento decisivo dello sviluppo della civiltà risiede nella forza del ruolo paterno, le società e i gruppi più forti avranno un padre forte e viceversa”.
Così afferma lo studioso dopo avere dimostrato come il concetto di paternità – contrariamente a quello, naturale e innato nell’uomo, di maternità – sia acquisito e conseguentemente, per così dire, regredibile, degradabile.
Guardando specificamente agli Stati Uniti, Zoja propone il paragone – a suo modo di vedere decisivo – tra Puritani ed Ebrei da un lato e Afroamericani dall’altro.
La vocazionale assolutamente patriarcale dei primi due gruppi spiega il loro successo sociale.

Personalmente, opino che tale valutazione, in astratto e in altri tempi condivisibile, sia alquanto datata e riferita a momenti storici oramai lontani.
Oggi e non da oggi, per quanto i citati Puritani e gli Ebrei cerchino di resistere, la ‘modernità’ mina le basi stesse del loro essere.
Ancora argomentando in merito, la crisi del Puritanesimo – e qui non tratto degli Ebrei da sempre maggiormente vicini ai democratici – è altresì causa di un sia pure combattuto declino del Partito Repubblicano americano, partito al quale gli ‘WASP’ – ‘bianchi, anglo-sassoni, protestanti’ – si sono negli ultimi decenni costantemente riconosciuti.
Tema quest’ultimo che andrebbe – e in altra sede ho – ampiamente discusso e trattato.

Quanto agli Afroamericani, le ragioni della marginalizzazione del sottoproletariato che in larga parte li rappresenta stanno nella loro organizzazione, all’opposto, matriarcale.
Matriarcale – insiste con ottima dottrina Zoja – in conseguenza e ragione dello schiavismo.
“Con lo schiavismo, il padre è caduto nell’oblio perché i suoi diritti non erano più riconosciuti e i suoi doveri non erano più insegnati, mentre l’istituzione materna restava intatta: la madre non poteva essere separata dal figlio al momento della vendita, al contrario del padre.
La spina dorsale della famiglia nera era così spezzata e lo sarebbe rimasta per secoli”.
Lapidaria sul tema afroamericani da questo punto di vista la conclusione consistente ‘semplicemente’ nel ricordare la norma che riteneva libero chi nascesse da madre libera e schiavo chi nascesse da madre schiava!

Varese, 8 dicembre 2023

Cosa pensava Benito Mussolini degli USA?

Da ‘Un colloquio con Mussolini’, di Michele Campana, pubblicato sul ‘Meridiano d’Italia’, n.5, VI, il 4 febbraio 1951 e ripreso in ‘Maledetti americani’, di Massimo Teodori, Mondadori, anno 2002.
Il testo propone quanto, sul tema Stati Uniti d’America, Benito Mussolini disse a Campana in una intervista concessa una decina d’anni dopo la presa del potere.
L’altra forza citata dal Duce all’inizio dello scritto che riporto qui di seguito è l’Unione Sovietica.

“L’altra potente forza…che assedia e minaccia l’Europa è l’America e più propriamente gli Stati Uniti d’America, incoraggiati in ciò dal pensiero anglosassone…
Io ho una grande simpatia, anzi un’ammirazione, per il popolo degli Stati Uniti e gliel’ho manifestato più volte…
Però non ho altrettanta simpatia per il loro governo.
La Costituzione americana porta al potere, sotto il falso segno della democrazia, vere e proprie oligarchie capitalistiche, che io chiamo ‘plutocrazie’.
Sono oligarchie di grandi interessi, più che di idee e di principi.
Esse hanno bisogno di espansione per aumentare i profitti.
Non è difficile prevedere che la teoria di Monroe, avendo già avuto un primo strappo nel 1917/18, possa venire sostituita da una teoria dell’imperialismo.
I prodotti americani in crescente misura avranno bisogno di saturare il mondo.
Dietro gli affari e a difesa degli affari non sarà poi illogico trovare la torre di una corazzata o le ali di un aeroplano da bombardamento.
Io sto molto attento all’espansione dei prodotti americani, non solo, ma anche dei modi americani.
E’ innegabile che tra gli italiani si vanno estendendo certi gusti e certi atteggiamenti degli statunitensi, tutt’altro che consoni al nostro modo di pensare: musiche negriere o troppo yankee, orribili cocktail, i piedi sui tavolini, la gomma da masticare.
Sembrano sciocchezze trascurabili, ma incidono nei caratteri e nei gusti.
…A forza di imitare l’americanismo si può perdere la propria personalità.
Contro il bolscevismo io ho innalzato i gagliardetti di combattimento fin dal 1919.
Contro l’americanismo invadente, io cercherò di dare un taglio, se sarà necessario, richiamando il popolo italiano a un’autarchia sia economica che spirituale”.
Difficile davvero trovare qualcosa da ridire al riguardo!

Varese, 8 dicembre 2023

I Russi in America

Oramai parecchio tempo fa, commentando le idee espresse dal turbolento uomo politico russo Vladimir Zhirinovski per un ritorno del suo Paese ai confini della massima espansione – aveva costui addirittura scritto nel suo programma: “Tutte le terre un tempo possedute devono tornare a far parte della Russia” – l’allora Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton disse che sperava che Zhirinovski “non pretendesse anche la restituzione dell’Alaska in tempi brevi”, facendo così riferimento al fatto che quello che è oggi il cinquantesimo Stato dell’Unione fu acquistato dagli USA, per una contrastatissima iniziativa del Segretario di Stato dell’epoca William Seward, nel 1867, al prezzo di sette milioni e duecentomila dollari, proprio dall’allora Stato zarista.
Si può, forse, scherzare sull’Alaska, ma che avrebbe detto Clinton se a Zhirinovski fosse tornato per caso alla mente il nome di Nicola Petrovic Rezanov?
Chi era costui è presto detto.
Boiardo e consigliere personale dello Zar Nicola, Rezanov, nel 1806, al comando del tre alberi Giunone della flotta imperiale, attraccò sulla costa californiana dalle parti di Yerba Buena, con il segreto incarico di studiare una possibile conquista del territorio allora governato da una lontanissima e svogliata Spagna e di lasciare, comunque, un insediamento.
Naturalmente, il vero scopo della missione era mascherato dal classico, per una nave russa di quei tempi, trasporto di pellicce per il commercio con le locali guarnigioni.
Proprio in occasione della visita al forte di Yerba Buena, il boiardo, allora quarantacinquenne, rimase folgorato dalla bellissima, quindicenne figlia del comandante (per la storia, Concha Arguelle y Morreaga, detta Conchita) e, dopo una serrata corte, con il consenso di lei, la chiese in sposa allo stupefatto padre.
Vista la giovanissima età della promessa, quest’ultimo, nella speranza di non inimicarsi il boiardo e di evitare comunque il matrimonio, calcando la mano sul fatto che Rezanov era, in quanto russo, uno scismatico, gli diede il consenso a due condizioni: che si facesse cattolico e che ottenesse l’assenso al matrimonio personalmente dall’allora re di Spagna, Carlo IV, a Madrid.
Senza frapporre indugio, il nostro partì per la lontanissima Spagna.
Riattraversò l’oceano Pacifico e si lanciò alla conquista della Siberia su velocissime slitte trainate da cani.
Purtroppo per lui, per Conchita e per la Russia, il suo ardore fu stroncato da una congestione che lo colse alle porte di Irkutsk e così la bella spagnola, disperata, si ritirò in convento e di lei non si seppe più nulla.
Per quanto Rezanov avesse un animo evidentemente troppo debole per un conquistatore, comunque, prima di ripartire dalla California, aveva provveduto a lasciarvi il previsto insediamento che continuò ad esistere fino a quando, nel 1841, gli ultimi ex marinai dello zar sopravvissuti, convintisi di essere ormai stati dimenticati, se ne tornarono anch’essi in patria.
Una traccia di quella loro presenza, peraltro, rimane ed è il nome dato allora ad una delle colline su cui, poi, sorgerà San Francisco, che si chiama, appunto, Russian Hill.

Peraltro e per la storia, il primo insediamento russo in America si ebbe nell’isola di Kodiak, nota soprattutto per avere dato il nome, ‘orso Kodiak’, al più grosso orso bruno vivente (può superare i tre metri di altezza), isola che fiancheggia parte della penisola alaskana.

Varese, 8 dicembre 2023

Segregazionismo in piscina

USA anni Quaranta/Cinquanta del Novecento.
Pochissime le piscine.
USA al giorno d’oggi ma già da gran tempo.
Milioni le piscine.
Quelle risalenti al dopoguerra, quasi tutte pubbliche.
Quelle d’oggi, quasi tutte private.
Fatto è che, fino agli anni nei quali per le sentenze della Corte Suprema presieduta dal repubblicano Earl Warren e per l’azione conseguente del Presidente repubblicano Dwight Eisenhower la Segregazione razziale fu dichiarata illegittima e combattuta efficacemente, i neri – ovviamente, in specie nel Sud governato dai democratici – non erano ammessi in piscina, per quanto pubblica fosse la struttura.
Dopo – possibile per loro l’ingresso e la frequentazione – i bianchi hanno cominciato a costruirsi piscine private a milioni, come si diceva.
Ecco il particolare collegamento tra razzismo e piscine.

Varese, 8 dicembre 2023

Otto anni di Obama (2009/2017) hanno demolito il partito democratico.
I risultati elettorali parlano chiaro e non temono smentite

4 novembre 2008, gli Stati Uniti d’America votano per la Presidenza per la cinquantaseiesima volta.
Votano altresì per il rinnovo totale della Camera dei Rappresentanti e per quello di trentacinque Senatori in quanto ai trentatre in scadenza si aggiungono quelli del Wyoming e del Mississippi.
I risultati dicono che il candidato democratico Barack Obama – che ottiene in termini di voto popolare l’allora record assoluto (quasi sessantanove milioni e mezzo) sarà Presidente.
Che i Senatori democratici saranno cinquantasette (cinquantanove contando i due indipendenti comunque inclusi nel gruppo) su cento.
Che i Rappresentanti democratici saranno duecentocinquantasette su quattrocentotrentacinque.
Che a seguito anche delle elezioni per i governatorati in palio, i democratici contano ventinove Governatori su cinquanta.
Un trionfo su tutta la linea per il Partito dell’Asinello!

8 novembre 2016, gli Stati Uniti d’America votano per la cinquantottesima volta per la Presidenza dopo che il democratico Barack Obama ha occupato White House per due mandati, otto anni.
(Va notato che la conferma del Presidente nel 2012, pure riuscita, lo aveva visto peggiorare sia in termini di voto popolare – tre milioni e mezzo all’incirca di suffragi in meno – che di Elettori, con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni – da trecentosessantacinque scende a trecentotrentadue – cosa assai raramente accaduta ai predecessori come lui democratici in corsa per il rinnovo dell’incarico.
A guardar bene, solo Jimmy Carter ha fatto peggio facendosi defenestrare).
Ebbene, i risultati 2016 sono:
Presidenza USA al repubblicano Donald Trump.
Cinquantadue Senatori su cento – e pertanto la maggioranza – repubblicani.
Duecentoquarantuno Rappresentanti su quattrocentotrentacinque e quindi un’ampia maggioranza sempre ai repubblicani.
Trentuno Governatori repubblicani contro i diciannove democratici.
Si aggiunga che trentacinque Senati statuali su cinquanta sono a maggioranza repubblicana così come trentadue Camere locali.
Un trionfo totale e senza confronti del Grand Old Party.
Una totale rovina per l’Asinello.

Sorge spontanea una domanda: se Barack Obama è stato quel magnifico Presidente che la stragrande maggioranza degli osservatori e dei media dipingono, come mai il suo partito, dopo (a seguito, viene da dire) la sua duplice Presidenza era ridotto elettoralmente da fare pietà?
Volendo, poi, perché nessuno lo rilevava pur essendo in possesso dei risultati ufficiali ora riportati?

Varese, 8 dicembre 2023

Il Glossario essenziale della politica americana continua … 

‘President’
il Presidente degli Stati Uniti d’America esercita il potere esecutivo.
Lo fa attraverso il Governo composto da Ministri Segretari di Stato coadiuvato da Consiglieri per le varie articolazioni che formano l’Ufficio Esecutivo guidato dal Capo di Gabinetto.
Non ha potere legislativo alcuno ma indirizza alle Camere (oltre al tradizionale Messaggio sullo stato dell’Unione), qualora lo ritenga utile o necessario, missive che diano indicazioni che vanno però raccolte e presentate in forma di progetto alle assemblee dai componenti delle stesse.
Ha ovviamente poteri in campo amministrativo laddove procede per Decreto.
Salvo naturalmente i primi eletti (a nessuno tra loro almeno due dei tre requisiti poi dettati potevano essere richiesti), il Capo dello Stato USA deve
– avere compiuto trentacinque anni al momento delle elezioni
– essere cittadino dalla nascita
– avere avuto la residenza negli States per almeno quattordici anni.
È soprattutto quanto al secondo degli elencati requisiti che si discute essendosi vie più allentate le interpretazioni in merito.
In origine (ripeto, non per i Padri della Patria nati tutti prima la Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio 1776 e il Trattato di Parigi del 3 settembre 1783) e per lungo tempo rigidissimi i canoni.
Occorreva assolutamente che l’eligendo fosse nato negli Stati Uniti. Per dare un’idea dei cambiamenti al riguardo, quando nel 1964 i Repubblicani proposero Barry Goldwater non pochi ebbero ad eccepire facendo presente che era nato in Arizona prima che quello Stato, nel 1912, fosse entrato a far parte dell’Unione.
Nel 2016 si è invece accettato ufficialmente che si proponesse Ted Cruz, Senatore del Texas ma nato in Canada, a Calgary, da madre ma non da padre di nazionalità americana. Un davvero notevole cambiamento di punto di vista.
Il mandato del Presidente è quadriennale e, dalla approvazione nel 1951 di un Emendamento scritto al fine di evitare, dopo quella di Franklin Delano Roosevelt (eletto quattro volte e infine morto in carica), altre Presidenze ‘a vita’, le elezioni possibili – anche non consecutive – sono due.
L’elezione è del tutto particolare essendo la carica presidenziale conseguibile esclusivamente attraverso una votazione ‘indiretta’ (il popolo non vota senza intermediari).
Dal 1848 (prima ci si recava alle urne per oltre un mese e ciascuno Stato poteva decidere quando in quel lasso di tempo), si va ai seggi ‘il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno coincidente col bisestile’ per scegliere, Stato per Stato, nella medesima consistenza numerica delle rispettive delegazioni parlamentari (Senatori più Rappresentanti), i delegati nazionali (detti ‘Elettori’ con la e maiuscola) i quali, successivamente, ‘il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre’, riuniti nel Collegio che li raccoglie formalmente, eleggeranno davvero il desso.
(È possibile – è accaduto nel 1824 – che più di due essendo i candidati in grado di vincere negli Stati e per conseguenza conquistare Elettori nessuno tra loro arrivi alla maggioranza assoluta dei membri del citato Collegio. Nell’ipotesi, la nomina spetta alla Camera eletta in contemporanea che provvederà dopo l’Insediamento e quindi nel successivo anno con un voto ‘per delegazione’ contando uno nella circostanza ogni Stato a prescindere dal numero dei citatissimi Elettori di spettanza).
Prima di F. D. R., con la sola eccezione di Ulysses Grant (che aveva cercato invano nel 1880 una terza Nomination dopo avere esercitato in precedenza due mandati), nessuno, per quanto ‘grande’ si fosse dimostrato nell’impegno, aveva brigato per una terza possibilità, in questo rispettando la disposizione orale di George Washington che, non accettando di riproporsi nel 1796, aveva detto che non si poteva sostenere per più di otto anni un peso tanto grave.
Infiniti i record da ricordare quanto ai Presidenti (oltre a quello, indicato ma neppure avvicinabile per via dell’Emendamento di cui sopra, del secondo Roosevelt che è stato eletto quattro volte ed è rimasto in carica dal 4 marzo 1933 – il mandato, dalle votazioni del 1792 a quelle del 1932 comprese, prevedeva il Giuramento e l’Investitura appunto il 4 marzo dell’anno successivo a quello elettorale e non come dal 1937 il 20 gennaio – al 12 aprile 1945!).
Ne ricordo alcuni.
L’unico che va considerato indipendente è George Washington, il primo eletto e rieletto e il solo al quale tutti gli Elettori abbiano dato il voto all’unanimità (tutte e due le volte).
Il primo degli otto tra loro ai quali accadde a morire in carica (uno solo il dimissionario, Richard Nixon) e detentore altresì del primato del mandato più breve (trenta giorni, dal 4 marzo 1841 al 4 aprile successivo) è stato William Harrison. Il primo Vice subentrato (il 4 aprile 1841) e che ha pertanto ricoperto l’incarico da lui non iniziato per più tempo in una sola legislatura, non dipoi ricandidandosi, (fino al 4 marzo 1845) è stato John Tyler.
A parte Washington, anche James Monroe nel 1820 avrebbe potuto avere l’unanimità degli Elettori se uno tra loro non avesse volutamente deciso di votargli contro in sede di Collegio.
Grover Cleveland è stato eletto due volte non consecutive ed è pertanto elencato sia quale ventiduesimo che come ventiquattresimo inquilino della Executive Mansion.
È per questa ragione che, pur essendo quarantaquattro le persone che hanno ricoperto l’incarico, Donald Trump è il quarantacinquesimo Presidente.
Nei tempi recenti, la votazione più ‘a valanga’ è stata quella di Ronald Reagan nel 1984: cinquecentoventicinque Elettori su cinquecentotrentotto!
Dal dopo 1951, solo due inquilini di White House tra quelli che hanno richiesto, come va facendo Trump, una seconda possibilità (Jimmy Carter e George Herbert Bush) sono stati sconfitti.

‘Presidente di minoranza’:
viene così definito il vincitore della campagna elettorale che non abbia ottenuto almeno il cinquanta per cento più uno dei voti popolari espressi. Accade questo non solamente quando il perdente per Elettori abbia avuto un miglior risultato (attenzione però: per dire, Hillary Clinton che nel 2016 si è trovata in tale situazione non aveva comunque che poco più del quarantotto) ma anche in circostanze diverse e particolari, tant’è vero che Bill Clinton è così definibile perché, impegnato in una oramai rara ‘corsa a tre’ (oltre al repubblicano George Herbert Bush era in pista il forte indipendente Ross Perot) ottenne ‘solo’ il quarantatré per cento.

Presidente ‘pro tempore’ del Senato:
allorquando il Vice Presidente USA, per Costituzione Presidente del Senato, non possa presiedere il consesso, l’incarico è assunto dal Presidente ‘pro tempore’ che è scelto tra i Senatori con la massima anzianità ed appartiene necessariamente al partito di maggioranza nell’assemblea.
Il ‘pro tempore’ è nel caso il terzo nella linea di successione al Capo dello Stato dopo il predetto Vice e lo Speaker della Camera.

‘Presidential approval rating’:
indica il livello della pubblica soddisfazione quanto all’operato del Presidente.

Presidential Election’:
è il complesso procedimento attraverso il quale si perviene alla nomina del Presidente USA.

‘Presidential Election Day Act’:
è la legge del 1845 nella quale si determina che il voto per le cosiddette elezioni Presidenziali abbia luogo il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno bisestile.
Ebbe attuazione dalla tornata del successivo 1848.

‘Presidential Transition Team’:
è il Comitato che viene preparato dai partiti in vista del trasferimento della poltrona presidenziale con annessi e connessi ad elezioni avvenute. È incaricato di provvedere totalmente alla bisogna.

‘Presumptive nominee’:
è il candidato alla Nomination che non ha più competitori, essendosi gli altri ritirati, ma che, essendoci ancora Primarie e Caucus da effettuare, non ha raggiunto la maggioranza assoluta dei delegati alla Convention. Estensivamente, permane tale definizione del predetto fino alla investitura ufficiale.

‘Primary’:
elezione diretta da parte degli elettori dei delegati – collegati ad uno dei candidati alla Nomination – di un partito alla Convention.
Nelle Primarie ‘chiuse’ sono ammessi al voto solamente gli elettori che iscrivendosi alle Liste Elettorali hanno dichiarato di essere vicini al partito che le indice. Nelle Primarie ‘aperte’ la partecipazione è appunto aperta a tutti coloro che risultano iscritti alle Liste Elettorali e non limitata.

Principio dell’Orologio:
negli Stati Uniti il Presidente, il Vice, i Senatori, i Rappresentanti vengono eletti in una data predeterminata ed entrano in carica in un’altra seguente precisata data.
Così, decadono, salvo morte o dimissioni. In questi ultimi due casi, il subentrante nell’incarico porta a termine il mandato di colui che sostituisce.
È questo – perfettamente scandito – il cosiddetto ‘Principio dell’Orologio’.

‘Proportional Representation’:
si ha quando le poltrone in un consesso sono assegnate proporzionalmente ai voti ricevuti.

‘Provisional ballot’:
momento nel quale si verificano l’identità e il diritto al voto nella circoscrizione degli elettori.

‘Pundit’:
così, con un termine di origine sanscrita che significava ‘erudito’, viene definita una persona di un qualche seguito che su determinati argomenti fornisce ai media opinioni e commenti propri. Nel caso, a proposito di temi politici.

‘Purple States’:
ovvero ‘Stati viola’, sono chiamati (e colorati) quelli nei quali il risultato elettorale è verificabile solo dopo attento esame e non facilmente. ‘Too close to call’, in buona sostanza.

‘Push polling’:
si ha quando pseudo sondaggi vengono usati per influenzare il voto e le volontà degli elettori.

‘Rally round the flag effect’:
è la situazione nella quale, per via di una guerra in atto, di una epidemia, di un disastro naturale di grande portata, gli elettori, per un più o meno lungo periodo, si stringono attorno alla bandiera e pertanto alla Casa Bianca, chiunque la abiti.

‘Ranked-Choise voting’:
è un ‘system’ per il quale gli elettori esprimono le loro preferenze riguardo ai diversi candidati in competizione. Se uno tra questi raggiunge la maggioranza viene eletto.
Altrimenti, l’ultimo in graduatoria resta escluso e la votazione viene ripetuta.
Si torna alle urne dipoi – eliminando ogni volta il meno votato – fino a quando il cinquanta per cento non viene superato da qualcuno.

‘Recall’:
è la possibile (negli Stati che la regolano e non a livello nazionale) revoca di una carica elettiva a seguito di un ricorso motivato e della seguente raccolta di firme (nel numero, alto, e nei tempi, limitati, indicati dalla norma stessa).

‘Recanvass’:
riconteggio dei voti a seguito di un ricorso.

‘Reconstruction era’:
il riferimento temporale va al periodo, sostanzialmente di protettorato nordista del Sud, concernente gli ultimi due anni della Guerra di Secessione e quelli seguenti, indicativamente fino al 1877. È difatti a seguito del ‘Compromesso del 1877’ – che determina l’entrata in carica del repubblicano Rutherford Hayes – che le truppe nordiste che occupavano il Sud sconfitto e sottomesso si ritirano.

‘Recount’:
riconteggio dei voti che ha luogo se e quando si sospetti un errore nei calcoli fatti.

‘Red State’:
Stato che si esprime di norma a favore dei repubblicani (sulla carta geografica che rappresenta gli Stati nel giorno elettorale quelli aggiudicati ai democratici sono colorati appunto di rosso).

‘Red Wall’:
il complesso degli Stati che usualmente votano repubblicano. Il conteggio relativo al numero totale dei loro Elettori è decisamente inferiore oggi rispetto a quello che promana dal suddetto ‘Blue Wall’ democratico.

‘Rednecks’:
così venivano chiamati i contadini degli Stati del ‘Deep South’ (‘Profondo Sud’), insieme delle regioni meridionali della costa orientale USA – dal ‘collo rosso’ perché esposto ai raggi del sole mentre lavoravano i campi – tendenzialmente razzisti e poi segregazionisti.

‘Registered voter’:
persona in regola per votare in quanto registrata seguendo le locali disposizioni in merito.

‘Regulation’:
è una disposizione presa da un corpo esecutivo.

‘Republican National Committee’ (RNC):
è il Comitato che sovraintende alle attività partitiche e al supporto degli eletti al Congresso del movimento politico il cui simbolo è l’Elefantino.

‘Republicanism’:
è la più importante filosofia politica americana.

‘Riot ideology’:
ovvero ‘ideologia della sommossa’, espressione usata recentemente per denunciare la dottrina che regola non poche pubbliche azioni di rivolta durante le quali si ricorre alla violenza contro persone e beni sia pubblici che privati.

‘Roll call’:
è l’appello in ordine alfabetico delle delegazioni degli Stati che viene fatto nelle Convention al momento delle votazioni per la Nomination.

‘Running Mate’:
candidato alla Vice Presidenza che affianca nel ‘ticket’ partitico il candidato alla Casa Bianca.

‘Runoff’:
è un sistema elettorale nel quale ad una carica viene eletto il candidato che supera una soglia minima richiesta di voti. Nel caso in cui nessuno tra i pretendenti ottenga il risultato indicato si procede al ballottaggio tra i due (che possono anche appartenere allo stesso partito) che hanno ottenuto il maggior numero di suffragi.
Viene definita ‘Primary Runoff’ la procedura simile che determina la scelta dei delegati alle Primarie in vista delle Convention.

‘Rural voters’:
è il voto degli elettori delle campagne e delle periferie quello che ha deciso in particolare in Pennsylvania nel 2016. Il voto ‘rurale’, che arriva per ultimo e cambia dal blu (i cittadini di questi tempi votano democratico) al rosso (repubblicano) il colore partitico dello Stato.

‘Rust Belt Voters’:
sono stati così denominati gli elettori della ‘cintura della ruggine’, votanti cioè negli Stati nei quali, a causa della crisi economica, già negli anni Ottanta/Novanta del Novecento nelle fabbriche chiuse i macchinari non utilizzati si erano appunto arrugginiti. Nel 2016, esacerbati dalla irrisolta recrudescenza del 2008/2009, hanno avuto un determinante peso esprimendosi per Trump in particolare in Pennsylvania, Michigan e Wisconsin.

Varese, 7 dicembre 2023

Biden: “Gli aiuti all’Ucraina non possono attendere”.

Dal Presidente un appello al Congresso ma la maggioranza repubblicana alla Camera si rifiuta, salvo concessioni a proposito della immigrazione, di approvare un ulteriore pacchetto di aiuti.

dal Telegiornale RSI
del 6 dicembre 2023

Joe Biden è sceso in campo in prima persona mercoledì per perorare la causa del proseguimento del sostegno militare statunitense all’Ucraina, indispensabile per Kiev. “Non si può più attendere”, ha dichiarato il presidente rivolgendosi con toni solenni dalla Casa Bianca ai membri del Congresso, dove democratici e repubblicani non sono d’accordo su un credito da 106 miliardi di dollari, 61 dei quali da destinare al Paese in guerra con la Russia di cui Washington è stata il principale “sponsor” in quasi due anni di conflitto.

Il fallimento del voto “sarebbe un regalo per Vladimir Putin”, ha dichiarato il presidente, sostenendo che il suo omologo russo in caso di vittoria non si fermerebbe alla sola Ucraina e che si avvicinerebbe l’opzione di dover intervenire militarmente a difesa degli alleati della NATO e quindi di un confronto diretto con la Russia. Poco prima di Biden, a un summit virtuale del G7, aveva parlato Volodymyr Zelensky. Il capo dello Stato ucraino, che martedì aveva cancellato in extremis e senza spiegazioni ufficiali un intervento in videoconferenza davanti ai parlamentari statunitensi, ha sostenuto la medesima tesi dell’inquilino della Casa Bianca: la Russia conta sul “collasso” dell’unità dell’Occidente l’anno prossimo e nel frattempo ha “significativamente aumentato la pressione” sul fronte lungo mille chilometri.

Un appello che è caduto però nel vuoto. Nella serata di mercoledì i repubblicani al Senato hanno infatti bloccato in un voto procedurale la proposta di legge con gli aiuti per Israele e l’Ucraina, chiedendo più severe misure di controllo al confine col Messico. Uno scontro che rischia di far deragliare l’approvazione del provvedimento.

Uno stop agli aiuti statunitensi sarebbe uno scenario catastrofico per Kiev e – a meno di un’intesa a Washington – appare pericolosamente vicino: proprio mercoledì è stato dato il via libera a un pacchetto da 175 milioni di dollari, ma potrebbe essere uno degli ultimi. Attorno a fine anno i fondi già votati si esauriranno.

Zelensky ha inviato a Washington il suo numero due Andriy Yermak insieme al ministro della difesa Rustem Umerov e al presidente della Verkhovna Rada Ruslan Stefanchuk per perorare la causa ucraina.

Sullo sfondo del dibattito sul tema di politica estera, negli Stati Uniti ce ne è uno di politica interna e dietro ancora l’ombra delle elezioni presidenziali fra 11 mesi. Biden si è detto pronto a “compromessi importanti” sulla migrazione: in cambio del loro sostegno al pacchetto di aiuti, i leader repubblicani al Senato chiedono infatti una significativa stretta al confine meridionale con il Messico.

Varese, 7 dicembre 2023

‘Gate’

1962, Washington
Per conto della Società Generale Immobiliare – attiva fin dall’Ottocento nel campo dell’edilizia – il grande architetto e urbanista italiano Luigi Moretti progetta e realizza un complesso residenziale di particolare vastità e portata che viene denominato ‘Watergate’.

1972, anno elettorale USA
(Il Presidente in carica Richard Nixon, repubblicano, conta di essere confermato alla Casa Bianca.
Contro di lui, il democratico George McGovern).
Nel predetto complesso Watergate trova collocazione il Quartier Generale del Comitato Nazionale del Partito Democratico.
Nella notte del 17 giugno la polizia, chiamata da un sorvegliante, interviene e negli uffici del citato Comitato arresta cinque persone.
Apparentemente dei ladri, i cinque risulteranno in verità agenti collegati al Partito Repubblicano impegnati in un’opera di spionaggio politico.
Da questo, alla vista, poco significativo accadimento prende il via quello che sarà poi noto ovunque come lo ‘Scandalo Watergate’.
Conseguenza ultima dello stesso le dimissioni del Presidente Richard Nixon, le prime e finora uniche nella Storia di un Capo di Stato USA.

È da questo momento che i media, nel denominare i diversi seguenti scandali politici useranno invariabilmente il suffisso ‘gate’.
Per fare solo alcuni esempi, ‘Irangate’, ‘Whitewatergate’, ‘Datagate’, ‘Russiagate’.

Varese, 7 dicembre 2023

‘Ohioans’ sette Presidenti, tutti repubblicani!

Lo sappiamo, dal dopoguerra (politicamente, un tempo infinito), l’Ohio – due sole eccezioni nel 1960 e nel 2020 – vota per il vincitore.
In parole povere, chi vince colà arriva a White House.
Il più classico ed affidabile ‘Swing State’.
È, peraltro, lo Stato con capitale Columbus giustamente definito ‘Modern Mother of Presidents’ (‘Modern’ per distinguerlo dalla Virginia, antica fucina di Capi dello Stato) avendone ‘prodotti’ sette.
Eccoli in ordine di insediamento:
Ulysses Grant
Rutherford Hayes
James Garfield
Benjamin Harrison
William McKinley
William Taft
Warren Harding.
Tutti raccolti in un ‘momento’ storico che partendo dal termine della Guerra di Secessione si protende fino ai primi Venti del Novecento.
E – incredibilmente? – tutti repubblicani.

Varese, 7 dicembre 2023

Paul Pender, a segnare il Tempo

Fu all’inizio di quel benedetto 1960 che Sugar Ray Robinson perse la cintura ad opera di Paul Pender, pressappoco un frillo. Ai punti, una split decision.
Non gli diedi importanza.
Sapevo che da lì a poco, nella programmata rivincita, come accaduto in precedenza più volte al fine di tirare in barca due belle borse invece di una, il grande Sugar l’avrebbe ripresa.
Molto probabilmente, per ko.
Rimasi pertanto esterrefatto quando il successivo 10 giugno Pender mantenne – di stretta misura, è vero – il titolo.
Erano quelli i tempi nei quali per quanto mi riguardava la boxe definiva, datava, ed è per questo che – ci sarebbero state le Olimpiadi a Roma… – il 1960 resta per me ‘l’anno nel quale Paul Pender divenne campione dei medi detronizzando Ray Sugar Robinson, briscola’.
In secondo, terzo piano qualsiasi altro accadimento.
Volevo e voglio ben vedere!

Varese, 7 dicembre 2023

John McEnroe, tra gli uomini, ‘Big Three’ compresi, il più grande di sempre 

Il rosso e mancino tennista americano John McEnroe – nato a Wiesbaden, in Germania, il 16 febbraio 1959 – è il solo maschio (tra le Signore, in assoluto Martina Navratilova e in campi specifici Chris Evert, Margaret Smith Court e Steffi Graf hanno risultati più significativi) all time dello sport dei gesti bianchi che abbia vinto in carriera più di settanta (complessivamente centocinquantasei, centosessantadue invero se si tiene conto delle cinque Davis riportate e del doppio misto agli Open USA nel 1977) Campionati ATP sia in singolare che in coppia (è stato autorevolmente detto: “il doppio più forte possibile è John McEnroe con chiunque altro”) per complessivi oltre mille quattrocento match.
Il suo anno migliore – comunque il migliore di sempre nella storia, tutti i più grandi giocatori compresi – è l’assolutamente memorabile 1984.
Mc lo cominciò vincendo il Masters (che all’epoca si svolgeva a gennaio) sconfiggendo in finale Ivan Lendl e aggiudicandosi il trofeo per la seconda volta in carriera.
Raggiunse poi, come mai gli era successo in precedenza,  l’ultimo atto del Roland Garros a Parigi, venendo sconfitto dallo stesso Lendl in un combattutissimo confronto.
Nella circostanza, vinse i primi due set, ma subì la rimonta del ceco che nel corso del match modificò il suo stile di gioco.
Questa sconfitta impedì a McEnroe di conquistare un titolo che rincorrerà vanamente fino all’ultimo e pose fine alla striscia di quarantadue vittorie consecutive dall’inizio dell’anno (record avvicinato da Novak Djokovic il quale nel 2011 si fermerà a quarantuno).
Si rifece a Wimbledon, battendo Jimmy Connors con un perentorio punteggio.
Vinse anche il quarto US Open della carriera prendendosi la rivincita sul pluri citato avversario Lendl in soli tre set.
Durante tutta quella stagione il grande mancino vinse in totale tredici prove ATP sulle quindici alle quali prese parte (oltre a Masters, Wimbledon e United States Open, le prestigiose Finali WCT di Dallas, il Torneo dei Campioni di Forest Hills, il Queen’s londinese e il Canadian Open a Toronto),
battendo, tra gli altri, in sei occasioni ancora Ivan Lendl, in quattro Jimmy Connors e una volta Mats Wilander, stabilendo così un eccezionale primato di ottantadue vittorie e sole tre sconfitte su ottantacinque partite disputate e firmando la miglior percentuale di match vinti in un anno (novantasei e cinque per cento) dalla nascita nel 1973 del ranking ATP.
Oltre alla citata finale del Roland Garros, perse facendosi battere intenzionalmente al primo turno del Torneo di Cincinnati da Vijay Amritraj per potersi prendere una settimana di pausa prima dell’Open degli Stati Uniti (in Ohio si giocava la settimana immediatamente precedente il Campionato), pausa impedita dai doveri che imponeva il Circus e dagli sponsor, e, ancora sulla terra rossa come in Francia, nella finale di Coppa Davis da Henrik Sundstrom, autore della partita della vita.
Nel 2005 (ottantuno a quattro) e nel 2006 (novantadue a cinque) Roger Federer avrebbe avvicinato ma non battuto il citato record, così come Novak Djokovic nel 2011 (settanta a sei) e soprattutto nel 2015 (ottantadue a sei).
Tra le particolarità da ricordare, il fatto che, non avendo ottenuto nel 1985 risultati all’altezza delle sue altissime aspettative (dopo avere sbagliato un colpo, in una circostanza, riferendosi a se stesso, aveva detto “Sei la vergogna del genere umano!”), nel successivo anno, non abbia giocato neppure un match fino agli US Open, nei quali fu ovviamente (privo di ogni riferimento) battuto  al primo turno.
Parafrasando Giovenale, John McEnroe era capace sul campo di comprendere e ‘perdonare’ le pecche degli altri.
Mai, in ogni caso, le proprie.

Varese, 7 dicembre 2023

Il Glossario essenziale della politica americana continua … 

‘October surprise’:
la ‘sorpresa d’ottobre’ – sperata dal candidato nei sondaggi perdente e temuta da quello collocato in vantaggio dalle rilevazioni – sarebbe l’accadimento, la rivelazione, la voce sostenibile e accreditata che all’ultimo momento (dato che si vota il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre) sposta gli equilibri e provoca inattesi rovesciamenti.

‘Official affiliation’:
iscrizione alle liste elettorali con indicazione del partito di riferimento.

‘Ohioans’:
tra il 1868 (prima elezione di Ulysses Grant) e il 1920 (vittoria di Warren Harding) un totale di sette ‘figli dell’Ohio’ arrivò alla Presidenza. Oltre ai due citati, nell’ordine, Hayes, Garfield, B. Harrison, McKinley e Taft.

‘Opinion poll’:
rilevazione fatta usualmente via telefono per conoscere le intenzioni di voto degli elettori.

‘Originalism’:
ovviamemente in italiano Originalismo: teoria che nella interpretazione dei testi costituzionali si contrappone alla evolutiva. Vuole la massima possibile aderenza al ragionevole significato (‘original meaning’) ossia all’intenzione (‘original intent’) dei Padri Costituenti nel dettare le disposizioni.

‘Overhang Seat’:
occorre quando un partito arrivi a ricoprire in un consesso più scranni di quanti il voto in proporzione gliene attribuirebbe.

‘Override veto’:
la situazione congressuale nella quale le Camere superano il veto presidenziale ad una legge votandola nuovamente con la richiesta maggioranza qualificata dei due terzi.

‘Overton window’ (‘finestra di Overton’):
è un concetto di ingegneria sociale introdotto da Joseph Overton. Dice (e dimostra) che ogni idea o affermazione – non certamente solo in campo politico laddove, semplificando, si confrontano progressisti e conservatori – per quanto inammissibile o addirittura intollerabile eticamente e pubblicamente appaia (e sia percepita) in un determinato momento e contesto, può essere da ultimo fatta accettare operando in sequenza secondo uno schema che prevede sei diverse fasi.
Da – inconcepibile (‘unthinkable’), si agisce perché passi a – estrema (‘radical’), poi a – accettabile (‘acceptable’), a – ragionevole (‘sensible’), a – diffusa (‘popular’), a – legalizzata (‘policy’) e i giochi sono fatti.
Storicamente, in infiniti casi – con minore rapidità quanto all’oggi essendo i mezzi di comunicazione e diffusione culturali assai meno avanzati – si è su questa falsariga proceduto. Ovviamente – mentre l’iter illustrato può essere considerato (non da tutti, dalla maggioranza che si è andata sullo stesso percorso formando) ai nostri giorni liberal, corretto, come detto, progressista – anche nel senso opposto, riuscendo ad ottenere che da ‘legalizzata’ una idea, da parte di qualcuno ritenuta di contro moralmente condannabile, arrivi infine ad essere ‘inconcepibile’.

‘Parliamentary Sovereignty’:
si ha quando il potere del Parlamento è superiore a quelli dell’Esecutivo e del Giudiziario.

‘Perennial candidates’:
sono in questo modo definiti quei personaggi che si candidano ripetutamente ad una carica non avendo possibilità di effettiva elezione.
Può capitare, come nel caso di Eugene McCarthy, che in una prima occasione (era il 1968) abbiano una qualche probabilità di riuscita, fallita la quale, non accettando le retrovie, sempre meno efficacemente, riprovino cambiando schieramento.
Non devono essere in cotal modo definiti uomini quali Eugene Debs – molte volte investito della Nomination del Partito Socialista nei primi decenni del ventesimo secolo – in quanto ‘di bandiera’, in rappresentanza di una idea.

‘Perennial Swing State’:
Stati che con buona regolarità votano differentemente non restando ancorati a un partito. Sono gli Stati ai quali si deve maggiore attenzione perché i loro spostamenti decidono le elezioni.

‘Platform’:
il programma dei partiti come approvato nelle Convention.

‘Platform Committee’:
è il Comitato preposto alla formulazione del programma dei partiti.

‘Pledged delegates’:
altresì detti ‘bound delegates’, sono i delegati alle Convention ai quali è posto un limite (‘bound’): sono difatti tenuti a votare nel primo ballottaggio congressuale secondo i risultati delle consultazioni primarie dei loro Stati e quindi il candidato al quale sono collegati.

‘Political Action Committee’:
sono i PAC e i Superpac Comitati che nascono per organizzare la raccolta fondi a favore di un candidato. Possono usare, e lo fanno, i denari raccolti anche per ostacolare gli avversari del politico che sostengono.

‘Political Party’:
è un gruppo di persone che si prefigge di governare e legiferare seguendo un programma elettorale scelto e voluto.

‘Political Pressure Group’:
organizzazione tesa ad influenzare il Governo, la legislazione e la pubblica opinione.

‘Poll’:
sondaggio elettorale precedente le votazioni.

‘Polling era’:
è nel 1940 che per iniziativa della Gallup si tenne il primo sondaggio (‘poll’) relativo alle elezioni presidenziali. Ebbe così inizio un’era nella quale sempre più se ne ordinano e fanno, la qual cosa, come si è visto nel 2016 (ma non solo), non garantisce affatto una corretta anticipazione degli esiti novembrini.

‘Polling place’:
è il luogo (seggio) nel quale si esercita il diritto di voto nelle urne. È assegnato sulla base del proprio indirizzo legale.

‘Pollster’:
sondaggista.

‘Postal Voting’:
è una forma dell’Absentee Voting. Forma a proposito della cui diffusione si discute dato che i Repubblicani temono possa essere usata per organizzare truffe elettorali.

‘Precinct’ (‘Election District’, ‘Voting District’):
è la circoscrizione elettorale.

Varese, 6 dicembre 2023

Stasera a Tuscaloosa, Alabama, quarto dibattito pubblico tra i candidati repubblicani alla Nomination.
Assente ancora una volta Donald Trump, rispettando i criteri dettati dal Republican National Committee, sono ammessi soltanto
Ron DeSantis
Nikki Haley
Chris Christie
Vivek Ramaswam

Varese, 6 dicembre 2023

James Monroe
L’Età dei buoni sentimenti e la ‘dottrina’ che porta il suo nome in verità opera di John Quincy Adams

Al Senato già nel 1790, il giovane James Monroe (1758/1831) che, pressoché imberbe, aveva eroicamente partecipato alla Rivoluzione, si distinse per la sua opposizione a George Washington.
Spedito da questi (che pensava di liberarsene) nel 1794 in Francia con la qualifica di ministro plenipotenziario, ne fu richiamato nel 1796 perché considerato troppo esplicitamente favorevole alla Repubblica per noi d’oltralpe.
Monroe dovette attendere (per così dire, in seconda fila) l’elezione di Jefferson, che ne apprezzava le doti diplomatiche e politiche, per tornare ad incarichi di rilievo ancora a Parigi laddove trattò e concluse il cosiddetto ‘Louisiana Purchase’ – firmato il 30 aprile 1803 – accordo con il quale l’Unione acquistava dalla Francia napoleonica i vastissimi territori che oggi costituiscono quattro Stati americani (Arkansas, Iowa, Missouri e Nebraska) e sono parte di altri nove (Louisiana, Minnesota, Oklahoma, Kansas, Colorado, Wyoming, Montana, Nord e Sud Dakota).
Passato da Parigi a Madrid, con l’intento di ottenere dal governo spagnolo la cessione agli USA della Florida, non ebbe altrettanto successo (riuscirà, comunque, nell’impresa, più avanti, nel corso del suo primo mandato presidenziale, precisamente nel 1819).
Segretario di Stato con James Madison, guidò la politica estera del Paese nei difficilissimi anni del conflitto con gli inglesi, noto come Guerra del 1812, e nel 1816, a larga maggioranza, fu eletto quinto capo dello Stato.
Quattro anni dopo, venne confermato praticamente senza opposizione se non quella, formale, di John Quincy Adams, di poi suo ministro degli esteri.
La presidenza Monroe – otto anni di concordia nazionale ricordati come ‘l’età dei buoni sentimenti’ – è fondamentale nella storia americana soprattutto per la proclamazione, il 2 dicembre 1823, in un messaggio diretto al Congresso, da parte sua, della ‘Dottrina’ che da lui prende il nome anche se  vero artefice ne fu il secondo Adams (John Quincy era difatti figlio del successore di Washington John Adams).
Essa stabilisce che “i continenti americani non devono essere considerati oggetto di futura colonizzazione da parte di qualsiasi potenza europea”, che “qualsivoglia tentativo da parte delle potenze europee di estendere il proprio sistema politico a qualunque parte di questo emisfero sarà considerato pericoloso per la nostra pace e sicurezza” e che “con le esistenti colonie di qualsiasi potenza europea e con le guerre tra le potenze europee” in cui il continente americano non avesse un diretto interesse, l’Unione non avrebbe interferito.
La ‘Dottrina Monroe affermava per la prima volta e con autorevolezza il ruolo internazionale degli Stati Uniti.

Varese, 6 dicembre 2023

Albert Gallatin,
Svizzero (meglio, Ginevrino) di gran classe

Dal 1801 al 1814.
Sotto due Presidenti, Thomas Jefferson e James Madison.
La più lunga e maggiormente produttiva permanenza al Ministero del Tesoro USA è vanto di uno Svizzero: Albert Gallatin!!!
Nato a Ginevra nel 1761 (invero, prima che la città venisse a far parte della Svizzera) e arrivato nel 1780 negli Stati Uniti, il Nostro si dimostrò da subito uomo politico di grande spessore e capacissimo economista.
Eletto Senatore, fu come ora detto nominato Segretario
al Tesoro da Jefferson.
Per mandato proprio del terzo Presidente, che considerava il debito nazionale “un cancro morale”, riuscì a ridurlo da ottantatre a quarantacinque milioni di dollari.
Attuò, poi, drastiche diminuzioni della spesa pubblica tagliando in particolare gli investimenti per l’Esercito e la Marina.
Fu però in difficoltà a Guerra del 1812 tuttora in corso, a seguito del sostanziale fallimento anche per l’opposizione del Congresso agli atti da lui compiuti per ottenere finanziamenti a sostegno delle spese derivanti dal conflitto.
Lasciato l’incarico ministeriale, fu a capo della Delegazione USA che concluse il Trattato di Gand (in fiammingo, Gent) col quale si poneva termine alla predetta guerra.
Con lui in Belgio per l’occasione, altri due, importantissimi in futuro, uomini politici: John Quincy Adams e Henry Clay.
Fu in seguito Ambasciatore americano prima a Parigi e poi a Londra.
Nel 1824, si parlò a fondo della possibilità di candidarlo per la Vice Presidenza.
Essendo Gallatin nato prima della Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio 1776, poteva aspirare alla carica presidenziale come a quella vice presidenziale pur non essendo cittadino americano dalla nascita, requisito evidentemente non proponibile nei primi decenni di esistenza dell’Unione.
Alla fine, accanto a John Quincy Adams nel quadriennio in questione sedette John Calhoun.
Uno svizzero, il ginevrino, capace davvero di farsi onore in America.

Varese, 6 dicembre 2023

Alfred Smith il ‘papista’

Il primo cattolico che pensò seriamente alla presidenza non fu, come molti credono, John F. Kennedy ma Alfred E. Smith.
Orfano a quindici anni e costretto a lasciare la scuola per lavorare come contabile per mantenere la madre e i quattro fratelli minori, Smith si dimostrò subito un vero ‘animale’ politico.
Membro dell’assemblea dello Stato di New York per i democratici nel 1902, in seguito sceriffo della Contea (sempre di New York) e presidente del circolo comunale, Alfred, nel 1918, arrivò facilmente al governatorato dello Stato venendo di poi rieletto, con l’eccezione del 1920, altre tre volte.
Contrapposto, nel 1924, nella Convention nazionale del partito dell’asino che si svolgeva al Madison Square Garden, a William Gibbs McAdoo (genero dell’ex presidente Wilson e già ministro del Tesoro), risultati inutili ben centodue scrutini, si vide obbligato, insieme al rivale, a ritirare la candidatura a favore di John Davis che venne così nominato alla centotreesima votazione per essere poi battuto dal capo dello Stato uscente il repubblicano Calvin Coolidge.
Tornato alla carica nel 1928, ‘l’eroico guerriero’ (in tal modo lo aveva battezzato, presentandolo ufficialmente in questa seconda occasione ai delegati, Franklin Delano Roosevelt), sia pure con difficoltà, ottenne la tanto sospirata Nomination ed ingaggiò un aspro duello con il concorrente prescelto dal Gop Herbert Hoover.
Come scrive Michael Parrish in ‘L’età dell’ansia’, “lo scontro tra Hoover e Smith è stata l’ultima epica battaglia culturale degli anni Venti, una battaglia tra opposte realtà religiose, etniche e geografiche.
Cattolicesimo irlandese (quello di Smith), contro protestantesimo, città contro campagna, proibizionisti contro antiproibizionisti…
Smith rappresentava le classi lavoratrici urbane, Hoover il management capitalista illuminato”.
I due fattori che decisero – rovinosamente per il Nostro che si affermò solo in otto Stati su quarantotto – la tenzone furono la sua posizione sul proibizionismo (voleva abrogare l’Emendamento che lo aveva introdotto e perciò fu brutalmente accusato di essere un ubriacone) e, soprattutto il conclamato cattolicesimo (nel suo ufficio di governatore ad Albany campeggiava un ritratto di papa Pio XI con la dedica: ‘Al mio amatissimo figlio Alfred Smith’).
Dai più fanatici tra gli avversari fu addirittura accusato di cospirare con il papa per distruggere la libertà religiosa e politica del Paese!

Sarebbero occorsi dipoi ben trentadue anni perché, in una differente temperie, un altro cattolico si candidasse a White House portando peraltro a compimento l’impresa: John Kennedy, ovviamente.
Il terzo ‘papista’ – per tornare al vecchio dileggio usato contro Smith – che ha affrontato la sfida, questa volta perdendo, è stato John Kerry, demolito facilmente dal George Walker Bush nel 2004.
Sarà infine Joe Biden – secondo cattolico eletto – nel 2020 a ripercorrere la strada vittoriosa di Kennedy.

Varese, 6 dicembre 2023

Il Glossario essenziale della politica americana continua … 

‘Magic number’:
è il numero di Elettori necessario per ottenere la maggioranza assoluta nelle votazioni cosiddette presidenziali e diventare Capo dello Stato.
Evidentemente, aumentando gli Stati, il totale dei delegati nazionali da eleggere si è adeguato. Dalle elezioni del 1964, essendo questi in totale cinquecentotrentotto, il ‘numero magico’ è duecentosettanta.

‘Majority and Minority Leaders’:
al Senato come alla Camera, nelle prime sedute di ogni Legislatura, i partiti si organizzano e a scrutinio segreto scelgono i rispettivi capi.
Il movimento politico che ha nei consessi il più gran numero di scranni elegge pertanto, alla Bassa come alla Alta, al proprio interno, il ‘Majority Leader’.
L’altro provvede di contro alla individuazione del ‘Minority Leader’.
Coadiuvati dai rispettivi ‘Whip’, operano in accordo (teorico?) con gli organi delle Camere di appartenenza per organizzarne e regolarne i lavori.

‘Majority Vote’:
è il sistema elettorale nel quale il candidato che riceve più voti vince le elezioni.

‘Majority-vote system’:
tutti i candidati, prescindendo dalla appartenenza politica, concorrono. È eletto chi supera il cinquanta per cento dei voti. Nel caso in cui nessuno risulti in grado di farlo, si procede a una seconda votazione tra i primi due classificati.

Maledizione dell’anno zero’ (‘Zero-year curse’, Curse of Tippecanoe’, ‘Tecumseh Curse’, ‘Presidential Curse’, ‘Twenty-year Curse’, ‘Twenty-year presidential Jinx’), laddove il riferimento a Tippecanoe o a Tecumseh è alla battaglia nella quale il futuro Presidente William Harrison sconfisse il grande capo pellerossa il cui fratello (se non egli stesso) la lanciò:
dal 1840 e fino al 1960 compreso, tutti gli inquilini eletti o confermati in carica in un anno con finale zero sono morti, quattro per cause naturali e quattro assassinati: William Harrison (vincitore appunto nel 1840), Abraham Lincoln (rieletto nel 1860), John Garfield (votato nel 1860), William McKinley (confermato nel 1900), Warren Harding (vittorioso nel 1920), Franklin Delano Roosevelt (rieletto una terza volta nel 1940), John Kennedy (in sella dopo la vittoriosa campagna datata 1960).
La sequenza si è interrotta con Ronald Reagan, vincente nel 1980, che scampò miracolosamente ad un attentato.

‘Mandatory retirement date’:
i Giudici Federali tutti (e in primis quelli della Corte Suprema) non hanno alcun limite temporale di mandato. Non altrettanto, a livello di molti Stati trentatre dei quali più il District of Columbia propongono norme costituzionali in merito. (Divertente, il fatto che nel 2003 il Vermont abbia deciso di mandare in pensione i novantenni, mentre in genere il commiato riguarda persone tra i settanta e i settantacinque).
Non hanno limiti di mandato
Arkansas California Delaware Georgia Idaho Kentucky Maine Mississippi Montana Nebraska Nevada New Mexico North Dakota Oklahoma Rhode Island
Tennessee West Virginia

‘Manifesto’:
in italiano perché ripreso non mutato, e da allora usato in campo politico, da Nathaniel Brent nella sua traduzione della ‘Storia del Concilio di Trento’ di Paolo Sarpi.

‘Margin of error’:
ogni rilevazione sondaggistica, per quanto accurata sia, prevede un margine d’errore. Maggiore o minore a seconda dei criteri seguiti e del numero degli elettori coinvolti.

‘Maverick’:
è così denominato il candidato non identificabile – per quanto lo rappresenti elettoralmente – con uno dei partiti in corsa per la carica (presidenziale ma non solo).
Era così chiamato il vitello non marchiato del quale pertanto non si conosceva il padrone.

‘Mid Term Elections’:
essendo il mandato dei Rappresentanti biennale e venendo ogni due anni rinnovato un terzo dei Senatori, ovviamente, oltre alle tornate elettorali per i due rami del Congresso coincidenti con le votazioni per la scelta degli Elettori, si svolgono, a metà (e per questo vengono in cotal modo chiamate) del mandato presidenziale, le ‘Mid Term Elections’.
Nella circostanza, ‘il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre’ dell’anno pari intermedio tra le Presidenziali, come detto, gli scranni della Camera sono messi tutti in gioco, mentre quelli del Senato solamente per la Classe di membri dello stesso in scadenza (un terzo, ai quali si possono aggiungere, se del caso, elezioni per seggi vacanti a seguito di morte o dimissione del titolare).

‘Muckrakers’:
così Teddy Roosevelt definì alcuni suoi critici paragonandoli all’uomo col rastrello da letame nel ‘Pilgrim’s Progress’ di John Bunyan, personaggio che non riesce mai a vedere ciò che lo circonda perché guarda solo in basso al lerciume che sta spalando.

‘Neck to neck’:
testa a testa.

‘New Deal’:
è l’espressione con la quale si definiva e definisce il piano di riforme economiche e sociali voluto da Franklin Delano Roosevelt al fine di combattere la Grande Depressione.

‘New Deal Coalition’:
viene così definito il fronte di gruppi politici, sociali ed economici creato da Franklin Delano Roosevelt sulla base del ‘New Deal’. Resse sostanzialmente – sia pure con l’intervallo delle due Presidenze Eisenhower nei Cinquanta – dal 1932 al 1968, quando Nixon prevalse su Humphrey.

‘Nomination’:
l’investitura a candidato alla Presidenza che viene ufficializzata nelle Convention.

‘Nominee’:
la persona infine scelta da un partito per rappresentarlo in una elezione.

‘None of the Above’:
è l’opzione che consente all’elettore di non votare per nessuna delle persone candidate.

‘Notable declared candidates’:
sono così definiti i candidati a White House regolarmente iscritti alla ‘Federal Election Commission’ (FEC) che ricoprano o abbiano in precedenza ricoperto incarichi pubblici o che altrimenti dimostrino di avere alle spalle una organizzazione che permetta loro di avere un qualche riscontro in termini di voti.
Negli ultimi anni, ai democratici e ai repubblicani si sono faticosamente aggiunti i libertariani e i verdi.

‘NRA, National Rifle Association’:
nota come ‘Lobby delle armi’, è l’associazione dei produttori di armamenti ed è particolarmente importante ai fini elettorali appoggiando economicamente e sostenendo i politici più vicini e ostacolando i contrari. È usualmente prossima al Partito Repubblicano.
Tale ruolo si è ufficialmente esplicitato per la prima volta a livello di Presidenziali nel 1980, quando dichiarò il proprio sostegno a Ronald Reagan.

Il Guerin Sportivo, 5 dicembre 2023

Mauro della Porta Raffo e
Italo Cucci
 
a proposito dei titoli di alcune opere letterarie americane
di John Steinbeck
attraverso Raymond Chandler di Marco Pantani
di Dashiell Hammett
di un’Australia sognata
di Oreste del Buono
di Giorgio Scerbanenko
volendo di Gianni Brera
di viaggi alla ricerca della casa di Steinbeck diventata ristorante…

Caro Italo,
anni fa, Patrizia Valduga, intervenendo sul Corriere della Sera a proposito di alcuni titoli di capolavori della letteratura straniera ‘travisati’ nella traduzione italiana, scriveva che “ce ne sono di traditi a fin di bene come il famosissimo
‘Incompreso’ al posto di un brutto ‘Frainteso’, o come ‘Furore’ (in originale ‘The grapes of wrath’) al posto di ‘L’uva di furore’ di Steinbeck”.
Ora, proprio in merito al celeberrimo romanzo del premio Nobel americano avevo e ho qualche dubbio nel concordare con Valduga, considerato che la traduzione italiana (certamente, ormai, immodificabile), nella sua incisività, in effetti ‘nasconde’ e cancella gran parte del significato originale dell’espressione scelta da Steinbeck ad ‘improntare’ il suo libro.
‘The grapes of wrath’, infatti, altro non è che un verso del famosissimo ‘The battle-hymn of the Republic’ (l’inno di battaglia della Repubblica), composto durante la guerra civile americana, che ben rappresenta una visione apocalittica, da fine del mondo.
Il testo in cui appare la frase in questione è il seguente: “I miei occhi hanno visto la gloria della venuta del Signore/sta pigiando il vino dove è riposta l’uva del furore”.
Conseguentemente, è proprio ‘l’uva del furore’ (o, forse, dell’ira) per intero che contiene un imprescindibile riferimento, sia alle visioni di abbondanza che portarono gli ‘Okies’ – e cioè gli abitanti dell’Oklahoma -ai tempi della Grande Depressione, verso l’Ovest e la California, dove speravano di trovare lavoro, sia alla profonda amarezza della loro successiva delusione.
Visto che di scrittori americani vado trattando, la oramai lontana (1998) vittoria del povero Marco Pantani al Tour de France riporta alla mente un racconto di Raymond Chandler, ‘il re in giallo’, il cui titolo, perfettamente, si attaglia allo scalatore romagnolo, vero ‘re’ delle montagne, allora arrivato, appunto, in maglia gialla a Parigi.
Considerato poi che al nome di Chandler si accosta subito nella memoria quello di Dashiell Hammett, mi sembra divertente svelare un ‘mistero’ e cioè come e perché, a detta della sua amica e compagna Lillian Hellman, quest’ultimo abbia improvvisamente e definitivamente lasciato l’agenzia investigativa Pinkerton presso la quale aveva operato a due riprese, ‘immagazzinando’, per così dire, gran parte delle storie, successivamente, in romanzi e racconti, narrate.
Scrive, dunque, Hellman (nell’imperdibile introduzione, intitolata ‘Un amico, un certo Hammett, alla raccolta “L’istinto della caccia’, che presenta parte delle storie brevi dell’inventore di Sam Spade) che, una volta, chiese a Dashiell perché non avesse mai desiderato visitare altri Paesi, accontentandosi dell’America.
Per il vero, le rispose Hammett, gli sarebbe piaciuto, in gioventù, andare in Australia, ma il giorno in cui aveva deciso di lasciare Pinkerton aveva anche rinunciato per sempre a quell’idea.
Ecco come andarono i fatti nelle parole della Hellman: “Una nave australiana, in rotta da Sydney a San Francisco con un carico di duecentomila dollari in oro, avvertì l’ufficio di San Francisco della compagnia d’assicurazione che l’oro era scomparso.
La compagnia era cliente della Pinkerton e così Hammett e un altro agente salirono a bordo appena la nave attraccò, interrogarono marinai ed ufficiali, perquisirono da cima a fondo la nave, ma non riuscirono a trovare l’oro.
Era sicuro che dovesse ancora trovarsi a bordo e, pertanto, l’agenzia decise che, quando la nave fosse salpata per tornare in patria, Hammett sarebbe partito anche lui.
Ma, poche ore prima della partenza, il direttore dell’agenzia propose di fare un’ultima perquisizione.
Hammett si arrampicò su una delle ciminiere, sulla quale si era già arrampicato parecchie volte, guardò giù e gridò: ‘L’hanno spostato, è qui’.
Disse che, nell’atto stesso di pronunciare quelle parole, pensò: ‘Non hai cervello nemmeno per fare il detective. Non potevi scoprirlo dopo un giorno di navigazione?’.
Tirò fuori l’oro. Lo portò all’ufficio della Pinkerton.
E, nel pomeriggio, diede le dimissioni’.

Mauro della Porta Raffo, Presidente onorario della Fondazione Italia USA

Caro Mauro,
ti ho rubato questa nota preziosa dai nostri dialoghi notturni.
E l’ho portata su queste pagine per ripagarmi della tua involontaria assenza dal mio antico Guerino quando probabilmente non eri ancora il Gran Pignolo diffuso da Giuliano Ferrara ma l’amico fortunato di Piero Chiara.
E ancora non ci conoscevamo.
Grazie della storia.
Tutti nomi e fatti della mia passione di lettore “istruito” da Scerbanenko, che scriveva anche per il Guerin Sportivo, come Oreste del Buono, un po’ il suo scopritore, fanatico di Chandler e Hammett.
OdB e il giallista ucraino/lombardo scrivevano con me e poi per me nonostante il Mito Guerinesco Brera li detestasse.
OdB – gran cultore di Gianni Rivera – appariva sul Guerin grazie a Pilade, l’infaticabile fedelissimo fratello che lavorava con noi a Piazza Duca d’Aosta.
A Milano, naturalmente.
Steinbeck, invece, lo conobbi da solo, fin da ragazzo, leggendone tutte le opere, per lui volli diventare giornalista e la prima volta che andai in California – ho viaggiato il mondo a spese altrui – feci un salto a Salinas.
Nella Valle dell’Eden.
Vicino a Artichokes Watsonville – il paese dei carciofi – Garlic Town, la città dell’aglio, e Capistrano, la missione che mi ricordava “When the Swallows Come Back to Capistrano”, la canzone del dolcissimo Pat Boone, erede del mitico pioniere Daniel Boone ma soprattutto rivale di Elvis Presley.
Era la mia America.
Dissi ai miei figli “vi porto a casa di Dio”.
Purtroppo la casa di Steinbeck era diventata un ristorante.

Grazie, Mauro.
Anche per Pantani.
Che meritava una firma senza furore.
A Parigi, quella volta, c’ero anch’io e ne cantai la gloria presto smarrita nel dolore. Più tardi lo dissi anche novello Passator Cortese, il favoloso masnadiere di Romagna.
Quando Marco se ne andò, il 14 febbraio 2004, con l’ultimo respiro lasciato in un freddo e solitario meublé di Rimini, scrissi – abituato ai detti e ai colori chiassosi della mia città – che non potevasi immaginare fine peggiore.
E anche – ne chiedo tuttora perdono – rileggendomi, anni dopo, su quella pagina del Carlino che gli avevo dedicato – di essermi pentito.
E invece era stata una bella pagina, la sua.
Il lieto fine bruciato dal destino sei anni dopo.
Dagli opinionisti prima complici poi moralisti con furore.

Italo Cucci

Varese, 5 dicembre 2023

Ron DeSantis ha concluso il ‘Full Grassley’ in Iowa

Sabato scorso, il Governatore della Florida e candidato alla Nomination repubblicana Ron DeSantis ha portato a termine in Iowa – laddove il 15 gennaio prende effettivamente il via la campagna elettorale interna al Grand Old Party – il mitico e celebrato “Full Grassley”.
Ha cioè visitato fino all’ultima tutte le novantanove Contee nelle quali lo Stato con capitale Des Moines risulta diviso.
La definizione deriva dalla lunghissima consuetudine elettorale del vecchio – entrò alla Camera Alta a Washington dove ancora tranquillamente siede il 3 gennaio 1981 e quindi diciassette giorni avanti il primo Insediamento di Ronald Reagan! – e amatissimo Senatore repubblicano dell’Iowa ‘Chuck’ Grassley che ha compiuto ogni anno il percorso negli ultimi quattro decenni e più.
Talmente celebrato il ‘Full’ in questione da essere oggetto di molti articoli, saggi, documentari ed anche di un notevole episodio del buon serial televisivo di qualche anno fa intitolato ‘The Good Wife’.
DeSantis è localmente dato in questi giorni nei sondaggi in lotta serrata con Nikki Haley per il secondo posto dietro un Donald Trump decisamente avvantaggiato.
Non altrettanto – sembra che l’ex Ambasciatrice all’ONU nelle intenzioni di voto abbia nettamente superato il nativo di Jacksonville – nella successiva Primaria del New Hampshire.
Naturalmente, l’esito di questi due primi confronti sarà importante per far capire quali siano gli intendimenti reali degli elettori dell’Eleefante.
Manca comunque oltre un mese e ben altre azioni saranno messe in campo!

Varese, 5 dicembre 2023

Quel ‘pechino’ di Donald Duck

9 giugno 1934.
Prima apparizione di Donald Duck, Paperino, naturalmente.
Che animale è?
Una ‘pechino’, anatra pesante dal piumaggio bianco d’origini cinesi diffusa in tutto il mondo o pressappoco e nel caso specificamente americana per distinguerla da quella tedesca, due essendo le differenti razze.
Non fu senza conseguenze la sua improvvisa apparizione.
Anzi, date le discutibili caratteristiche del ‘pechino’ antropomorfo – iracondo, pieno di debiti, scansafatiche, iellato – con grande rapidità un notevole numero di persone ebbero a soffrirne.
Tutti coloro che facendo Duck di cognome tranquillamente fino a quel mentre si chiamavano proprio Donald.
Proteste inutili le loro ma certamente da quel momento ben pochi se non nessun Duck è stato battezzato così.

Varese, 5 dicembre 2023

Il Glossario essenziale della politica americana continua … 

‘Identity politics’:
è la tendenza di un gruppo di individui che per ragioni inerenti alla religione, l’appartenenza etnica e/o il background tendono a cercare e trovare diverse collocazioni politiche, spesso al di fuori dei partiti esistenti.

‘Impeachment’:
è la messa in stato d’accusa del Presidente (come pure di funzionari) da parte della Camera – che può assumere a maggioranza l’iniziativa – per tradimento, corruzione e atri crimini o misfatti (‘Crimes and Misdemeanors’, dizione estremamente generica). Se l’assemblea citata lo ritiene, il Presidente (lasciamo da parte gli altri) va a giudizio davanti al Senato che, essendo in quel momento Organo Giudiziario, viene per la bisogna presieduto dal ‘Chief’ della Corte Suprema e non dal Vice Presidente (per Costituzione sua guida).
Perché si arrivi alla destituzione il giudizio negativo (positivo quanto alla richiesta) deve essere votato dai due terzi dei presenti.
Finora, tre i Capi dello Stato sottoposti alla procedura ed assolti: Andrew Johnson, Bill Clinton e Donald Trump. Contrariamente a quanto universalmente si ritiene, Richard Nixon non fu soggetto all’Impeachment in quanto dimessosi prima dell’inizio della procedura.

‘Inauguration’:
è il giorno nel quale l’eletto prende possesso della carica.

‘Incumbent’:
è così definito il funzionario (e quindi anche il Presidente) il cui mandato in scadenza egli intenda rinnovare candidandosi nuovamente.

‘Independents’:
oltre, ovviamente, ai candidati non riferiti a partito alcuno, sono definiti indipendenti gli iscritti alle liste elettorali che non hanno dichiarato affiliazione.

‘Interstate agreement’:
è un accordo raggiunto tra due o più Stati. Interessa nel caso e se ne conseguono norme in campo elettorale.

‘Invalid Votes’:
sono i voti dei quali non si deve tenere conto nelle votazioni.

‘Invisible Primaries’:
il periodo delle ‘Primarie invisibili’ è quello precedente l’inizio della maratona elettorale che si articolerà appunto attraverso i Caucus e le vere Primarie. È il momento nel quali i molti candidati si confrontano, scremandosi, nei dibattiti televisivi stabiliti dai rispettivi Comitati Elettorali Nazionali, nella spesso decisiva raccolta fondi, nei sondaggi, non chiedendo ai cittadini di votarli…

Ispanici e Latinoamericani:
coloro che provengono da un Paese dove si parla lo spagnolo, non necessariamente in Sudamerica: per esempio il Messico e proprio la Spagna.
Si differenziano di Latinoamericani (Latinos) perché questi arrivano da un Paese dell’America Latina non necessariamente di lingua spagnola, ad esempio il Brasile.

‘Lame-duck’:
ovvero ‘Anatra zoppa’: così viene definito il Presidente che non ha una maggioranza amica nei due rami del Congresso e pertanto opera con notevoli conseguenti difficoltà.
Può essere così definito, altresì, il Capo dello Stato uscente e non confermato che comunque resta in carica con tutti i poteri fino all’Insediamento del successore.

‘Lame-duck session’:
è il periodo intercorrente tra le Presidenziali e l’entrata in carica il 3 gennaio
dell’anno seguente della nuova Legislatura. Nel mentre, i Congressisti eventualmente non eletti mantengono comunque tutti i loro poteri.

‘Landslide’:
gergalmente ‘valanga’, è una affermazione ottenuta conquistando un numero di voti e/o di Elettori tale da travolgere il rivale. Nei tempi recenti, tre le votazioni per White House così definibili: Lyndon Johnson nel 1964, Richard Nixon nel 1972 e Ronald Reagan nel 1984.

‘Laws’:
le leggi sono regole accettate e adottate dai cittadini per regolare la propria vita le proprie azioni.

‘Left-wing’:
gli uomini politici e i partiti che si riconoscono in questa collocazione, in tale area, dichiarano di rifiutare la gerarchia sociale e di sostenere l’uguaglianza e l’egualitarismo.
Nell’ambito, estremizzando e arrivando a quella che viene definita ‘White left-wing rhetoric’, capita che si parli dei neri guardando esclusivamente o quasi al colore della loro pelle (trascurando le singole personalità, i caratteri e le idee), valutandoli positivamente a prescindere. È questa, indubbiamente, una differente forma di razzismo.

‘Legislativ Process’:
è il termine con il quale si definisce la procedura attraverso la quale una legge diventa legge.

‘Legislativ Term’:
è il periodo di tempo nel quale un eletto ricopre un incarico.

Legislatura:
ogni Legislatura ha la durata di due anni dato che a questo riguardo si considerano le elezioni per la Camera i cui componenti hanno appunto mandato biennale.
Ha inizio il 3 gennaio dell’anno successivo a quello delle votazioni, siano quelle concomitanti con le Presidenziali, siano le Mid Term.

‘LGBTQ’:
identifica lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e quanti (‘queer’) non sono del tutto consapevoli di una appartenenza sessuale determinata. È dagli anni Novanta del trascorso Novecento che dei diritti di questi particolari gruppi si discute animatamente tra conservatori e liberal.

Linea di Successione:
nel caso in cui il Presidente sia impedito per malattia o altre necessità di fare fronte ai propri impegni viene sostituito (‘Acting President’, il desso incaricato) dal Vice.
Se anche questi fosse impossibilitato, la Linea prevede quali seguenti possibili A. P. lo Speaker della Camera, il Presidente pro tempore del Senato, i membri del Gabinetto l’ordine di subentro dei quali, partendo dal Segretario di Stato, è indicato dalla legge.

Liste elettorali:
il diritto di voto è collegato al raggiungimento della maggiore età (oggi, diciotto anni).
Peraltro, per esercitarlo, è necessario iscriversi alle Liste Elettorali. Nel farlo, si può dichiarare (ma anche no) il proprio orientamento politico, il partito di riferimento.

Luogotenente Governatore:
con l’eccezione di Arizona, Maine, New Hampshire, Oregon e Wyoming, accanto al Governatore agisce il ‘Lieutenant’.
Essendo la materia regolata da leggi locali, l’elezione dello stesso, le funzioni che esercita e la sua possibile appartenenza a un partito diverso da quello del Governatore vanno verificate.

Varese, 5 dicembre 2023

Cortina di ferro, Guerra fredda, Caccia alle streghe,

Joseph McCarthy e il Maccartismo (Seconda Parte – la Prima Parte è stata pubblicata ieri, 4 dicembre)

di Alberto Indelicato

Secondo la propaganda, i Rosenberg, vittime innocenti, dovevano essere assolti non perché non fossero comunisti, ma proprio perché essendolo non potevano far del male ed anzi, qualunque cosa avessero fatto, il loro era stato un contributo al progresso ed alla libertà. 

Questo principio era condiviso da una larga parte dell’establishment ‘liberal’ statunitense: fenomeno interessante che vale la pena di approfondire. 

Sino all’elezione di Franklin Delano Roosevelt (novembre 1932) gli Stati Uniti non avevano riconosciuto l’Unione Sovietica, sebbene la grave carestia provocata dal ‘comunismo di guerra’ leniniano fosse stata superata soltanto per l’aiuto umanitario di una organizzazione nordamericana. 

Il riconoscimento dell’URSS nel 1933 fu un atto di semplice realismo; tuttavia non doveva passare molto tempo prima che, fatte salve tutte le differenza tra i rispettivi regimi, Washington e Mosca si trovassero d’accordo nella valutazione di alcuni aspetti inquietanti della situazione internazionale: l’avvento di Hitler in Germania e la Guerra civile spagnola. 

Questa ‘affinità’ cominciò a manifestarsi anzitutto negli ambienti intellettuali ed in seno al partito comunista degli Stati Uniti, che era stato sino allora un movimento insignificante. 

Tuttavia il maggior numero, per non dire la totalità, dei volontari americani nelle brigate internazionali proveniva dalle fila di quel partito e la loro partecipazione alla guerra civile suscitò ammirazione ed orgoglio (e forse anche un certo complesso di colpa) negli ambienti liberal che parteggiavano naturalmente per il governo repubblicano. 

In quel periodo molti esponenti intellettuali democratici aderirono ad organizzazioni come la ‘Lega degli Scrittori Americani’ ed il ‘Congresso della Gioventù Americana’, create dai comunisti “per combattere la guerra ed il fascismo”. 

I comunisti d’altronde avevano dato un giudizio favorevole al ‘New Deal’ rooseveltiano, il che li aveva accreditati come non più avversari del sistema e dunque ‘alleati’ accettabili. 

In qualche località vi fu addirittura una ‘fusione’ politica sotto l’etichetta di un Fronte Popolare tra i democratici ed i comunisti, che giunsero ad avere centomila iscritti. 

Per mezzo di queste alleanze essi divennero influenti in seno al partito democratico di certi stati, come il Michigan, il Wisconsin e la California. 

E’ abbastanza facile (e desolante) notare, come ha fatto qualche storico, che la fascinazione dell’intellighenzia e di parte del mondo politico statunitense, e non solo di quello, avveniva proprio negli anni in cui si celebravano i grandi processi di Mosca ed imperversava il terrore staliniano in tutta l’Unione Sovietica. 

Lo sterminio dei contadini e la deportazione di intere popolazioni erano già avvenute e continuavano nella totale ignoranza o peggio nell’indifferenza dell’opinione pubblica europea e statunitense.

Durante i due anni che seguirono il patto di non aggressione e di spartizione germano-sovietico ci fu ovviamente un certo raffreddamento anche perché i comunisti, secondo le direttive del Comintern, attaccarono la politica rooseveltiana di aiuti militari alla Gran Bretagna dettata, a loro avviso, da spirito imperialista, come imperialista era la guerra germano-britannica. 

Essi accusarono addirittura Franklin Delano Roosevelt, specie dopo la sua condanna dell’attacco sovietico alla Finlandia, di essere fascista. 

La comprensibile delusione dei progressisti nei loro confronti durò sino all’attacco germanico all’Unione Sovietica. 

Fu allora che questa, piuttosto che essere considerata, qual era, un paese costretto a difendersi da un’aggressione, fu vista ed esaltata come una nazione che si era eroicamente votata a soccorrere il mondo libero. 

In queste condizioni i comunisti si ritrovarono vicini ai progressisti nel chiedere che fossero forniti aiuti militari e d’altro genere all’URSS, come già si faceva per la Gran Bretagna, ed anzi che gli stessi Stati Uniti entrassero nel conflitto accanto ai sovietici. 

Fu così che dopo il 7 dicembre 1941 i comunisti, pur restando una formazione numericamente poco importante, divennero parte integrante del mondo politico ufficiale, anche perché rappresentavano il grande alleato che in Europa sosteneva il peso maggiore dello sforzo bellico. 

La ritrovata simpatia si manifestò non soltanto nella propaganda comune, ma anche nei rapporti politici. 

Lo stesso Roosevelt volle dare un segno con la concessione della grazia al segretario del partito comunista, Earl Browder, che da alcuni mesi stava scontando una condanna a quattro anni di carcere per aver falsificato passaporti ed altri documenti ufficiali. 

Questo aveva voluto essere anche un gesto nei confronti dell’URSS, la cui resistenza e le successive vittorie destavano grande ammirazione ed entusiasmo in tutta l’opinione pubblica degli Stati Uniti, dove si era diffusa la convinzione che uno stato che si batteva contro una dittatura come quella hitleriana non poteva che essere dalla parte della democrazia. 

A loro volta i comunisti americani finivano per esser visti come l’ala sinistra del partito democratico. 

Lo scioglimento del Comintern nel maggio del 1943 aveva avuto anche lo scopo di mostrare che i partiti comunisti non dipendevano più da una potenza straniera; quello statunitense era perciò legittimato a partecipare non soltanto alla vita politica (cosa che aveva sempre fatto, sia pure con scarsissimo successo), ma pure alle attività di governo. 

Molti iscritti al partito, infatti, erano già entrati a far parte di uffici governativi, anche in posti di responsabilità. 

D’altra parte l’alleanza con l’Unione Sovietica aveva diffuso la convinzione che gli interessi di Washington non sarebbero più potuti divergere da quelli di Mosca, fondati com’erano gli uni e gli altri su principi di giustizia e di libertà. 

I sacrifici che nella lotta contro la Germania l’URSS aveva sopportato e continuava a sopportare suscitavano nei dirigenti statunitensi molta ‘comprensione’  per le esigenze di sicurezza che essa avanzava per assicurarsi quella che i suoi esponenti chiamavano ‘amicizia’ degli stati vicini, e non soltanto di quelli che si erano schierati con l’Asse. 

L’amicizia significava, infatti, quanto meno una politica estera ed interna di dipendenza da Mosca. 

Già nel luglio 1942 eventuali riserve nel Dipartimento di Stato nei confronti delle richieste sovietiche erano viste con molto sfavore; Harry Hopkins criticò un funzionario che aveva espresso dei dubbi su una politica di eccessiva fiducia nell’URSS, accusandolo di appartenere alla ‘cricca antisovietica’. 

Anche per l’influenza di alcuni consiglieri (ma non soltanto per essa), Franklin Delano Roosevelt era estremamente ben disposto verso le richieste sovietiche; già allora disse: “Credo che se do a Stalin tutto quel che chiede e non gli chiedo nulla in cambio, egli non cercherà di compiere nessuna annessione e lavorerà con me per un mondo di democrazia e di pace”. 

Non è chiaro se Roosevelt traesse questa sua convinzione, che conservò sino a Jalta ed oltre, dal fatto che aveva finito per credere alla sua stessa propaganda bellica o da ciò che si chiama wishful thinking o ancora dall’ingenuo calcolo che, dando egli stesso il buon esempio, questo sarebbe stato seguito da Stalin. 

Fatto sta che da quella convinzione – a cui si dovette tra l’altro la censura sul massacro dei polacchi a Katyn e sul libro di Kravcenko ‘I chose Freedom’ – derivò la politica detta di Jalta. 

Allorché, dopo la morte di Franklin Delano Roosevelt e l’incontro di Potsdam, le intenzioni di Stalin furono chiare – il primo segno ne fu la sorte della Polonia con l’emarginazione del suo legittimo governo di Londra -, si verificò uno strano fenomeno: mentre l’opinione pubblica generale diventava sempre più ostile verso l’Unione Sovietica e diffidente nei confronti del partito comunista americano, negli ambienti intellettuali permaneva il pregiudizio filosovietico degli anni precedenti. 

Il filocomunismo ne era una conseguenza, come apparve da uno degli argomenti invocati in difesa dei Rosenberg: se anche i due coniugi – si disse – avessero passato delle informazioni sull’arma atomica all’URSS, non si sarebbe potuto parlare di spionaggio o di tradimento perché l’URSS era stata ed era ancora alleata degli Stati Uniti. 

L’argomento era inconsistente perché l’alleanza era finita con la vittoria ed in ogni caso c’è spionaggio anche quando il beneficiario è un alleato. 

Esso tuttavia mostra che la sinistra democratica nordamericana aveva interpretato la solidarietà del tempo di guerra come un dato permanente e necessario da difendere ad ogni costo. 

Espressione massima di siffatta linea di pensiero fu la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti nel 1948 dell’ex Vice Presidente di F. D. Roosevelt e poi segretario di stato all’agricoltura Henry Wallace, al cui Partito Progressista si associò nella campagna elettorale il partito comunista. 

Wallace, che ottenne soltanto il due e tre per cento dei voti popolari, preconizzava una politica favorevole a tutte le richieste sovietiche in Europa. 

A quella sinistra democratica, confinante e in qualche caso addirittura complice del partito comunista e partecipe delle sue attività spionistiche (già dal 1933 il partito comunista diretto da Earl Browder serviva da agente reclutatore di spie per l’URSS, com’è stato confermato dai documenti sovietici pubblicati dopo il 1990), apparteneva tra gli altri Alger Hiss, un ‘rooseveltiano’ le cui vicende suscitarono forse maggiore clamore di quella dei Rosenberg.

Neanche di Hiss si occupò principalmente McCarthy; il grande inquisitore in seno all’HUAC, presieduta dal senatore J. Parnell Thomas, fu nel 1948 un altro giovane senatore repubblicano: Richard Nixon. 

Alger Hiss era stato nel febbraio del 1945 membro della delegazione diplomatica statunitense a Jalta al seguito del segretario di stato Edward Stettinius e, al termine dell’incontro, aveva fatto parte di un gruppo ristretto di quattro diplomatici che avevano continuato a Mosca le discussioni con i sovietici. 

(I documenti sovietici parlano di un loro uomo nella delegazione statunitense a Jalta e a Mosca. Non c’è il nome ma è evidente che si trattava di Hiss). 

Egli era stato poi nominato segretario generale della Conferenza di San Francisco che creò l’ONU e infine nel 1947 nominato presidente del ‘Fondo Carnegie per la pace’. 

Stranamente sulle sue nomine non aveva influito negativamente il fatto che il suo nome fosse incluso in una lista di agenti sovietici fornita da Igor Guzenko, una spia di Mosca passata in Occidente nel 1945. 

Nel 1948 un giornalista della rivista ‘Time’, WhittakerChambers, ex-comunista pentito, rivelò alla commissione senatoriale d’inchiesta di aver fornito ai sovietici per conto di Hiss informazioni riservate. 

Ma Hiss, laureato ad Harvard, brillante, colto, faceva parte degli ambienti sociali ed intellettuali che contavano e la denuncia di Chambers, un giornalista di umili origini, bravo ma considerato instabile (aveva tentato di suicidarsi), non venne neanche presa in considerazione. 

Interrogato dall’HUAC, Hiss in un primo momento negò addirittura di averlo mai conosciuto, ma commise l’errore di querelarlo per calunnia. 

Chambers, malgrado l’apparenza modesta, non era uno sprovveduto ed in tribunale esibì le copie, che aveva conservate, dei documenti e dei microfilm consegnatigli da Hiss sin dal 1938 perché li passasse ai sovietici. 

Risultò che erano stati scritti da lui a mano o con la sua macchina per scrivere. 

Hiss fu condannato a cinque anni di detenzione per falsa testimonianza (lo spionaggio era caduto in prescrizione). 

Nella commissione per le attività antiamericane Nixon, senatore dal 1946, era stato durissimo nel suo interrogatorio, ma – come si è detto – l’HUAC non era un organo giudiziario e Hiss, che continuava a negare, se la cavò con la sola condanna per il caso Chambers.

Tuttavia i suoi amici continuarono per anni a sostenere che egli era innocente e che c’era stata una congiura contro di lui perché rooseveltiano e liberal. 

Il loro odio per Nixon non sarebbe mai cessato ed essi addirittura, all’epoca dello scandalo del Watergate, sostennero che il fatto di aver mentito nel 1973 provava che egli aveva  mentito anche nell’accusare Hiss 

Nel 1992 questi chiese all’ex capo del KGB generale Volkogonov di rivelare se gli risultava che egli fosse stato una spia. 

La risposta negativa suscitò ovviamente l’entusiasmo dei suoi sostenitori, entusiasmo che però durò poco: nel 1996 altri documenti sovietici venuti alla luce confermarono pienamente l’accusa. 

Hiss aveva agito per conto non del KGB ma dello spionaggio militare sovietico. 

Fu soltanto nel 1950 che McCarthy cominciò a farsi notare. 

Di origini modeste, cattolico, reduce di guerra, egli era stato eletto  nel 1946  senatore del Wisconsin per il partito repubblicano. 

Tra i suoi sostenitori e finanziatori c’era, benché democratico, Joseph Kennedy, il cui figlio Robert fu un suo collaboratore. 

Anche il futuro presidente John fu un suo ammiratore. 

Fu in un  comizio nel febbraio di quell’anno che McCarthy lanciò una pubblica accusa che metteva in causa anche i democratici al potere da diciotto anni, se non altro perché avevano dato prova di negligenza: l’amministrazione – affermò – ed in particolare il dipartimento di stato (dove aveva lavorato Hiss) era piena di comunisti, molti dei quali esercitavano attività spionistiche a favore dell’Unione Sovietica. 

Tutto l’establishment si mobilitò contro di lui, sfidandolo a fare dei nomi invece che delle accuse generiche. 

Egli rispose convocando i sospetti e facendoli interrogare dalla commissione di cui era diventato presidente. 

Anzitutto egli chiedeva ad ogni interrogato se fosse membro o simpatizzante del partito comunista. 

Naturalmente questo non era un reato, ma poiché diversi casi di spionaggio (compreso quello dei Rosenberg) avevano rivelato che era il partito comunista a fornire le spie per i sovietici, la domanda era particolarmente insidiosa per funzionari statali o altre persone che potevano venire a conoscenza di notizie riservate. 

Molti invocarono il quinto emendamento della costituzione, ma il rifiuto di rispondere alimentò il sospetto che avessero da nascondere qualcosa, oltre all’appartenenza al partito comunista.

McCarthy però voleva andare più in là e dimostrare che c’era una vera e propria cospirazione comunista. 

Nel suo discorso egli aveva parlato di duecentocinquanta funzionari infedeli al dipartimento di stato. 

Citò pochi nomi, ma è un fatto che un terzo dei funzionari posti sotto inchiesta credettero opportuno dimettersi alla chetichella.         

L’idea che ci fosse una cospirazione era certamente esagerata; era vero però che spie sovietiche si erano infiltrate in varie amministrazioni. 

Oltre a Hiss, nel dipartimento di stato c’erano Larry Duggan reclutato da Hede Massing, un comunista austriaco emigrato che convinse vari altri, tra cui Noel Field, anch’egli funzionario, a lavorare per il KGB e che tentò pure di reclutare  Hiss, ma scoprì che questi era già attivo per conto suo. 

Rapporti degli ambasciatori statunitensi venivano regolarmente ‘passati’ ai sovietici tramite il partito comunista sia dall’interno del dipartimento di stato, sia dalle stesse ambasciate all’estero. 

Altre spie si trovavano nel dipartimento della difesa e del tesoro, come Harold Glasser o Harry Dexter White, assistente segretario del tesoro, che successivamente Truman nominò direttore del Fondo Monetario Internazionale. 

Erano  spie almeno tre membri della Camera dei rappresentanti, tra cui Samuel Dickstein. 

Non mancavano i giornalisti, in genere di testate democratiche, come I.F.Stone (‘The Nation’), Michael Straight (‘The New Republic’) e il premio Pulitzer Walter Duranty che, corrispondente da Mosca negli anni trenta per il ‘New York Times’, era riuscito ad ignorare nelle sue corrispondenze lo sterminio dei contadini ucraini. 

McCarthy denunciò anche sindacalisti ed industriali come il miliardario, già amico di Lenin, Alexander Hammer e specialmente personalità del mondo del cinema, su cui l’HUAC indagava dal 1947.

Il novanta per cento dei registi, soggettisti, produttori ed attori – egli affermò – svolgevano praticamente propaganda comunista o quanto meno evitavano accuratamente qualunque accenno poco favorevole all’URSS. 

L’associazione ‘Screen Actors Guild’ era controllata dai comunisti, come pure la ‘Indipendent Citizen Commission of the Arts, Science and Professions’.

Benché nel fondo egli avesse ragione (dopo il 1945 non ci furono film anticomunisti e lo stesso ‘Ninotchka’ con Greta Garbo del 1939, in cui peraltro la satira era stata molto blanda se non benevola, fu duramente criticata per il suo antisovietismo, sicché ebbe all’inizio una distribuzione limitata), il suo fu un errore tattico perché la corporazione del cinema era molto forte. 

E’ vero che le accuse di McCarthy portarono all’esclusione ed alla disoccupazione per alcuni di coloro che si erano rifiutati di testimoniare o avevano negato, contro l’evidenza, di essere comunisti, ma è anche vero che non furono sospese le norme dello stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura. 

Nessuno fu interrogato senza l’assistenza di un legale, nessuno andò in prigione senza una previa sentenza giudiziaria, nessun partito fu posto fuori legge. 

Fu dall’ambiente cinematografico che partì la riscossa, da un canto con una campagna contro coloro che avevano scelto di collaborare con la commissione senatoriale, indicati come pecore nere e segnalati al pubblico disprezzo (tra loro il regista Elia Kazan e gli attori John Wayne e Ronald Reagan), e con forti pressioni su altri – Robert Taylor, Barbara Stanwyck, Bette Davis, Lana Turner – perché si rifiutassero di rispondere all’HUAC; dall’altro con la denuncia del Maccartismo ad opera degli organi di stampa progressisti, i quali sostenevano che l’HUAC aveva infangato soltanto degli innocenti: di nessuno degli inquisiti – si affermò – McCarthy aveva potuto provare la colpevolezza. 

Ciò poteva valere per una parte della gente di cinema ed anche per i militari ed i politici (compreso il generale Marshall e lo stesso Truman) che il senatore in seguito chiamò imprudentemente in causa, ma non per funzionari e giornalisti, le responsabilità di alcuni dei quali furono provate subito e confermate negli anni novanta, quando i telegrammi dell’ambasciata sovietica intercettati e decifrati durante e dopo la guerra e la corrispondenza del partito comunista con Mosca furono resi pubblici.    

Uno dei casi in cui il duello tra McCarthy ed i liberals fu più violento fu quello di Gustav Duran. 

Averlo accusato – scrisse ‘The New Republic’ – “è una prova della follia e della paura insensata dei “rossi”. 

In effetti Duran aveva combattuto nella guerra civile spagnola ed in essa si era distinto nella purga di troskystied anarchici, per cui i suoi difensori, tra cui suo cognato: il giornalista ed ex funzionario del Dipartimento di Stato Michael Straight, proclamarono che il suo interrogatorio equivaleva ad un’apologia del franchismo. 

Nel 1963 tuttavia anche Straight confessò di essere stato una spia e denunciò il famoso critico d’arte britannico Anthony Blunt come suo ‘reclutatore’. 

Più clamoroso ancora fu il caso di Owen Lattimore, un famoso sinologo, direttore della scuola di relazioni internazionali alla Johns Hopkins University, già consigliere di Franklin Delano Roosevelt sulle questioni dell’Estremo Oriente. 

Nel 1944 egli aveva accompagnato il vice presidente Wallace in Cina e nell’Unione Sovietica ed aveva lavorato nell’Office of War Information. 

Lattimore fu denunciato dopo la conquista della Cina da parte dei comunisti, che egli – si sospettò – aveva segretamente aiutato dando loro informazioni riservate. 

Tuttavia l’accusa di McCarthy, corroborata da due comunisti pentiti – Luis Budenz e Friede Utley – non convinse gli altri membri della commissione, che non soltanto ‘assolsero’ Lattimore, ma ebbero parole dure per McCarthy. 

Questi rispose accusandoli di essere “strumenti di Stalin”. 

Due anni dopo tuttavia un secondo comitato, presieduto dal senatore democratico Pat Mc Carran, concluse la sua indagine affermando che “Lattimore era stato un cosciente strumento della cospirazione sovietica”. 

I democratici, a cominciare da Truman, tentarono in tutti i modi di distruggere l’immagine di McCarthy, accusandolo di demagogia e insinuando che egli fosse antisemita e xenofobo e che volesse creare un partito autoritario o addirittura ‘fascista’. 

Erano accuse infondate, sia perché egli aveva molti amici e sostenitori ebrei, sia perché non fece nulla per creare un suo partito o fondare una ‘corrente’ in seno al partito repubblicano. 

In realtà fu proprio il suo partito che riuscì a neutralizzarlo. 

Vi contribuì anche la sua vita sregolata – era alcolizzato – che l’avrebbe portato a morte prematura nel maggio 1957. 

Un’altra accusa era più vicina al vero: quella di aver sfruttato la paura degli americani. 

Ma quella paura non era ingiustificata, né era stata inventata da lui; essa era la conseguenza dell’allarme suscitato dai progressi sovietici nel campo dell’arma atomica, indubbiamente accelerati dal tradimento di Fuchs e della sua organizzazione. 

La paura era anche conseguenza della sconfitta in Cina del filo-americano Ciang Kai Scek e dello scoppio della guerra di Corea. 

Non fu per una semplice coincidenza che la potenza di McCarthy fu abbattuta dopo la morte di Stalin e l’armistizio di Panmunjom. 

Nel gennaio 1953 aveva assunto la presidenza degli Stati Uniti il repubblicano Dwight Eisenhower. 

McCarthy, però, non cessò gli attacchi all’amministrazione, anche se essa era ormai nelle mani dei suoi compagni di partito. 

Il nuovo presidente incaricò Nixon, suo vice-presidente, di denunciare pubblicamente i metodi spregiudicati del collega (che li aveva appresi proprio da lui). 

Nixon lo attaccò alla televisione, un mezzo che McCarthy era stato il primo a saper sfruttare a scopo propagandistico. 

Seguirono gli interventi dei democratici, secondo i quali il suo modo di vivere non era consono ad un senatore. 

Stanco e malato, egli si difese molto male quando in senato fu presentata una risoluzione in cui lo si accusava di non aver cooperato con un sottocomitato che indagava sulla sua vita privata e di aver insultato un generale. 

La risoluzione fu approvata con sessantasette voti contro ventidue.

La sua parabola era durata poco più di quattro anni. 

A Joseph McCarthy sono state dedicate molte biografie, sino a qualche anno addietro negative perché influenzate dall’opinione liberal e dalle sue ‘vittime’, specie nel campo dello spettacolo, e non c’è dubbio che la sua assimilazione di tutti i comunisti e loro simpatizzanti a delle spie sia stata piuttosto sbrigativa. 

Pure, se è vero che non tutti i comunisti erano spie, tutte le spie erano membri o simpatizzanti del partito comunista. 

Dopo il 1990, anche per le rivelazioni dei documenti sovietici, il giudizio è stato in parte corretto. 

Per non parlare di quelle incondizionatamente favorevoli, le biografie pubblicate negli ultimi anni, pur sottolineando i difetti caratteriali e le esagerazioni dell’uomo politico, hanno confermato che molte delle persone indagate dall’HUAC lavoravano coscientemente o talvolta incoscientemente per i servizi d’informazione sovietici, sia pure, come a proposito di Lattimore dissero i suoi amici, “in base ad un “patriottismo non tradizionale”…

Alcuni degli stessi antichi avversari, se hanno continuato a negare la teoria della ‘cospirazione’, hanno dovuto ammettere che molte denunce di McCarthy avevano un indubbio fondamento. 

Sarebbe stato d’altronde difficile sostenere il contrario quando dall’apertura degli archivi sovietici è risultato che nell’amministrazione statunitense nel 1941 il KGB aveva duecentoventuno suoi agenti ed altrettanti operavano per conto del GRU, lo spionaggio militare.

Varese, 4 dicembre 2023

Roma -Washington
l’asse necessaria delle relazioni euro atlantiche

Stefania Craxi (Presidente della Commissione Affari esteri e Difesa del Senato della Repubblica)
per Diario americano

Il rapporto tra Roma e Washinton ha radici solide che affondano nel tempo e si nutrono di valori comuni.
È un legame che, dal punto di vista formale, si sviluppa fin dall’immediato con il sorgere dell’Italia unita e si cementa nella lotta di liberazione dal nazifascismo per divenire, con la nascita della Repubblica, un elemento connaturato della nostra politica estera e di difesa e uno dei suoi fondamentali più longevi.
È grazie alla scelta degasperiana che l’Italia, terra di confine tra l’Est e l’Ovest con una proiezione spiccatamente mediterranea, assume un ruolo strategico lungo il corso di tutta la Guerra Fredda, divenendo tra i principali interlocutori del rapporto transatlantico e sviluppando con gli Stati Uniti, non senza alcuni passaggi dialettici, una visione comune del mondo all’insegna di una collaborazione volta alla promozione dei condivisi valori democratici e delle politiche di sicurezza.
Ma non è solo l’indispensabilità americana nel processo di ricostruzione materiale e di riabilitazione internazionale dell’Italia e le logiche del mondo bipolare a consolidare questo rapporto.
La comunità italiana negli Stati Uniti, figlia di una migrazione che ha inizio già nella seconda metà dell’Ottocento, ha dato, seppur indirettamente, un apporto fondamentale allo sviluppo delle relazioni tra Italia e USA e rappresenta tutt’ora, considerato anche il suo rilievo e il suo attivismo, uno strumento formidabile per mantenere saldo un rapporto che siamo tutti noi chiamati a rinnovare incessantemente.

Anche dopo il crollo del muro di Berlino e l’avvio della stagione unipolare, il rapporto, seppur in un contesto profondamente mutato, ha viaggiato per lungo tempo su canali privilegiati.
Il nuovo millennio, segnato da subito dall’attacco dell’11 settembre 2001, registra ancora un rapporto stringente tra i due Paesi. L’adesione italiana alla “guerra al terrorismo” e alle conseguenti scelte statunitensi – anche in rottura con i principali partner comunitari – testimoniano la solidità dell’alleanza e l’affidabilità dell’alleato italiano, mentre negli anni che seguono, segnati dal nuovo paradigma multilaterale e dal nascente protagonismo della Repubblica Popolare Cinese, abbiamo invece assistito ad un preoccupante allentamento delle relazioni, culminato con la sciagurata adesione italiana alla Belt and Road initiative.
Il cambio di esecutivi, dopo una breve parentesi, ha poi riportato l’Italia nel solco delle sue alleanze naturali ancor prima che tradizionali, con il rapporto tre le due realtà che è ritornato ad essere non solo fecondo ma ancor più necessario.

Le sfide sistemiche del nostro tempo, le tante incognite e insidie che si stagliano al nostro orizzonte, richiedono una visione comune dell’intero Occidente e una indispensabile comunione di azione e di intenti tra Europa e Stati Uniti.
È in questo contesto fluido, segnato da profonde trasformazioni del sistema delle relazioni internazionali, che deve potersi proficuamente sviluppare la “relazione speciale” tra Italia e USA, poiché essa può rappresentare, tanto più dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, una delle assi portanti del rapporto atlantico e contribuire ad un dialogo fecondo tra le due gambe del mondo libero.
È un rapporto che può quindi svilupparsi sulla base del reciproco interesse, del comune sentire del mondo e delle cose, e che deve mettere a fattore strategie geopolitiche, di sicurezza e difesa, scambi economici, commerciali e culturali.
A tal proposito è utile smentire una certa vulgata che vuole gli interessi italiani e europei in contrasto con gli Stati Uniti.
Finanche l’argomentazione dell’autonomia strategica dell’Europa – che imboccava una fantomatica “terza via” – e il tema della “difesa comune europea” – immaginata da taluni come alternativa all’impegno NATO – è stato utilizzato impropriamente, anche negli ultimi mesi, come grimaldello per scardinare il rapporto atlantico.
Ma tralasciando solo per un momento tali questioni di natura più squisitamente politica e tutt’altro che secondarie, è la forza dei numeri a testimoniare la fallacità e la pretestuosità di tali tesi.
Infatti, nel mentre in Italia e in Europa alcuni ancora pontificano su come Pechino rappresentasse il mercato del futuro, magnificandolo come il nuovo paradiso terreste pur in presenza di una bilancia commerciale complessivamente di gran lunga in squilibrio (e in virtù di ciò immaginano di poter cambiare il pivot delle nostre alleanze), dimenticavano di ricordare che i rapporti economici tra gli Stati Uniti e Unione Europea costituiscono il sistema di scambi a maggior livello di integrazione al mondo.
Non solo le relazioni commerciali e di investimento transatlantiche hanno ancora oggi una posizione guida anche rispetto al più ampio insieme dei rapporti economici globali, ma le stesse esportazioni italiane di beni e servizi verso questo mercato, al pari dell’interscambio bilaterale, continua a registrare di anno in anno un trend positivo, con la crescita costante delle esportazioni italiane negli USA.
Basti pensare che nell’ultimo decennio l’interscambio complessivo di beni e servizi è aumentato in valore del sessanta per cento tra Roma e Washington, con le esportazioni italiane pressoché raddoppiate.

È quindi evidente come il “nostro” rapporto atlantico costituisca oggi un pilastro imprescindibile.
Una dimensione relazionale plurima che Italia e Stati Uniti devono saper valorizzare con sapienza ad ogni livello, tanto nella dinamica bilaterale che in tutti i consessi internazionali.
La necessità americana di avere un alleato affidabile nell’Unione, un partner capace di mettere a sistema la dimensione atlantica con quella comunitaria e mediterranea, fa il paio con la necessità nostrana di vivere un contesto di intense e diffuse relazioni internazionali per affrontare non solo le sfide del domani ma per far fronte a tante delle emergenze che caratterizzano un tempo inquieto.
In fondo, fin dai tempi di Colombo, è il destino che sembra legarci.

Varese, 4 dicembre 2023

Cortina di ferro, Guerra fredda, Caccia alle streghe,

Joseph McCarthy e il Maccartismo (Prima Parte)

di Alberto Indelicato

Ambasciatore italiano presso l’UNESCO e ultimo nostro rappresentante nella Germania dell’Est, Democratica per definizione, della quale ha vissuto la dissoluzione

Contributo reso dal caro e prezioso Amico purtroppo venuto a mancare alla rivista culturale

Dissensi e Discordanze,

ideata, diretta ed edita da Mauro della Porta Raffo

Tre formule caratterizzarono il mondo uscito dalla seconda guerra mondiale: ‘Cortina di ferro’, ‘Guerra fredda’ e ‘Caccia alle streghe’.

La prima, che faceva parte del linguaggio propagandistico dei governi occidentali, fu lanciata il 5 marzo 1946 da Churchill nel discorso di Fulton, Missouri, (“Una cortina di ferro è scesa da Stettino a Trieste”), anche se era già stata usata durante la guerra dalla radio tedesca.

L’espressione ‘Guerra fredda’ apparteneva al linguaggio politico sia dell’URSS e dei suoi satelliti che degli Stati Uniti e dei paesi occidentali, dal 1949 loro alleati nella Nato.

Naturalmente ognuno dei due schieramenti attribuiva quanto in essa vi era di negativo alla parte avversa, accusata di averla provocata e di fomentarla in vario modo: gli uni non solo con iniziative quali la soppressione delle libertà democratiche, l’instaurazione di dittature comuniste, la persecuzione degli avversari e dei ‘deviazionisti’ nell’Europa orientale, ma anche e principalmente con azioni in campo internazionale come il blocco di Berlino e più tardi l’aggressione della Corea del Sud; gli altri con attività propagandistiche radiofoniche, con il riarmo (o meglio il mancato disarmo) in Europa dopo il 1945, l’asserita persecuzione dei movimenti pacifisti e l’esclusione dei partiti comunisti dai governi di cui essi avevano fatto parte subito dopo la guerra (come in Francia ed in Italia).

L’espressione ‘Cortina di ferro’, pur senza cadere in disuso, andò perdendo la sua importanza man mano che i paesi comunisti europei aprivano per ragioni economiche le loro frontiere ai turisti ed agli uomini d’affari, anche se non alle idee, occidentali, fenomeno che prese una certa ampiezza alla fine degli anni settanta e nel decennio successivo.

Ciò non significò peraltro che l’apertura valesse anche per i loro cittadini, ai quali continuava ad essere proibito di uscire dal ‘campo socialista’, in teoria anche qui per ragioni economiche e valutarie, in realtà per impedire un esodo di massa quale vi era stato sino ai primi mesi del 1946 ed in alcuni paesi, come la Cecoslovacchia, sino al 1948, o la Repubblica Democratica Tedesca sino al 1961.

E’ probabilmente più interessante l’espressione ‘Caccia alle streghe’.

Göbbels, se fosse stato vivo, l’avrebbe giudicata geniale e probabilmente sarebbe morto d’invidia per non averla inventata lui.

Essa, infatti, in tre parole aveva una forza evocativa straordinaria.

La parola caccia richiamava un animale, magari debole e comunque indifeso, costretto a fuggire perché braccato da un persecutore senza pietà deciso a sopprimerlo senza una ragione se non quella della pura forza e della crudeltà.

Ed il perseguitato era accusato non soltanto di una colpa che non aveva commesso, ma di qualcosa d’inesistente, dato che le streghe non esistevano ed erano soltanto il prodotto del fanatismo, dell’ignoranza e della superstizione.

La formula riusciva così a condannare i pretesi persecutori e ad assolvere ed esaltare le pretese vittime.

La metafora trovò una rappresentazione inequivocabile e indubbiamente possente nel dramma di Arthur Miller ‘The crucible’ (‘Il mortajo o ‘Il crogiuolo’).

In esso si poneva in evidenza il fanatismo e l’isteria del popolo della città di Salem, istigato dai cacciatori di pretese ‘streghe, povere donne accusate di malefici e destinate innocenti al rogo.

Il dramma apparve e fu rappresentato nel l953.

Negli otto anni precedenti negli stati dell’Europa Orientale occupati dall’Armata Rossa erano stati arrestati e condannati a morte migliaia di uomini politici antinazisti non comunisti: liberali, democratici e contadini.

Pochi erano riusciti a fuggire in Occidente.

Prima ancora della fine della seconda guerra mondiale, nel marzo 1945 (a Washington c’era ancora Franklin Delano Roosevelt), i capi non comunisti della resistenza polacca, invitati per negoziati a Mosca, erano spariti nel nulla.

Soltanto il 3 maggio Molotov aveva annunciato che erano stati arrestati per “attività ostile all’Armata Rossa”.

Furono processati, confessarono le colpe più incredibili e furono condannati a morte.

In Romania, in Ungheria, in Bulgaria furono dapprima i dirigenti liberali e democratici ed essere accusati e processati per crimini mai commessi.

I processi contro gli oppositori, conclusi spessissimo con condanne a morte o pene pesantissime di prigione, furono preceduti da campagne ‘popolari’ nelle fabbriche, negli uffici, nelle pubbliche piazze, sulla stampa, alla radio.

I cittadini chiedevano a gran voce pene esemplari per i ‘traditori’ ancor prima che questi fossero presentati ad una corte di giustizia.

Frequentemente gli accusati confessavano crimini completamente inverosimili: alto tradimento, intelligenza con stati occidentali, spionaggio.

Decine di migliaia di cittadini furono arrestati ed imprigionati o mandati in campi di concentramento senza alcuna parvenza di processo.

Ai ragazzi appartenenti a classi dichiarate antisociali, vale a dire alla borghesia, fu precluso l’accesso alle scuole superiori.

Dopo il 1948 furono arrestati e processati i membri in disgrazia degli stessi partiti comunisti che erano ormai al potere senza l’ingombro dei partiti ‘servili’ come i socialisti, costretti a fondersi con i primi o soppressi, ed i partiti contadini o ‘democratici antifascisti’.

Nel 1949 furono processati tra gli altri Rajk in Ungheria, Slánsky in Cecoslovacchia, Petkov in Bulgaria, Patrascanu in Romania.

In Polonia Gomulka fu arrestato ma mai processato.

Nell’URSS intanto era in pieno svolgimento la lotta contro il ‘sionismo’ ed il ‘cosmopolitismo’, culminata nel 1952 con gli arresti dei medici ebrei, accusati di aver ucciso alcuni alti dirigenti e di voler usare lo stesso trattamento a Stalin.

Anche in tutti questi casi la popolazione fu mobilitata perché in manifestazioni ‘spontanee’ chiedesse a gran voce la morte dei pretesi colpevoli, costretti spesso a confessare con la tortura psicologica ed anche fisica delitti mai commessi.

Il proverbiale marziano o più semplicemente un curioso che tra cinquant’anni dovesse chiedersi che cosa fosse la famosa ‘Caccia alle streghe’ degli anni quaranta e cinquanta del ventesimo secolo riterrebbe evidente che si trattava di ciò che avveniva nell’Europa Centrale ed Orientale e resterebbe sbalordito nell’apprendere che essa invece aveva caratterizzato la vita quotidiana degli Stati Uniti, che avevano appena vinto una guerra su tre continenti per affermare la democrazia ed i diritti dell’uomo.

E con non minore meraviglia avrebbe saputo che anche in Occidente – compresi gli Stati Uniti – c’erano raffinati intellettuali, autorevoli giornali e partiti politici anche non comunisti (come il partito socialista italiano) che consideravano ‘legittimo’ ed anzi doveroso ciò che avveniva in Europa Orientale e scandalosa la “spietata Caccia alle streghe” negli Stati Uniti.

E’ in questo completo rovesciamento della realtà che si ritrova uno degli aspetti della genialità della formula.

E’ vero che le streghe erano state bruciate a Salem nel Massachusetts, come rievocava Miller nel suo dramma, ma stati come la Romania, l’Ungheria, la Polonia e la Russia avevano precedenti ben più gravi e recenti a cui rifarsi: i pogrom antiebraici.

Un altro tratto di genialità consistette nell’associare la ‘Caccia alle streghe’ al nome del senatore Joseph McCarthy, vale a dire a personalizzare una situazione estremamente complessa.

Non importava che l’uomo politico repubblicano fosse apparso relativamente tardi sulla scena dove si svolgeva quel ‘dramma americano’, a cui peraltro avevano già partecipato sia il potere esecutivo che quello legislativo.

Sin dal 1938, infatti, negli Stati Uniti erano state emanate norme per impedire e perseguire la lotta politica condotta con mezzi violenti e l’attività a favore di stati ostili.

Lo ‘Smith Act’ del 1940 aveva precisato e confermato quelle disposizioni, che erano state approvate dall’opinione pubblica in generale e dagli ambienti ‘liberal’ vicini al partito democratico al potere con Franklin Delano Roosevelt.

Specialmente entusiasta si era mostrato il partito comunista, che sperava di vederle utilizzate contro i fascisti ed i suoi nemici trotskysti.

Quando nel 1950 undici membri del partito comunista degli Stati Uniti furono condannati in base a quella legge, McCarthy non ebbe nulla a che fare con quel processo per la semplice ragione che egli non era un giudice, ma un senatore e quindi la sua attività si svolgeva nell’ambito di una commissione senatoriale creata anch’essa dal 1938: la ‘House on Un-American Activities Committee’ (HUAC).

In seno a quest’organo egli svolse una parte importante soltanto nel 1953, il che significa anzitutto che casi clamorosi come quello dei Rosenberg, malgrado la voluta confusione, non sono riferibili al fenomeno chiamato ‘Maccartismo’.

La celebre coppia fu, infatti, smascherata nel 1950, processata e condannata l’anno seguente.

Il collegamento con McCarthy viene fatto, oltre che per l’identità della loro imputazione con la materia indagata dall’HUAC (lo spionaggio ed il tradimento a favore dell’Unione Sovietica) anche per la contemporaneità – l’anno 1953 – tra l’esecuzione della loro condanna a morte, ritardata a seguito di vari appelli, ed il ‘lancio’ nazionale del senatore repubblicano, che mai si era occupato di loro.

Fu proprio il caso Rosenberg che diede luogo a manifestazioni di isteria popolare in tutta l’Europa.

Esse, presentate come spontanee, erano in realtà organizzate dai vari partiti comunisti, specie quello francese e quello italiano, a loro volta manovrati dall’Unione Sovietica.

Lo scopo di tale mobilitazione, a cui si associarono per ingenuità o per opportunismo anche personalità indipendenti, non era tanto di salvare la vita ai due coniugi quanto di far passare certi ‘messaggi’ e di affermare certi principi.

Si voleva convincere l’opinione pubblica che in realtà i Rosenberg erano perseguitati non perché avessero commesso atti di spionaggio, ma perché erano comunisti e da ciò discendeva il messaggio principale: gli Stati Uniti erano un paese antidemocratico in cui si perseguitavano la libertà di opinione e di manifestazione del pensiero.

Il secondo messaggio, corollario del primo, era che tale comportamento liberticida era una conseguenza logica ed inevitabile del sistema capitalistico.

Terzo messaggio: soltanto distruggendo il sistema capitalistico si sarebbe potuto realizzare la libertà della società e dell’individuo.

Detto per inciso, malgrado la campagna organizzata in loro favore, non fu mai dubbia sin dall’inizio la colpevolezza dei Rosenberg e non tanto o non soltanto per le confessione e la documentata denuncia di David Greenglass, fratello di Ethel Rosenberg, ma per una serie di elementi venuti alla luce con l’arresto in Gran Bretagna dello scienziato atomico Klaus Fuchs, rifugiatosi, dopo aver scontato una parte della pena, nella Repubblica Democratica Tedesca.

Da Fuchs, che aveva lavorato al progetto atomico statunitense, si risalì ad un’altra spia, il chimico Harry Gold, suo corriere americano, anch’egli comunista.

Fu la sua confessione che portò all’arresto di David Greenglass, il quale, avendo lavorato a Los Alamos, aveva passato al cognato informazioni e diagrammi segreti perché li cedesse ai sovietici.

E’ pure vero che l’F.B.I. era in possesso di altre prove che non poteva esibire senza bruciare il sistema con cui le aveva ottenute, decifrando cioè i messaggi dell’ambasciata sovietica.

In essi gli informatori, ed in particolare i Rosenberg, erano descritti con esattezza.

Si trattava delle decrittazioni recentemente rese pubbliche e di cui si dirà in seguito.

Varese, 4 dicembre 2023

Brasile: l’Impero dei Braganza

Se oggi, in Brasile, un ‘figlio del popolo’ qual è considerato Luis Inacio Lula da Silva – per tutti, semplicemente, ‘Lula’ – può occupare, per di più una seconda volta, la poltrona riservata al Presidente in rappresentanza  dei più umili tra gli elettori è in buona parte per merito dei due Imperatori che, nel Diciannovesimo secolo, governarono quel grande Paese l’uno dopo l’altro, arrivando, per gradi, a farne uno Stato di uomini liberi.
Ma chi erano Pedro I e Pedro II?
Come e perché l’antica colonia portoghese si trasformò in un Impero?
Quale fu la loro opera riformatrice?
Alla stregua di molti altri accadimenti del primo Ottocento, la nascita di un Brasile imperiale fu conseguenza dello sconvolgimento creato in Europa da Napoleone.
Nel 1807, infatti, il Corso, inviando un corpo di spedizione, diede il via alla campagna che portò le truppe francesi ad impadronirsi della Penisola Iberica e costrinse la famiglia regnante in Portogallo – i Braganza – all’esilio in quella che era all’epoca l’unica colonia lusitana in America Latina.
Giovanni Principe Reggente in effetti regnante in luogo della madre inferma di mente, si spostò oltreoceano armi e bagagli, seguito, naturalmente, dal figlio Pedro, un bambino di nove anni.
Allorché, nel 1821, la famiglia poté tornare a Lisbona, il giovinetto preferì restare in Brasile facendosi nominare Luogotenente dal padre.
Solo un anno dopo, preso il comando del movimento separatista, Pedro accettava di essere incoronato Imperatore del Paese.
Per qualche tempo, i rapporti con la madrepatria, sia pure tra alti e bassi, continuarono, ma, nel 1825, Giovanni VI fu costretto a prendere atto della situazione e il distacco divenne definitivo.
Pedro I e suo figlio Pedro II – sul trono, complessivamente, dal 1822 al 1889 – sono, come accennato, i veri fondatori del Brasile moderno che tale divenne per la loro capacità di promuovere e vincere sempre nuove battaglie contro la conservazione rappresentata nel Paese dai grandi proprietari terrieri del Nord il cui fortissimo peso politico condizionava la vita di buona parte degli Stati della Confederazione.
I momenti salienti dell’opera imperiale sono identificabili con la promulgazione della Costituzione, assai liberale per l’epoca, nel 1824 da parte di Pedro I.
Con l’abolizione nel 1840 per volontà del quindicenne Pedro II della tratta degli schiavi.
Con la lotta contro le insurrezioni federaliste dal 1835 al 1840.
Con la definitiva abolizione della schiavitù divenuta operativa  solamente nel 1888 perché fortemente osteggiata da buona parte dei ‘fazeinderos’.
(Fra l’altro, il decreto del 1888 di cui si parla fu firmato dalla figlia di Pedro II, Isabelita, essendo al momento il padre a Milano, ospite del Grand Hotel et de Milan).

Il secondo Imperatore (è di lui che conviene occuparsi maggiormente), succeduto al genitore – il quale era tornato a Lisbona – a soli cinque anni, nel 1831, ed effettivamente regnante dal 1840, fu Sovrano colto e abilissimo che seppe distinguersi anche per capacità militari portando a termine vittoriosamente la terribile guerra con il Paraguay che incendiò l’America Latina dal 1865 al 1870.
A capo di un sistema sostanzialmente antidemocratico, fu capace di elargire con sagacia quel tanto di democrazia che un Paese immaturo come il Brasile di allora poteva assorbire.
Secondo Gilberto Freyre, era “una sorta di Regina Vittoria in pantaloni … che teneva d’occhio i suoi uomini di Stato come un poliziotto morale.”
Purtroppo, proprio la legge, da lui fortemente voluta, che liberò i molti milioni di schiavi presenti nel Paese gli costò il trono che  abbandonò nel 1889, essendogli oramai ostile la Chiesa ed avendo contro gli alti gradi dell’Esercito che si erano pronunciati per la Repubblica.
Rifugiatosi a Lisbona verso la fine di quell’anno e persa la moglie Teresa (una Borbone di Napoli sposata per procura nel 1843), passò poco dopo in Francia dove si spense nel 1891.

Per gli storici, l’epoca imperiale brasiliana fu un periodo, nel suo complesso, di grande stabilità politica e nazionale specie in rapporto a quello che era allora il continente sudamericano.
Incredibilmente, nel 1993 – tanto era buono il ricordo dei Braganza – si tenne in Brasile un referendum popolare per decidere sulla eventuale restaurazione monarchica.
L’esito non fu purtroppo positivo, ma, a distanza di centoquattro anni dall’addio al loro ultimo Imperatore, buona parte dei brasiliani si dichiararono pronti a riavere sul trono uno dei discendenti di Pedro II!

Varese, 4 dicembre 2023

Mark Alonzo Hanna

1896, le elezioni Presidenziali negli Stati Uniti sono fissate al 6 novembre.
Il Presidente Grover Cleveland, va compiendo il secondo mandato (il democratico Cleveland è l’unico capo dello Stato USA eletto due volte non consecutivamente, nel 1884 e nel 1892, avendo perso nel 1888 da Benjamin Harrison) e i due partiti egemoni mettono in campo l’uno, quello democratico, William Jennings Bryan e l’altro, quello repubblicano, William McKinley.
Bryan è un oratore formidabile ed è sostenuto anche dal partito Populista, allora di un qualche peso.
(Conseguenza di tale appoggio un altro fatto non unico, ma decisamente raro: i candidati alla Vicepresidenza che lo affiancano sono due, Arthur Sewall per i democratici e Thomas Watson per i populisti.)
L’esito elettorale è però nettamente favorevole a McKinley che, su poco meno di quattordici milioni di votanti, prevale in termini di voti popolari per settemilioni centomila circa a sei milioni cinquecentomila all’incirca.
(I restanti suffragi vanno a candidati, sempre numerosi, di movimenti minori: John McAuley Palmer del National Democratic Party, Joshua Levering  Proibizionista, Charles Horatio Matchett Socialista e Charles Eugene Bentley Nazionalista.).
Quanto ai delegati, il repubblicano ne cattura duecentosettantuno lasciandone solo centosettantasei al rivale.
Fatto è che per la prima volta una campagna elettorale – quella repubblicana – viene organizzata e gestita in modo che definirei ‘moderno’.
Ideatore e motore della stessa, Mark Alonzo Hanna (1837-1904).
Industriale uomo politico di grande rilievo, Hanna raccolse un totale di tremilioni e mezzo di dollari a sostegno di McKinley.
All’epoca, era ritenuto del tutto impossibile perfino avvicinarsi a una tale, cospicua cifra.
Nel corso della sfida, mobilitò millequattrocento persone per distribuire fiumi di pamphlet, manifestini, poster e organizzare comizi volanti.
Fu certamente la campagna più dispendiosa mai fatta con un rapporto di spesa di dodici contro uno nei confronti dell’avversario.
A parte la pubblicità per la prima volta estesa a tutta la nazione, da sottolineare l’uso strategico da parte di Hanna della stampa e soprattutto la stesura dei discorsi del candidato.
Ancora al servizio di McKinley nel 1900, anno nel quale il presidente fu rieletto battendo più nettamente il medesimo rivale Bryan, il Nostro non accolse affatto di buon grado la successione allo stesso McKinley, morto a seguito di un attentato, del vice Theodore Roosevelt, da lui definito “Quel maledetto cow boy”.
I suoi metodi saranno studiati particolarmente da Edward Louis Bernays, nipote ‘americano’ di Sigmund Freud e grande stratega per larga parte del Novecento in tema di campagne pubblicitarie di ogni genere (non solamente politiche).
(L’opera principale di Bernays, pubblicata nel 1928, si intitola ‘Propaganda’.
Assai significativo il sottotitolo: ‘Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia’).

Varese, 4 dicembre 2023

Bill Clinton, ‘oh lucky man’

Pochi Presidenti sono stati fortunati quanto Bill Clinton.
Fino al 1992 semi sconosciuto Governatore del periferico Stato dell’Arkansas, il Nostro (abilissimo nel condurre le campagne elettorali, bisogna pur dirlo) riuscì in quell’anno a conquistare nelle Primarie la nomination democratica approfittando dell’inspiegato ritiro di Mario Cuomo, il favorito, e della pochezza dei contendenti in campo incapaci di proporsi quali serie alternative.
Di più, ebbe ragione a novembre di un George Herbert Bush impelagato in una seria crisi economica ed azzoppato dalla candidatura del terzo incomodo Ross Perot (un miliardario in corsa in proprio e successivamente, quattro anni dopo con minore successo, per il da lui fondato ‘Reform Party’) che non si affermò in nessuno degli Stati ma sottrasse all’incumbent i voti necessari per una conferma.
In crisi nei primi due anni di mandato durante i quali le sue proposte riformiste non trovarono appoggio nel Congresso che pure era a maggioranza democratica, Clinton, nel 1994, dopo la sconfitta del suo partito nelle Mid Term Elections, si trovò a combattere con due
camere dominate dal GOP.
Salvato da una improvvisa ripresa dell’economia certamente non conseguente ad alcun suo significativo intervento, nel secondo quadriennio seppe ricollocarsi al centro adottando molte delle proposte inizialmente avanzate dai repubblicani.
In politica estera, poi, godette dei vantaggi derivanti dalla favorevole situazione internazionale conseguente allo smembramento dell’Unione Sovietica.
Infine, con indubbia abilità e pur sorpreso più volte a mentire pubblicamente (anche sotto giuramento), si salvò dagli impicci conseguenti allo scandalo Lewinsky cavandosela alla meno peggio, allorché, secondo Presidente dopo Andrew Johnson, gli toccò subire l’onta dell’impeachment.
D’altra parte, Napoleone confessava di preferire a tutti i generali fortunati!
Come si stringe la mano.
Mille e mille e, alla fine, decine di migliaia, le strette di mano scambiate all’uscita delle fabbriche, degli uffici, dei cinema, dei teatri e di ogni e qualsiasi altro posto di lavoro o di ritrovo con i potenziali elettori da un aspirante alla Casa Bianca durante l’interminabile campagna elettorale.
Alla sera, prima di andare a letto, massaggi e panni caldi per recuperare l’uso dell’intero arto destro messo a cotanta prova.
Ma, ovviamente, al di là delle strette di mano distribuite in queste occasioni a chi capita capita, importantissime quelle concesse negli incontri pubblici o privati a quanti al candidato vengono nominalmente  presentati.
Maestro indiscusso di questo particolare e molto più intimo contatto, l’ex presidente Bill Clinton la cui ‘azione venne attentamente studiata e descritta da Joe Kline (autore del best seller ‘Colori primari’, ai tempi uscito come opera anonima, nel quali rivelava caratteristiche del candidato, della consorte e relative al rapporto ‘agitato’ che i due avevano), capo redattore di Newsweeck, che ne seguì l’avventura nel 1992, allorché, quasi fuoriuscendo a sorpresa dal nulla o dal cilindro di un prestigiatore, gli riuscì di sconfiggere George Herbert Bush, per parte sua reduce dalla vittoriosa Guerra del Golfo e, in partenza, considerato imbattibile.
Fondamentale, nel caso, l’uso della sinistra che ‘lavora’ nel mentre la destra si avvolge, vigorosamente ma senza stritolarla, alla mano del bencapitato.
Scrive il predetto Kline:
“Può posarvela sul gomito, oppure sul bicipite: significa che voi gli interessate; conoscervi per lui è un onore.
Se al contrario sale più su e, per esempio, vi avvolge il braccio sinistro attorno alle spalle, in qualche modo c’è meno confidenza, più distacco: si farà due risate con voi oppure vi rivelerà un segreto (un segretuccio, niente di trascendentale) lusingandovi con l’illusione di essere suoi complici.
Ma se non vi conosce tanto bene e voi gli avete appena detto qualcosa di importante, una cosa seria o nata sull’onda di una grande emozione, si avvicinerà e vi farà omaggio di una stretta a due mani, abbrancandovi polso e avambraccio con la sinistra”.
Il tutto, ovviamente, nel modo più naturale perché lo sguardo del candidato per natura vincente che si posa sul nuovo sodale comunica che crede veramente in tutto quel che fa  e che d’ora in poi, qualsiasi cosa capiti, nessuno potrà cancellare la nuova e profonda amicizia appena nata.

Varese, 4 dicembre 2023

Il Glossario essenziale della politica americana continua … 

‘General election’:
è la votazione alla quale partecipano candidati generalmente scelti dai partiti con Primarie e Caucus. Si svolgono a livello locale, statale e nazionale.

Gentrificazione (da ‘gentry’):
è il processo attraverso il quale quartieri un tempo popolari sono riqualificati e diventano preda di investitori immobiliari e commarciali escludendo gli autoctoni.

‘Gerrymandering’:
nei singoli Stati la composizione dei Distretti Elettorali è di competenza locale. Ciò comporta aggiustamenti e accorpamenti tesi a favorire l’elezione di esponenti del partito al momento in grado di decidere in merito.
Il nome deriva da quello di un Governatore del Massachusetts (Elbridge Gerry, poi Vice Presidente) dei primi Ottocento.
Guardando la mappa colorata dello Stato dopo i suoi armeggi, un tale ebbe a dire: “Pare una salamandra” (salamandra = ‘salamander’ da cui ‘salamandering’ da cui appunto ‘gerrymandering’).

‘Governor’:
è colui che esercita il potere esecutivo in uno Stato. Il titolo deriva dalla denominazione inglese dei funzionari che appunto governavano le tredici colonie.
È eletto direttamente dal popolo per un mandato quadriennale (tranne nel New Hampshire e nel Vermont dove è biennale).
I singoli Stati dettano in materia le leggi che riguardano i poteri e la rieleggibilità.

‘Grand Old Party’:
altro appellativo del Partito Repubblicano.
L’acronimo GOP viene in alternativa usato per indicare il movimento politico, i suoi esponenti e i suoi elettori.

‘Grandfather clause’:
terminata la Guerra di Secessione ed entrati in vigore i due Emendamenti che concedevano il diritto di voto ai neri (uomini, le donne comunque escluse), al fine di impedire loro di esercitarlo, gli Stati del Sud introdussero varie norme limitative.
Due le più importanti.
In primo luogo, occorreva dimostrare di sapere leggere e scrivere.
Poi, di conoscere il testo della Costituzione.
Così operando però anche molti elettori bianchi incolti restavano esclusi. È al fine di superare tale impasse che fu ideata la cosiddetta ‘Clausola del nonno’.
Si stabilì cioè che potevano essere ammessi a prescindere ai seggi anche tutti coloro che dimostravano che il padre o i nonni avevano votato prima del 1868. E visto che certamente i neri non potevano vantare questo antefatto…

‘Grassroots’:
ovvero, letteralmente, ‘radici dell’erba’.
Vengono così definiti i movimenti politici di base spontanei che nascono localmente all’interno di una comunità e trovano linfa nel volontariato.

‘Greenback’:
partito che si presentò in tre circostanze alle Presidenziali tra il 1876 e il 1884. Sosteneva l’inflazione monetaria, una tassa proporzionale sul reddito e il suffragio femminile. Ottenne il massimo risultato con James Weaver nel 1880 con poco più del tre per cento dei suffragi.

‘Hard money’:
è il contributo/donazione diretto esplicitamente ad uno specifico candidato, non genericamente ad un partito.

‘Heartbeat’:
è il Vice Presidente che si trova ‘a un battito di cuore’ dalla Casa Bianca. Dovesse mai fermarsi quello del Capo dello Stato…

‘House of Representatives’:
si chiama ‘Camera dei Rappresentanti’ il ramo del Congresso nel quale – ai sensi e per conseguenza della approvazione da parte dei Costituenti del cosiddetto ‘Compromesso del Connecticut’ che introdusse il bicameralismo – è appunto rappresentato il popolo. Ogni Stato ha diritto ad un minimo di un eletto nel consesso (parecchi sono attualmente in tale situazione).
Essendo per disposizione di legge il numero totale dei ‘Representatives’ fissato a quattrocentotrentacinque, sono distribuiti proporzionalmente alla consistenza degli abitanti quale risulta dal decennale Censimento. Possono pertanto aumentare o diminuire e guardando proprio a tali mutazioni si può tenere storicamente conto dei movimenti e delle migrazioni interne come dei progressi o dei declini sociali delle singole realtà.
Gli Stati delimitano al proprio interno la composizione dei Distretti elettorali.
Essendo il mandato dei Rappresentanti biennale, il totale rinnovo avviene ogni due anni, in occasione e coincidenza delle votazioni per gli Elettori e nelle cosiddette Mid Term Elections.
Gli eletti entrano in carica il 3 gennaio dell’anno seguente la chiamata alle urne degli aventi diritto.

‘Hyphenism’:
fedeltà a due diversi Paesi, quello d’origine e quello di adozione. Da ‘hyphen’, trattino o lineetta di unione (‘Irish-American’, per esempio).
In uno Stato i cui abitanti erano immigrati, una condizione in molte circostanze significativa. Le appartenenze hanno sempre avuto – ovviamente – importanza in campo politico ed elettorale.

Varese, 3 dicembre 2023

I telefilm USA, la Lettera ai Galati di San Paolo e il ‘rib’

Infinita la serie di telefilm americani nei quali il poliziotto di turno  sistema in commissariato nell’apposita cameretta l’indiziato e comincia ad interrogarlo.
Cerca, in primo luogo e dopo avergli comunque recitato la formula magica della ‘Miranda Escobedo contro Arizona’ (quella che si conclude con “Ha capito i suoi diritti?”), di evitare che l’indagato chiami un avvocato.
Meglio, se gli riesce, spremerlo ben bene in un faccia a faccia che viene registrato, mentre, dietro la parete a specchio, colleghi e, magari, un vice procuratore osservano e ascoltano pronti, se del caso, ad intervenire.
Ecco, rileggendo in questi giorni la ‘Lettera ai Galati’ di San Paolo nella magnifica versione introdotta e commentata da Giorgio Paximadi, sono arrivato al riguardo ad una particolarissima conclusione.
Non so se per il fatto che la grande maggioranza degli autori (in senso lato: sceneggiatori, registi, produttori…) delle citate serie tv USA sono ebrei, ma, certamente, il tipico passaggio di ogni telefilm poliziesco che si rispetti sopra descritto altro non è che l’applicazione al caso del ‘rib’, adottato appunto da San Paolo nella stesura della Lettera ai Galati, prima sezione in specie.

Ma di cosa si tratta?
Il ‘rib’ (e prendo a prestito le espressioni in proposito di Paximadi) è la controversia bilaterale ebraica a sfondo giudiziale e fortemente si differenzia dalla allocuzione (arringa o difesa che sia) svolta da una della parti davanti al tribunale per decidere la controversia.
Trova, il ‘rib’, collocazione prima della discussione giudiziaria propriamente detta, la quale ne è uno degli esiti possibili.
Nel ‘rib’ il discorso dell’accusatore si rivolge non al giudice ma all’accusato stesso e tenderà a fargli riconoscere la sua colpa, mentre l’accusato cercherà di convincere l’investigante della propria innocenza o proporrà una soluzione che ristabilisca l’accordo.
La formula letteraria del ‘rib’ – conclude l’ottimo Paximadi – conosce un utilizzo anche nella letteratura profetica.

Dalla tradizione ebraica, da ‘Galati’ ai serial tv americani di ambientazione poliziesco/investigativa il passo è quindi breve?!

Varese, 3 dicembre 2023

Messico e nuvole
Come passa il Tempo…

Alfonso Cuarón Orozco,
Guillermo del Toro Gómez, Alejandro González Iñárritu.
Grandi e giustamente celebrati sceneggiatori e registi cinematografici messicani impegnati a Hollywood.
E pensare che ai bei tempi era voce comune affermare
“ci sono tre tipi di film: quelli belli, quelli brutti e quelli messicani!”

Varese, 3 dicembre 2023

Breve profilo storico della
Massoneria statunitense
di Lorenzo Bellei Mussini
Per poter comprendere, ancorché parzialmente, il ruolo che la Massoneria svolse nella storia statunitense, è opportuno soffermarsi su uno dei primi passaggi della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, firmata a Philadelphia, il 4 luglio 1776.

“We hold these Truths to be self-evident, that all Men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness.”1

Di primo acchito, non si può non cogliere, in tale estratto, un’influenza di uomini che, nel pensare e ratificare questo documento, avevano consacrato totalmente loro stessi alle cause di libertà, uguaglianza e fratellanza.
In particolare, la presenza di nove massoni –  che manifestarono la loro fedeltà ai valori della Libera Muratorìa – all’interno dei cinquantasei firmatari della Dichiarazione d’indipendenza, determinò la piena armonia del Trinomio massonico con la nuova Repubblica americana, promuovendo altresì una graduale incorporazione dei principi latomistici nella cultura del Paese.
Ora, come si giunse all’assimilazione di tali suggestioni e quale fu il processo che portò la Libera Muratorìa nei futuri Stati Uniti?
La Massoneria vive nella storia e con essa interagisce dialetticamente, sicché per affrontare il rapporto tra l’Istituzione e lo Stato americano non si può prescindere dalle prime testimonianze di presenze massoniche nelle colonie.
Già prima del 1717 (anno di fondazione della Gran Loggia di Londra), la vita massonica era attiva in diverse parti del mondo.
Nel 1682, lo scozzese John Skene, membro dal 1670 di una loggia di Aberdeen in Scozia, era emigrato nelle colonie inglesi d’America, stabilendosi a Burlington nel New Jersey, provincia di cui fu anche vice-governatore.
Tuttavia, il primo massone nato nei futuri Stati Uniti fu Jonathan Belcher di Boston che venne iniziato in una ‘Society of Masons’ londinese nel 1704 e che, rientrato in patria, si distinse sia come libero muratore, sia – e soprattutto – come governatore regio in molte colonie, tra le quali Massachusetts, New Hampshire e, dal 1747, New Jersey.

A confermare la crescente presenza massonica nell’area americana fu Benjamin Franklin che, all’interno di un articolo del ‘The Pennsylvania Gazzette’ dell’8 dicembre 1730, affermava: “As there are several lodges of Free Masons erected in this Province, and people have lately been much amused with conjectures concerning them, we think the following account of Free Masonry, from London, will not be unacceptable to our readers”2 .

Che Franklin fosse a conoscenza di embrioni di associazionismo massonico è più che probabile; e però, è quantomeno possibile che le considerazioni dell’editore americano, relative a “several lodges”, concernessero un gruppo di liberi muratori riunitosi presso la King’s Chapel di Boston intorno al 1720 e, soprattutto, al mandato, concesso dal Gran Maestro d’Inghilterra, il duca di Norfolk, il 5 giugno 1730 – con effetto dal 24 giugno 1731 –, che portò alla nomina del colonnello Daniel Coxe a Gran Maestro Provinciale di New York, del New Jersey e di Pennsylvania; provincia, quest’ultima, dove esisteva la loggia Saint John di Philadelphia.
Lo stesso Franklin, peraltro, venne iniziato alla Massoneria nel 1731, ricoprendo successivamente, il ruolo di Gran Maestro Provinciale della Pennsylvania nel 1734 e, soprattutto, adoperandosi fattivamente per la pubblicazione della prima edizione delle Costituzioni di Anderson nelle colonie, avvenuta nel 1734.
La diffusione delle logge – nonché del pensiero massonico – nelle colonie si svolse in modo naturale: in breve tempo, sorsero diverse Grandi Logge, alcune riceventi l’autorizzazione da parte della Gran Loggia di Londra, altre in fase di evoluzione.
Nel luglio del 1733, il Gran Maestro inglese – il visconte Montagu – riconobbe ufficialmente la loggia Saint John di Boston, nominando peraltro Henry Price Gran Maestro Provinciale dell’America del Nord.
Costui divenne il punto di riferimento per la Massoneria inglese nelle colonie, sicché per ottenere il riconoscimento di Londra, era necessario rivolgersi a Price.
Tuttavia, al pari dei massoni inglesi, anche quelli che andavano fondando logge a Boston, Montserrat, Philadelphia, Savannah, Charleston, Portsmouth, New York et cetera, seguirono l’evolversi scismatico della Madrepatria, dividendosi in ‘Ancient’ e ‘Modern’. Dal 1751, infatti, si era prodotto uno scisma che aveva diviso i massoni inglesi in ‘Antichi’ e ‘Moderni’.
I primi, che non avevano voluto aderire alle Costituzioni del 1723, si riferivano in maggioranza ai Landmarks – princìpi inviolabili – della Loggia di York, che pretendeva di esistere sin dal X secolo. Costoro crearono pertanto una seconda Gran Loggia, quella degli ‘Antichi’ appunto, composta per lo più da Irlandesi e Scozzesi che si opponevano ai massoni ‘Moderni’ raggruppati nella Gran Loggia di Londra.
Le radicali trasformazioni che sorsero allorquando nei futuri Stati Uniti cominciò l’epoca delle rivoluzioni coinvolsero anche la vita delle logge.
In particolare, fu la separazione secondo i due sistemi inglesi a portare una contrapposizione all’interno delle varie officine.
In sintesi, nelle logge dei ‘Moderni’, coloro che ricoprivano la carica di maestro venerabile erano prevalentemente i governatori regi, gli alti ufficiali e gli impiegati, cioè coloro che non volevano rompere con l’Inghilterra.
Di contro, fra gli ‘Antichi’, si trovava la maggior parte dei propugnatori dell’indipendenza: era tra le fila di questi che andava concretizzandosi l’idea degli Stai Uniti d’America.
In tal senso, la Libera Muratorìa fu uno dei principali germi da cui sarebbero sorti gli USA: occorre, infatti, sottolineare che i rappresentanti delle diverse colonie sceglievano le logge come luogo d’incontro, terreni comuni preposti al dialogo, ove era necessario mitigare il fervore e il trasporto che caratterizzavano gli animi dei protagonisti nella vita profana.
In tale contesto, le logge Saint John di Philadelphia e Saint Andrew di Boston – fondata nel 1752, con l’autorizzazione della Gran Loggia di Scozia – rispecchiavano, seppur parzialmente, la divisione tra ‘Moderni’ (Saint John) e ‘Antichi’ (Saint Andrew).
Parallelamente alla diffusione nelle colonie, l’Arte muratoria si era andata sviluppando anche nell’esercito britannico, sin dal 1732, sotto forma di logge ‘da campo’.
Tali officine erano, anzitutto, itineranti e trasportavano insegne e arredi nelle medesime casse che contenevano le bandiere del reggimento e altri oggetti a uso prettamente militare.
La prima loggia nell’esercito britannico venne fondata nel 1732 nel Reggimento di fanteria Royal Scots, mentre nel 1755 ve ne sarebbero state ben ventinove, quasi tutte autorizzate dalla Gran Loggia d’Irlanda.
Ma la Massoneria si era, del resto, andata a insediare anche negli alti comandi militari e negli altri gradi dell’amministrazione civile e, soprattutto, si era andata mescolando con le giovani logge già istituite nelle colonie, riuscendo così a permeare l’amministrazione, la società e la cultura coloniale, diffondendo pertanto una mentalità, un insieme di valori da cui prendeva sempre più corpo l’idea di una nazione indipendente.
Così, attorno alla loggia Saint Andrew, che si riuniva dal 1752 presso i locali della taverna Green Dragon di Boston, si andavano raccogliendo diverse figure che appartenevano anche a organizzazioni orientate all’indipendenza delle colonie dall’Inghilterra – su tutte, la Sons of Liberty.
Tra i protagonisti di maggiore rilievo si ricordano Paul Revere, John Hancock, Joseph Warren (maestro venerabile della Saint Andrew), James Otis e William Daves.
Oltretutto, tra i promotori del Tea Boston Party del 1773 e tra i numerosi partecipanti dello stesso, nutrita era la componente affiliata alla loggia di Boston.
In seguito all’episodio testé citato, nel 1774 i coloni nord-americani stabilirono di riunirsi nel primo Congresso continentale di Philadelphia, con l’obiettivo di chiudere ogni relazione commerciale con l’Inghilterra; a reggere l’incarico di presidenza di tale Congresso era Peyton Randolph, Gran Maestro Provinciale della Virginia.
Nell’aprile 1775, le tensioni tra le due parti accrebbero e uno scontro armato tra i coloni da una parte e l’esercito inglese dall’altra tramutò una resistenza pressoché episodica in una vera e propria guerra d’indipendenza dalla corona inglese.
Qualche mese più tardi, il secondo Congresso continentale di Philadelphia, sotto la presidenza di Randolph e, successivamente, di John Hancock – membro della Saint Andrew, come visto –, deliberò la formazione di un esercito nominando George Washington, un eminente massone iniziato a Fredericksburg in Virginia nel 1752, comandante in capo.
Una volta ricevuto tale incarico, Washington decise di affidare i distaccamenti autonomi a ufficiali appartenenti alla Massoneria; ciò che tuttavia preme sottolineare è che tutti questi liberi muratori si riunivano regolarmente nelle logge ‘da campo’, che erano simili sia presso i distaccamenti sia presso le truppe.
Le officine dell’esercito costituivano un legame di rara forza per le schiere di soldati della libertà, disordinatamente mescolati tra loro: il semplice combattente che apparteneva alla loggia militare si sentiva fraternamente legato al comandante supremo o ai suoi generali e ufficiali massoni.
Quando nel 1776 il conflitto assunse ormai proporzioni elevate, le fazioni di orientamento massonico più moderate, che ancora prevalevano all’interno del Congresso continentale e che in principio non erano favorevoli a una rottura definitiva con l’Inghilterra, iniziarono a mutare la propria posizione, avvicinandosi agli indipendentisti.
Sicché, d’innanzi alla preponderanza dell’elemento autonomista, il Congresso dispose di nominare un comitato che redigesse una bozza di dichiarazione d’indipendenza, documento che venne ratificato il 4 luglio 1776.
Nel febbraio 1783, il governo britannico proclamò ufficialmente la fine delle ostilità, mentre con il trattato di Parigi del 3 settembre del medesimo anno, venivano riconosciute le colonie ribelli come nazione indipendente: gli Stati Uniti d’America.
Durante la guerra d’indipendenza, la Massoneria aveva svolto un ruolo fondamentale: essa si era servita dell’attività politica e financo rivoluzionaria, aveva trasmesso i suoi valori all’esercito, aveva rappresentato un forte legame con la Massoneria straniera e con i volontari degli eserciti francese e spagnolo; infine, aveva dispiegato gli ideali di libertà, uguaglianza, fratellanza, tolleranza, dando forma e contenuto ai quei princìpi illuministici che si erano sviluppati in Europa sul finire del XVII secolo e che sarebbero perdurati per tutto il XVIII secolo.
La Comunione massonica sarebbe ulteriormente progredita dopo la guerra d’indipendenza: essa divenne inestricabilmente legata alle istituzioni politiche sia per il bene delle logge sia per quello della Nazione.
L’affermazione e la celebrazione dei valori latomistici avrebbero avuto un riverbero considerevole per l’esperienza che avrebbe portato alla creazione di un governo autonomo.
Quattro dei quattordici presidenti del Congresso continentale erano affiliati alla Massoneria, dei nove firmatari già si è scritto, mentre tredici dei trentanove sottoscrittori della Costituzione della Repubblica e trentatré dei settantaquattro generali dell’esercito continentale erano liberi muratori.
La presenza di massoni durante le inaugurazioni di edifici pubblici, religiosi e privati, come la Casa Bianca, il Campidoglio, divenne un fatto abituale; proprio per la fondazione di quest’ultimo, tenutasi il 18 settembre 1793, il presidente George Washington, vestito con le insegne di maestro onorario della sua loggia di appartenenza, era a capo della processione pubblica.
Ma al pari della società americana, anche la Libera Muratorìa recava in sé alcune contraddizioni: nonostante un atteggiamento di costante attenzione verso le ingiustizie sociali, pressoché opposta era l’effettiva posizione dalla Massoneria nella città di Boston, dove i membri negavano l’accesso a uomini che non venivano considerati come loro eguali.
Questa indifferenza fu, invero, una della motivazioni che portò alla nascita della Massoneria Prince Hall.
Prince Hall era un esponente di spicco della comunità afroamericana di Boston che venne iniziato alla Libera Muratorìa insieme a quattordici uomini (anch’essi originari dell’Africa) in una loggia ‘da campo’ – Irish Militia n. 441, riconosciuta dalla Gran Loggia d’Irlanda -, durante l’occupazione inglese della città del Massachusetts, nel 1775.
Terminata la rivoluzione e dopo che il reggimento a cui si riferiva la loggia abbandonò la città, Prince Hall e i suoi confratelli organizzarono (su permesso del maestro venerabile dell’Irish Militia) una propria officina, la African Lodge n. 1, e si rivolsero a Londra per ottenere un riconoscimento, che sarebbe giunto nel 1784.
L’evento ebbe una particolare rilevanza per tutta la comunità afroamericana di Boston che si sentiva meno emarginata da una popolazione bianca, di fatto ancora portata a considerare le persone di colore come schiavi privi di diritti.
Negli anni successivi, Prince Hall si adoperò alacremente per tutta la comunità di cui faceva parte, facendosi promotore dell’istruzione per i bambini di colore e dell’integrazione con la popolazione bianca.

La diffusione della Massoneria tra le comunità afroamericane portò le varie logge che erano sorte negli anni successivi alla creazione dell’African Lodge, a organizzarsi in National Grand Lodge che, successivamente, avrebbe assunto il nome di Prince Hall Grand Lodge e si sarebbe diffusa in numerosi Stati federali3 .

Nel contempo, dopo una prima fase di assestamento, si andava sempre più delineando uno sviluppo dell’Unione in piena armonia con il sorgere di numerose Grandi Logge – una per Stato secondo il principio della ‘giurisdizione territoriale esclusiva’, secondo il quale per ogni territorio di uno Stato doveva esistere una sola Obbedienza massonica.
Ma fu proprio in questo momento di crescita condivisa tra l’Istituzione e la Nazione che si verificò, nel 1826, un episodio che provocò un ripiegamento della Massoneria statunitense.
William Morgan, un tagliapietre della piccola città di Batavia nello Stato di New York, aveva manifestato il desiderio di pubblicare un libro sulla Libera Muratorìa, nella quale fossero racchiusi tutti i rituali, i segni di riconoscimento e i simboli.
Per siffatto motivo, egli entrò in contrasto con i massoni della città, i quali invitarono – attraverso una serie di articoli sul giornale di Batavia, ‘Spirit of the Times’ – Morgan a desistere dal pubblicare il testo.
Peraltro, la tipografia Miller, che prendeva il nome dal proprietario che si era offerto di supportare Morgan nella pubblicazione del testo, fu più volte oggetto di vandalismi da parte di alcuni liberi muratori della città.
In questo clima di tensione, un gruppo di fratelli decise di procedere con l’imprigionamento di Morgan – con la scusa di un indebitamento – onde fargli mutar proposito.
Fu tuttavia immediatamente liberato e condotto dai suoi ‘salvatori’ (nuovamente alcuni massoni di Batavia) verso Fort Niagara, in Canada, dove scomparve in modo inesplicabile.
Prontamente l’opinione pubblica affermò che Morgan era stato assassinato, di conseguenza non solo i rapitori vennero incarcerati, ma soprattutto si scatenò un’accesa opposizione nei confronti della Massoneria, ritenuta responsabile dell’accaduto.
Clericali, battisti, mennoniti, quaccheri istigarono le folle contro la Libera Muratorìa e, quando nel 1827 venne rinvenuto un cadavere presso Fort Niagara, la campagna antimassonica raggiunse il proprio apice.
In realtà, il cadavere non era di Morgan – che peraltro sarebbe ricomparso nel 1831 a Smyrna –, ma di un canadese di Newcastle.
Giornali, sermoni antimassonici, pamphlets – tralasciando appositamente il dettaglio del cadavere rinvenuto, supportati anche dalle dichiarazioni della moglie del tagliapietre e dal tipografo Miller che asserivano che si trattasse di Morgan stesso – resero sensazionale l’episodio, intensificando così la campagna contro la Libera Muratorìa.
Furono avanzate richieste di boicottaggio economico, di dimissioni da ruoli pubblici, proscrizioni da ambienti mondani; insegnanti appartenenti alla Massoneria dovettero abbandonare il proprio incarico, mentre venne richiesto di proibire ogni attività massonica.
Tra il 1828 e il 1829, il movimento antimassonico si diffuse con grande rapidità nello Stato di New York e nei restanti Stati del nord; i legislatori che aderivano a tale corrente tentarono di far promulgare leggi che bandissero la Fratellanza e ne rendessero noti i suoi affiliati.
In occasione delle elezioni per la presidenza della Nazione nel 1832, il movimento antimassonico – che nel 1830 si era organizzato in partito politico, capeggiato dall’ex presidente John Quincy Adams, e che contava alcuni membri alla Camera dei rappresentanti – presentò William Wirt come proprio candidato, in opposizione ai massoni Henry Clay e Andrew Jackson; ma la vittoria di quest’ultimo, che gli valse un secondo mandato, inflisse forse il colpo definitivo al partito che osteggiava la Libera Muratorìa.
L’effetto di siffatto accanimento contro la Massoneria avrebbe comunque prodotto una sensibile riduzione delle logge nel Paese: dalle cinquecento officine attive a New York nel 1825 si passò a settantacinque nel 1835; per diverso tempo, numerose logge sospesero i propri lavori nel Vermont, mentre la Gran Loggia del Rhode Island non fondò logge per quasi trent’anni.
Tuttavia, all’interno dei cambiamenti che gli Stati Uniti vissero tra il secondo mandato di Jackson nel 1832 e la conclusione della guerra civile nel 1865, la Massoneria americana riuscì a riaffermare la propria trasversalità.
A conferire una ‘nuova’ immagine alla Libera Muratorìa furono, in particolare, l’American Temperance Society, l’American Peace Society, l’American Anti-Slavery Society e l’American Home Missonary Society, nuove organizzazioni politiche e sociali tutte di ispirazione massonica.
E nonostante la secessione degli undici Stati del Sud avesse diviso società, famiglie e fratelli, l’Istituzione fu comunque in grado di evitare una profonda divisione al suo interno: pur non essendoci una posizione ufficiale in risposta agli eventi della guerra civile, alcuni massoni manifestarono la loro costernazione e avanzarono proposte di soluzione.
Tale impostazione, del resto, era altresì evidenziata dalla formazione, tra gli eserciti, di circa duecentoventicinque logge ‘militari’ che, al pari di quelle che operarono durante la guerra d’indipendenza, divennero luoghi di rifugio dalla confusione delle battaglie, dove ci si poteva confrontare secondo i valori di uguaglianza e fratellanza.
Conclusa la guerra civile, che aveva fortemente minacciato quanto creato dai padri fondatori nel 1776, anche la Massoneria statunitense poté giovarsi di un clima più mite entrando in un nuovo periodo di prosperità e prestigio.
Nel lasso temporale a cavaliere tra il 1865 e il 1910, periodo di maggiore importanza per la Libera Muratorìa statunitense, l’Istituzione svolse un importante e visibile ruolo nella vita comunitaria: le logge locali al pari delle Grandi Logge venivano invitate alle cerimonie d’inaugurazione di numerosi edifici e luoghi pubblici, come nel caso della Statua della Libertà nel 1884 e del parco nazionale di Yellowstone nel 1903.
Questa preponderante presenza della Massoneria nella vita quotidiana, principalmente pubblica, era – ed è – dovuta all’impostazione della stessa verso il dominio sociale, ambito nel quale la Comunione esplicava principalmente la propria attività.
Del resto, tutte le Grandi Logge disponevano di fondi considerevoli per la beneficenza e la solidarietà: tale disponibilità economica favorì la formazione, all’interno della grande famiglia massonica, di organizzazioni quali The Ancient Arabic Order of the Nobles of the Mystic Shrine che, sorto a New York nel 1870, aveva come obiettivo il sostegno finanziario di ospedali e ricerche mediche.
Il prestigio e l’influenza che la Massoneria ebbe – e ha tuttora – negli Stati Uniti furono – e sono – strettamente legati a quelli della stessa Nazione: la ricerca della felicità va infatti a coincidere con quella della virtù massonica, ovvero con quella dell’uomo che, indipendentemente dalle proprie origini, è riuscito nel suo impegno, nel suo lavoro, a realizzarsi raggiungendo il riconoscimento sociale della virtù.
Per questo motivo, più che per l’altissimo numero di affiliati, la Massoneria degli Stati Uniti d’America occupa il primo posto nel mondo: essa, infatti, attraverso i propri mezzi, manifesta al mondo esterno, non già la sua autorità, ma la sua autorevolezza, riuscendo a mantenere inalterati quei valori primordiali che costituiscono l’ideale iniziatico.
***
Nel leggere questo breve contributo sulla storia della Massoneria statunitense, il lettore avrà potuto apprendere dell’appartenenza alla Libera Muratorìa di alcuni presidenti degli Stati Uniti d’America.
Si tratta di personalità che diedero lustro alla Nazione che governarono e che, parimenti, ebbero – chi più chi meno – ruoli di grande rilievo anche all’interno dell’Istituzione.
Tra coloro che ricoprirono la carica di presidente, quattordici furono iniziati alla Massoneria.
George Washington è sicuramente il primo cittadino americano la cui appartenenza all’Istituzione è stata ampiamente studiata e analizzata.
Come scritto, egli venne iniziato all’Arte muratoria nel 1753 all’età di vent’anni, tuttavia è opportuno evitare interpretazioni forzate: l’appartenenza di Washington alla Comunione faceva probabilmente parte di un insieme di ruoli attesi da una figura della sua statura sociale e politica.
Uomo d’azione, beninteso, ma possibilmente anche di grande apertura mentale che, benché non partecipasse costantemente agli incontri che si effettuavano in loggia, avrebbe sempre manifestato grande rispetto nei confronti della Massoneria, com’è del resto desumibile dalle sue stesse parole:

“Being persuaded that a just application of the principles, on which the Masonic Fraternity is founded, must be promote of private virtue and public prosperity, I shall always be happy to advance the interests of the Society, and to be considered by them as a deserving broche”4 .

Contrariamente alla grande quantità di notizie relative a Washington massone, limitate sono le informazioni concernenti James Monroe, quarto presidente degli Stati Uniti – dal 1817 al 1825.
Le fonti massoniche riferiscono che venne iniziato, nel novembre 1775, apprendista libero muratore nella Williamsburg Lodge n. 6, di Williamsburg in Virginia.
Sicuramente ragguardevole, tra i primi presidenti statunitensi massoni, fu la figura di Andrew Jackson – iniziato nella Harmony Lodge n.1, in Tennessee – che esercitò il proprio ufficio nel periodo di massima tensione tra la Massoneria e il movimento (poi partito) antimassonico.
Attivissimo muratore, egli fu il primo presidente degli Stati Uniti ad aver ricoperto, prima della sua elezione, il ruolo di Gran Maestro di una Gran Loggia, quella del Tennessee, suo Stato d’origine.
Massoni attivi furono anche i presidenti – entrambi appartenenti al partito democratico –James Knox Polk, iniziato nel 1820 alla Columbia Lodge n.1 del Tennessee, Stato di cui fu anche governatore dal 1839 al 1841, e James Buchanan, quindicesimo presidente degli Stati Uniti, iniziato nel 1816 alla Lancaster Lodge n. 43, in Pennsylvania.
Questi, che divenne maestro massone nel 1817, ricoprì peraltro la carica di maestro venerabile nel biennio 1822-1823, mentre nel 1824 venne nominato Deputy Grand Master della Gran Loggia di Pennsylvania.
Secondo fonti massoniche americane, vicino alla Massoneria sarebbe stato anche il presidente Abraham Lincoln, che effettivamente effettuò la domanda per entrare nell’Istituzione, ma che non vi si affiliò mai – anche per l’imminente scoppio della guerra.
E però, egli avrebbe sempre manifestato grande rispetto per la Comunione, riconoscendo l’importanza che essa aveva nel formare e migliorare gli uomini.
Attestata, invece, è l’appartenenza alla Libera Muratorìa del secondo vicepresidente di Lincoln, Andrew Johnson, scelto perché esempio personale di unità fra Nord e Sud.
Egli assunse la carica di presidente in seguito alla morte di Lincoln, tentando subito di riconciliare la parte confederata, senza sottoporla al controllo militare, come al contrario auspicavano i repubblicani radicali.
Johnson era stato iniziato alla Massoneria nel 1851 nella Greeneville Lodge n. 119, in Tennessee, e anch’egli ricoprì la carica di governatore dello Stato da cui proveniva.
Meno rilevante, rispetto ad altri presidenti, fu l’appartenenza massonica di James Abram Garfield, soprattutto per la sua breve e sfortunata esperienza presidenziale.
Dalle esigue informazioni presenti negli archivi della Gran Loggia dell’Ohio, si apprende che Garfield fu iniziato nella Magnolia Lodge n. 20, a Columbus in Ohio nel 1861, raggiungendo tuttavia il grado di maestro nel 1864, in un’altra officina della medesima città, la Columbus Lodge n. 30.
Di maggiore impatto fu, al contrario, l’appartenenza alla Massoneria di William McKinley (presidente tra il 1897 e il 1901).
La Comunione, nel pieno della guerra civile, era ispirata verso l’associazionismo fraterno e solidale, aspetto che l’allora Maggiore McKinley poté verificare di persona, allorquando rimase colpito e affascinato da un medico massone che portò soccorso a prigionieri ribelli.
Malgrado fosse dell’Ohio – di cui sarebbe stato governatore tra il 1892 e il 1896 –, McKinley chiese, nel 1865, di poter entrare nella confederata Hiram Lodge n. 21, a Winchester, in West Virginia.

Energico e dinamico nel vivere la sua appartenenza alla Massoneria, egli si conformò in toto al carattere solidale della stessa, com’è desumibile non solo dalla sua adesione allo Shrine, ma soprattutto dalla sua acuta riflessione sui sentimenti di solidarietà e unione della società di fratellanza che reputava analoghi a quelli che da sempre caratterizzavano il principio di ‘equal citizenship’, per il quale tutti i cittadini sono uguali e godono dei medesimi diritti.

Alla fiducia nel continuo progresso dell’umanità, che già McKinley aveva manifestato, è correlata la totale fedeltà all’ideale di fratellanza della Libera Muratorìa da parte di due presidenti appartenenti alla stessa.
Se per Theodore Roosevelt, iniziato nel 1901 nella Martinecock Lodge n. 806, a Oyster Bay (New York), la scelta di entrare nell’Istituzione fu motivata dal fatto che essa manteneva l’impegno che gli Stati Uniti si erano promessi di realizzare, ossia quello di trattare ogni uomo per il suo valore in quanto Uomo; per William Howard Taft essere massone era un onore, giacché riusciva a percepire la profonda emozione nel riconoscere la sovranità del Creatore e la fratellanza tra gli uomini.

Peraltro, Taft proveniva da una famiglia ove sia il padre sia i fratelli erano liberi muratori e venne iniziato, nel 1909, ‘Mason at sight’5 dal Gran Maestro della Gran Loggia dell’Ohio, Charles Silser Hoskinson, nella Body of Kilwinning Lodge n. 356 di Cincinnati.

Per quel che concerne, invece, la figura del presidente Warren Gamaliel Harding si ricorderà che questi, iniziato alla Libera Muratoria nel 1901 nella Marion Lodge n. 70, in Ohio, fornì ampio supporto alla diffusione dei club service Rotary e Lions, entrambi fondati da liberi muratori (Paul Harris e Melvin Jones), che combinavano i principi massonici con il sevizio alla comunità.
Tuttavia, il suo ruolo risulta di minor impatto se paragonato agli ultimi tre presidenti degli Stati Uniti che furono iniziati alla Massoneria e che ne furono altissimi e degnissimi rappresentanti: Franklin Delano Roosevelt, Harry Spencer Truman e Gerald Rudolph Ford.
Allorquando venne eletto presidente per la prima volta (1932), Roosevelt era già un massone di lunga data: era stato iniziato nel 1911 nella Holland Lodge n. 8 di New York, dove nel medesimo anno avrebbe ricevuto i gradi di compagno d’arte e maestro.
Peraltro, nel 1934 sarebbe anche stato nominato primo Gran Maestro Onorario dell’Ordine di DeMolay, l’organizzazione giovanile ispirata alla Massoneria.

Ora, pur non essendo possibile affermare a priori un retaggio latomistico nel New Deal, sono quantomeno avvertibili in esso alcuni principi cardine della Libera Muratorìa: uguaglianza, fratellanza, ma soprattutto solidarietà erano valori la cui valenza programmatica avrebbe potuto garantire migliori condizioni sociali e soprattutto una rinnovata fiducia volta a superare la grande depressione; speranza, del resto, che si può evincere dalle parole dello stesso Roosevelt, secondo cui “The only thing we have to fear is fear itself”6 .

Dopo essere divenuto presidente in seguito alla morte del suo predecessore nel 1945, Truman portò avanti la politica economica di Roosevelt attraverso il Fair Deal, sostenendo inoltre i lavori delle Nazioni Unite.
Iniziato nella Belton Lodge n. 450 nel Missouri nel 1908 a ventiquattro anni, venne eletto maestro venerabile della Grandview Lodge n. 618 nel 1911 e, ancora, nel 1917.
Egli seguì le proprie attività massoniche insieme a quelle politiche, venendo eletto senatore nel 1934 e Gran Maestro della Gran Loggia del Missouri, nel 1940.

Oltre a essere anch’egli nominato Gran Maestro Onorario dell’Ordine di DeMolay, ricoprì, durante la sua presidenza, la carica di maestro venerabile della Missouri Research Lodge, ribadendo il suo orgoglio di appartenenza, affermando che il suo più grande onore era di esser stato Gran Maestro e, soprattutto, scrivendo nel 1957, un’opera in quattro volumi, dal titolo 10000 Famous Freemasons, unico esempio di lavoro storico sulla Massoneria di un presidente americano.

Il più recente libero muratore che servì il proprio paese in qualità di presidente fu Gerald Ford.
Egli venne iniziato nel 1949 nella Malta Grand Lodge n. 465 in Michigan, raggiungendo i gradi di compagno e maestro nella Columbia Lodge n. 3 di Washington nel 1951.
Grazie alle parole dello stesso Ford, in occasione di un discorso pronunciato a Alexandria (Virginia), il 17 febbraio 1975, durante una cerimonia al George Washington Masonic National Memorial, è possibile comprendere quanto fosse convinta e appassionata la sua adesione alla Massoneria.
Così il presidente Ford:

“When I took my obligation as a master mason – incidentally, with my three younger brothers – I recalled the value my own father attached to that Order. But I had no idea that I would ever be added to the company of the Father of our Country and 12 other members of the Order who also served as Presidents of the United States. Masonic principles – internal, not external – and our Order’s vision of duty to Country and acceptance of God as a Supreme Being and guiding light have sustained me during my years of Government service. Today especially, the guidelines by which I strive to become an upright man in Masonry give me great personal strength. Masonic precepts can help America retain our inspiring aspirations while adapting to a new age. It is apparent to me that the Supreme Architect has set out the duties each of us has to perform, and I have trusted in His will with the knowledge that my trust is well-founded. […] Let us today rededicate ourselves to new efforts – as Masons and as Americans –. Let us demonstrate our confidence in our beloved Nation and a future that will flow from the glory of the past. When I think of the things right about America, I think of this order with its sense of duty to Country, its esteem for brotherhood and traditional values, its spiritual high principles, and its humble acceptance of God as the Supreme Being. Today we honor our first president, who was also our first masonic president”7 .

1 «Noi riteniamo che le seguenti verità siano per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità».

2 «Vi sono parecchie logge di Frammassoni erette in questa Provincia, e le persone si sono recentemente divertite nell’ascoltare le congetture che le riguardano, noi riteniamo che il seguente racconto sulla Massoneria di Londra sarà gradito ai nostri lettori». B. Franklin, in «The Pennsylvania Gazzette», n. 108, 8 dicembre 1730.

3 Vicino alla Massoneria Prince Hall è stato Barack Obama. Benché non sia possibile stabilire – di fronte alla scarsità di fonti – se appartenesse all’Istituzione massonica, è quantomeno interessante coglierne una forte affinità, desumibile dall’articolo «Line of leaders who blazed trail for president Barack H. Obama source from the State of Illinois», all’interno del «Prince Hall Masonic Journal», pubblicazione ufficiale della Prince Hall Grand Lodge dell’Illinois, dove si legge: «It is also a great finding that many of the strongest portions of the tree from wich Obama sprang were, in fact, Prince Hall Masons», in «Prince Hall Masonic Journal», Summer 2014 edition, p. 6.

4 «Essendo convito che una giusta applicazione dei princìpi, sui quali si fonda la Fratellanza Massoneria, debba essere promotrice della virtù personale e della prosperità pubblica, sarò lieto di sostenere gli interessi della Società, e di esserne considerate un degno fratello» S. Hayden, Washington Masonic Compeers, New York 1867, p. 6.

5 ‘Mason at sight’ corrisponde a quella che Italia è conosciuta come iniziazione ‘all’orecchio del Gran Maestro’, ovvero nota solo a quest’ultimo.

6 “L’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa”.

7 “Quando assunsi il mio impegno in qualità di maestro massone – peraltro, insieme ai miei tre fratelli più giovani – ho ricordato i valori che mio padre identificava con l’Ordine. Mai avrei pensato di rientrare nel novero dei Padri della nostra Nazione e di altri dodici membri dell’Ordine che furono anche presidenti degli Stati Uniti. I principi massonici – interiori, non esteriori – e la visione che il nostro Ordine ha del dovere verso la Nazione, nonché l’accettazione di Dio come Essere Supremo e luce guida, mi hanno sostenuto durante i miei anni di servizio al Governo. E specialmente oggi, le linee guida con cui mi sforzo di diventare un uomo probo in Massoneria, mi conferiscono una grande forza personale. I precetti massonici possono aiutare l’America a conservare le nostre aspirazioni più elevate, mentre si adatta a una nuova era. Mi appare evidente che il Supremo Architetto abbia stabilito i compiti che ciascuno di noi deve portare a termine, sicché mi sono affidato alla Sua volontà, consapevole che la mia fiducia è ben riposta. […] Dedichiamoci oggi a nuovi sforzi – come massoni e come americani –. Dimostriamo la nostra fiducia nella nostra amata Nazione e in un futuro che scaturirà dalla gloria del passato. Quando penso alle cose giuste dell’America, penso a quest’Ordine, con il suo senso di dovere verso il Paese la sua stima verso la fratellanza, verso i valori tradizionali, verso i suoi alti principi spirituali e la sua umile accettazione di Dio come Essere Supremo. Oggi onoriamo il nostro primo presidente, che fu anche il primo presidente massone»

Varese, 3 dicembre 2023

Il Glossario essenziale della politica americana continua … 

‘Dark Horse’:
è così definito – prendendo il termine dall’ippica – il candidato che vince pur non essendo il favorito.

‘Deadline’:
è la scadenza prima della quale il candidato ad una carica deve essersi dichiarato tale ottemperando alle disposizioni in relazione localmente previste.

‘Deadlocked Convention’:
è così definita la Convention che quanto alla determinazione del candidato alla Casa Bianca è a un punto morto (andrebbe detto ‘era’ a un punto morto dato che oramai da tempo il sistema delle Primarie e dei Caucus e il fatto che per la designazione non necessiti più una maggioranza dei due terzi fa in modo che questo non accada). Per conseguenza, si cerca e trova un candidato ‘di compromesso’.

‘Democracy’:
è il termine in uso per descrivere il sistema di governo nel quale alla fine il potere appartiene al popolo.

‘Democratic National Committee (DNC):
è il Comitato che sovraintende alle attività partitiche e al supporto degli eletti al Congresso del movimento politico il cui simbolo è l’Asinello

‘Democrats abroad’:
il Partito Democratico ha proprie rappresentanze in diversi Paesi, rappresentanze nelle quali confluiscono gli Americani di area per necessità o lavoro in giro per il mondo, in particolare per il voto e la scelta di un certo numero di delegati (ventuno in totale nel 2020) in vista della Convention.

‘Direct Elections’:
si hanno quando l’elettore può votare direttamente per un candidato o per un partito, senza mediazioni come invece accade nelle Presidenziali.

‘Direction of Country rating’:
indica il livello di approvazione rispetto al quesito se il Paese si stia muovendo nella giusta direzione o in quella sbagliata.

‘Diritto di voto’:
dal 1920 il diritto di voto è concesso a tutti i cittadini (donne incluse e fino ad allora non ammesse!) che abbiano raggiunto la maggiore età, in regola con le leggi, che si siano registrati alle liste elettorali (è possibile farlo personalmente negli uffici deputati e, in trentanove Stati più il Distretto di Columbia, online), risultino pertanto in possesso della ‘Voter registration card’.
Dovrà essere esercitato (salvo nei casi nei quali le leggi locali lo permettano) nel ‘polling place’ indicato.
Ad oggi molto Stati – tema sul quale i partiti si contrappongono essendo i Repubblicani tendenzialmente contrari – consentono il voto postale.
La predetta iscrizione è regolata da leggi statali che possono localmente variare ed è normalmente previsto che debba avere luogo entro un determinato giorno precedente (‘deadline’) l’apertura dei seggi.

‘District’:
l’area geografica che un eletto rappresenta.

‘District of Columbia’:
in questo contesto, il District nel quale si colloca la capitale Wahington e che non è uno Stato, è da prendere in considerazione perché dalle votazioni del 1964, a seguito di un Emendamento costituzionale, nomina tre propri Elettori.
Si aggiungono a quelli spettanti agli Stati portando il totale a cinquecentotrentotto e la maggioranza assoluta a duecentosettanta.

‘Dixiecrats’:
1948, non contenti delle aperture sui diritti civili in specie nei confronti dei neri proposte dal candidato e Presidente uscente Harry Truman, una parte dei delegati alla Convention democratica esce dal partito e nomina pretendente a White House J. Strom Thurmond.
Si denominano ‘Dixiecrats’ e ottengono un buon risultato negli Stati del Sud. La loro defezione peraltro non influisce sulla rielezione di Truman.

‘Dog whistle’:
in origine, il fischietto usato per richiamare i cani. È la tecnica con la quale si cerca di dilatare le proposte, in verità di poca consistenza, di un candidato facendole apparire più sostanziose al fine di ottenere il consenso degli elettori.

‘Drain the swamp’:
laddove ‘swamp’ significa ‘palude’, frase usata da Reagan per indicare la necessità di sburocratizzare e di combattere l’inefficienza.

‘Dry’:
ovvero ‘asciutto’, termine usato per definite i proibizionisti.

Duemilanovecentoventidue:
otto anni, due dei quali (gli elettorali) bisestili, e per conseguenza appunto duemilanovecentoventidue giorni.
Questa – a seguito della approvazione dell’Emendamento che nel 1951 ha posto il limite di due elezioni a White House – la permanenza massima possibile (ove si escluda il caso di un Vice Presidente subentrato al titolare nel corso del secondo biennio di mandato dello stesso, la qual cosa gli permetterebbe di arrivare, se eletto a propria volta in due occasioni, al limite, fino a dieci anni meno anche un solo minuto) da allora sullo scranno presidenziale.

‘Early voting’:
il ‘voto anticipato’ permette alle persone di votare prima della data indicata.
(Le disposizioni che seguono, in atto al 10 agosto 2020, sono comunque suscettibili di modifiche)
– 1, ‘Not excuse early voting’:
questi, più il Distretto di Columbia, gli Stati nei quali, con norme locali e pertanto anche diverse, è possibile votare anticipatamente senza doversi giustificare.
Sono:
Alaska, Arizona, Arkansas, California, Delaware, Florida, Georgia, Hawaii, Idaho, Illinois, Indiana, Iowa, Kansas, Louisiana, Maine, Maryland, Massachusetts,
Michigan, Minnesota, Montana, Nebraska, Nevada, New Jersey, New Mexico, New York, North Carolina, North Dakota, Ohio, Oklahoma, Pennsylvania, South Dakota, Tennessee, Texas, Utah, Virginia, Vermont, West Virginia, Wisconsin, Wyoming.
– 2, ‘All-mail voting’:
Colorado, Hawaii, Oregon, Utah e Washington sono i cinque Stati nei quali il voto è totalmente postale, anche se ovviamente non in modo obbligatorio.

‘Election fraud’:
è l’attività criminale tesa a ledere l’integrità del voto.

‘Election season’:
è un neologismo creato in relazione alle elezioni 2020.
Molte essendo le anticipazioni di voto (postale o tramite la consegna delle schede) consentite da parecchi Stati, iniziando il North Carolina già il 4 settembre, lo ‘Election day’ (dal 1848, il primo giorno dopo il primo martedì del mese di novembre dell’anno bisestile) va tramontando sostituito appunto dalla ‘Election season’.

‘Electoral College’:
il Collegio Elettorale è composto dagli Elettori scelti nel corso delle votazioni definite ‘Presidenziali ‘ e che tali in verità non sono.
Questi Elettori (negli USA vergati con la E maiuscola per distinguerli dal popolo che in quanto votante ha l’iniziale minuscola) sono attualmente cinquecentotrentotto, pari al totale dei Parlamentari nazionali (quattrocentotrentacinque Rappresentanti e cento Senatori) più i tre spettanti al Distretto di Columbia.
Ogni Stato ne elegge un numero uguale a quello dei propri Congressisti.
I componenti il Collegio provvedono poi, ‘il primo lunedì seguente il secondo mercoledì del successivo dicembre’, riuniti per Delegazione nelle capitali appunto statali, alla ‘vera’ nomina del Presidente.
Nell’ipotesi in cui (come accaduto nel 1824 essendo quattro allora i pretendenti capaci di vincere in almeno uno Stato) nessuno degli aspiranti – si deve comunque scegliere tra i tre più votati – alla nomina abbia raggiunto la maggioranza assoluta degli Elettori (pari oggi e dal 1964 a duecentosettanta), la competenza passa alla Camera che se ne occuperà dopo l’Insediamento del 3 gennaio seguente e che voterà ‘per Delegazione’ valendo ciascuno Stato uno a prescindere dal numero dei suoi Elettori.

‘Electoral spread’:
è il differenziale tra due candidati. Viene utilizzato anche per confrontare due momenti elettorali diversi.

‘Electoral System’:
regola l’intero processo elettorale.

‘Electoral week’:
è dal 1848 il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno bisestile giorno elettorale nazionale l’Electoral day’.
Con l’incremento del voto postale – contrastato dai repubblicani e voluto dai democratici – considerando i tempi necessari per le verifiche conseguenti, si pensa che in futuro, non essendo assai probabilmente possibile avere alla chiusura dei seggi l’esito della votazione, occorreranno per la bisogna più giorni.
Per cui non più ‘Election day’ ma, tutto considerato, appunto ‘Electoral week’ (si veda anche la voce ‘Elelection Season’ sopra trattata).

Elefante:
simbolo del Partito Repubblicano per questo definito dell’Elefante o dell’Elefantino. Vengono altresì chiamati Elefanti o Elefantini gli esponenti e gli elettori del partito.

‘Elephant in the room’:
si dice di argomento, accadimento, persona del o della quale, pur essendo sotto gli occhi di tutti, non si parli volutamente perché parlarne causerebbe problemi.

Elettori:
(l’iniziale maiuscola sempre data nel testo a questi signori – negli States effettivamente chiamati ‘Electors’ – è una mia iniziativa, li distingue dagli ‘elettori’ comuni, con l’iniziale minuscola): coloro che nominati “il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno bisestile” (allorquando si afferma venga scelto dal popolo il Capo dello Stato, cosa che non corrisponde al vero essendo l’elezione dell’inquilino di White House di secondo grado e non diretta ad opera dei cittadini) in effetti eleggono il Presidente degli Stati Uniti “il primo lunedì dopo il secondo mercoledì del successivo mese di dicembre”.
Sono attualmente, sulla base degli esiti del Censimento del 2010, e dal 1964 cinquecentotrentotto – pari al numero dei Senatori (cento, due per ogni Stato) e dei Rappresentanti (quattrocentotrentacinque, distribuiti in proporzione al numero degli abitanti quale risulta dal decennale Censimento) ai quali hanno in totale diritto i cinquanta Stati dell’Unione con in aggiunta tre delegati del Distretto di Columbia – eletti nella indicata circostanza Stato per Stato. La maggioranza assoluta da raggiungere da parte dei candidati è pertanto pari a duecentosettanta.

‘Endorsement’:
pubblica dichiarazione di appoggio a favore di un candidato ad una carica elettiva da parte di un esponente politico, di un sindacato, di una associazione, di un movimento partitico o quant’altro.

‘Exit poll’:
sondaggio all’uscita dai seggi compiuto chiedendo agli elettori di ripetere il voto effettivamente dato.

‘Faithless electors’:
sono così chiamati gli Elettori che in sede di Collegio Elettorale non rispettano gli impegni assunti e votano per candidati diversi da quelli per i quali si erano impegnati. In proposito, molti i contrasti arrivati anche alla Corte Suprema e non poche le disposizioni statali limitanti.

‘Far-left’:
estrema sinistra, un mondo negli USA molto composito. Accuse di appartenere a tale area vengono fatte dai conservatori agli esponenti, a seconda della visione che se ne ha, più progressisti, radicali, socialisteggianti o socialisti della politica e questo sia per ragioni ideologiche che elettorali.

‘Favorite son’:
in altri tempi (quando alle Convention si arrivava senza una maggioranza predeterminata, in specie perché per ottenere la Nomination occorreva il voto dei due terzi dei delegati), nelle prime votazioni, occorreva che gli Stati, al fine di tenersi le mani libere per contrattare e far pesare il proprio appoggio, si esprimessero per un loro uomo (‘the favorite son’, il ‘figlio favorito’) la cui candidatura veniva poi ritirata a convenienti patti raggiunti.

‘Federal Election Committee’:
ha incombenze di vario tipo in particolare in relazione alle spese elettorali dei candidati ma è importante anche perché registra ufficialmente tutte le candidature che sono infinitamente più numerose di quelle normalmente note essendo i partiti americani uno stuolo

‘Ferguson effect’:
agosto 2014, a Ferguson, Missouri, i gravi disordini conseguenti l’uccisione di un giovane nero da parte di un poliziotto portarono ad un aumento del locale tasso di criminalità. È da allora che allorquando altrettanto accada nel Paese, la grave situazione – che molto incide certamente negli anni elettorali nell’indirizzare i sentimenti e i voti – viene appunto così definita.

‘Filibuster’:
è la tattica dilatoria in uso da parte delle minoranze per cercare di impedire prolungando il dibattito la votazione su una legge o deliberazione alla quale ci si oppone.

‘First in the South’:
è così denominata la Primaria del South Carolina perché messa usualmente in calendario dopo Iowa, New Hampshire e Nevada, Stati che si collocano altrove rispetto al Sud nell’Unione.

‘First Gentleman’:
titolo formale eventualmente da assegnare al marito di una Signora (finalmente) approdata a White House.
Se ne è parlato ovviamente nel 2016 essendo candidata Hillary Rodham Clinton.

‘First Lady’:
è il titolo formale assegnato alla moglie del Presidente.

‘Flag’:
la bandiera degli Stati Uniti è composta da tredici strisce orizzontali – sette rosse e sei bianche alternate, che rappresentano le ex Colonie che hanno dato origine alla Nazione – e nel riquadro in alto a sinistra da cinquanta stelle bianche a cinque punte disposte su nove fila di sei o cinque che si alternano – che sono gli attuali cinquanta Stati.
Il 14 giugno di ogni anno si celebra il ‘Flag Day’ a seguito di una determinazione del Secondo Congresso Continentale. Ogni qual volta necessario per l’entrata nell’Unione di nuovi membri il drappo in uso viene bruciato e sostituto in una cerimonia che ha luogo il 4 luglio a Philadelphia.

‘Flyover Country’:
è quella parte del Paese che viene sorvolata con gli aerei della quale non si tiene conto ma che vota eccome

‘Founding Fathers’:
‘Padri fondatori’ è definizione che dovrebbe fare riferimento solo a coloro che firmarono la Dichiarazione di Indipendenza ma che personalmente estendo al altri tra ‘i cinquanta semidei’, come li definì Thomas Jefferson (che era uno di loro), che comunque idearono gli Stati Uniti e ne gettarono le fondamenta costituzionali, giuridiche e sociali.

‘Forecaster’:
termine in uso in differenti ambiti – e quindi anche in politica – che identifica una persona (un analista) teoricamente in grado di prevedere con buona probabilità il futuro.

‘Forgotten man’:
l’uomo, la persona, la categoria di soggetti i cui interessi e diritti sono stati trascurati, dimenticati, nei cui confronti si promette ricorrentemente di agire.

‘Front runner’:
è il candidato che nel corso di Caucus e Primarie si porta in testa quanto al numero dei delegati alla Convention conquistati.

‘Fundraising’:
è l’azione di raccolta fondi in politica a sostegno di un candidato. È gestita da ‘fundraiser’.

Varese, 2 dicembre 2023

La Cina e il doppio registro sull’Islam

Pechino si fa portavoce della questione palestinese ma in patria non mancano gli episodi di repressione contro i musulmani, nel nome della sinizzazione’

Lorenzo Lamperti
il 30 novembre scorso
per RSI

Fine maggio 2023.
A Nagu, nella provincia dello Yunnan, una folla si scontra con la polizia durante le proteste per la demolizione della cupola della moschea Najaying, punto di riferimento della minoranza musulmana Hui.
Una storia fra tante. Secondo un’analisi satellitare del Financial Times condotta su 2312 moschee in varie parti della Cina, negli ultimi cinque anni tre quarti sono state modificate o demolite.
Non ci sono dunque solo le accuse di repressione della minoranza uigura dello Xinjiang.
Eppure, sulla questione palestinese Pechino si fa in qualche modo portavoce dei Paesi a maggioranza musulmana.
Dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, la diplomazia cinese è stata più decisa e proattiva del solito.
Tanto da ospitare la scorsa settimana una delegazione di ministri di Paesi arabi e islamici.
E tanto da inviare il ministro degli Esteri Wang Yi a New York per presiedere la riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Wang ha presentato un documento che propone una via d’uscita al conflitto.
I punti cardine della proposta sono sostanzialmente quattro, gli stessi enunciati dal presidente Xi Jinping durante l’incontro virtuale dei Brics di qualche giorno fa: cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi immediati, aiuti umanitari a Gaza e soluzione dei due Stati.
La Cina chiede l’organizzazione di una conferenza di pace, dove però il barometro deve essere, dice Xi, “il ripristino dei diritti legittimi della nazione palestinese” senza cui “non ci sarà pace e stabilità duratura in Medio Oriente”.
Sin qui Israele ha giudicato sbilanciata la posizione della Cina, che ha condannato tutte le azioni contro i civili, ma ha criticato con più forza il governo di Benjamin Netanyahu per essere andato “oltre il diritto all’autodifesa” con una “punizione collettiva” per la popolazione di Gaza.
Dopo aver ospitato l’accordo per la ripresa dei rapporti diplomatici tra Arabia Saudita e Iran, ottenendone poi l’ingresso nei Brics, la Cina non vuole perdere il capitale diplomatico accumulato in Medio Oriente, che si somma alla crescente influenza commerciale.
Una miscela che favorisce il silenzio dei Paesi islamici sui diritti dei musulmani cinesi. A settembre, una delegazione della Lega Araba è stata nello Xinjiang approvando la gestione cinese, che secondo il Partito comunista garantisce la stabilità interna dopo i problemi di sicurezza causati dai gruppi separatisti negli anni passati.
Le modifiche architettoniche alle moschee rispondono alla richiesta di sinizzazione delle religioni espressa da Xi nel 2016, con l’obiettivo di ‘armonizzare’ le fedi all’interno della società cinese.
Dal 2018, il personale religioso può svolgere le sue funzioni a patto di aderire agli organismi statali ufficiali. Nel 2022 sono stati introdotti maggiori controlli sui finanziamenti ai gruppi religiosi.
Il fenomeno non riguarda solo Islam e Xinjiang, ma anche altre aree e minoranze.
Per esempio il Tibet, che le autorità chiedono ora di chiamare col nome in cinese ‘Xizang’ anche nei documenti in lingua inglese. Oppure la Mongolia interna, dove una recente riforma scolastica impone lo studio del mandarino al posto del mongolo.
Più che islamofobia, si tratta dunque di un più ampio tentativo di normalizzazione, ‘sinizzazione’ appunto, di varie forme di associazionismo (compresa per esempio la comunità Lgbtq+) e dunque potenzialmente in grado di proporre istanze politico-culturali non in linea con quelle del Partito.
Agli occhi di Pechino, tutto ciò non è in contraddizione con il proporsi come una sorta di ‘grande fratello’ dei Paesi a maggioranza musulmana.

Varese, 2 dicembre 2023

Fillmore ‘dopo’ Fillmore
ovvero di come e quanto profondamente una determinazione in fondo commerciale che ebbe il suo relativamente immediato e desiderato esito, dopo l’uscita dalla Casa Bianca del Presidente che l’aveva voluta e ordinata, abbia influito storicamente in assoluto e influisca ancora.
Con ovvi accenni allo Shogunato e un illuminante passo in proposito di Henry Kissinger.

Capita che in quanto Vice Presidente in carica Millard Fillmore acceda alla Casa Bianca il 9 luglio del 1850, subentrando al titolare Zachary Taylor – il secondo Whig (dopo William Harrison) capace di conquistarla e il secondo Whig che muore in corso di primo quadriennio (e sottolineo ‘primo’ perché una delle proposte del partito di appartenenza dei due era proprio di ridurre il ‘momento’ presidenziale a soli quattro anni e morendo i dessi vi si attennero scrupolosamente).
Capita che operi nel non lungo periodo che precede la sua uscita il 4 marzo del 1853 cercando – peraltro senza successo, ma i tempi erano quelli –  di non esacerbare (ed anzi di pacificare) gli animi tra sostenitori dello schiavismo e abolizionisti, questione insormontabile che di lì a pochi anni avrebbe portato, e ben lo sappiamo, alla sanguinosa oltre dire Guerra di Secessione.
Capita che non si agiti dipoi particolarmente per ottenere una propria Nomination per il mandato 1853/1957 e che gli venga preferito il Generale Winfield Scott (una mania Whig questa, visto che erano militari con quel medesimo grado anche i predetti Harrison e Taylor).

Capita dipoi ancora che nell’anno elettorale 1856 – nel quale tutti i pretendenti o quasi erano di mediocre profilo e colui che prevalse – in qualche modo estraneo perché Ambasciatore in Inghilterra – James Buchanan (1), è considerato tra i peggiori inquilini (benché abbia beneficiato di un intervento a sua difesa di John Kennedy che sostenne che nessuno era nella posizione di giudicare il di lui operato – come di altri, e pertanto di se medesimo – non potendo vivere nella stessa temperie, affrontando gli stessi frangenti) della Executive Mansion – mentre è in Europa, un movimento politico minore e per di più in declino (Know-Nothing) lo investa di una candidatura, diciamo così, con ben poche prospettive.
Vincente solo nel Maryland, Fillmore si ritira definitivamente a vita privata.
Tutto qua?
Assolutamente no.
È nella politica estera, non tanto con gli effetti immediati ai quali mirava ma con quelli conseguenti di straordinaria importanza e di lunghissima portata ai quali certamente non poteva avere pensato, che incide.
Fu difatti il Nostro a ordinare al Commodoro della Marina Matthew Perry (al quale aveva affidato una lettera da consegnare nientemeno che all’Imperatore) la spedizione navale delle cosiddette ‘Navi nere’ che doveva far sì che il Giappone si aprisse, dopo secoli di pressoché assoluta chiusura, ai commerci.
Perry arrivò – la rotta seguita comportava difficoltà marittime e necessità di scali – all’ingresso della baia di Tokyo l’8 luglio del 1853 allorquando quindi (ed è questa la ragione del titolo di questa articolazione) a Fillmore era succeduto il predetto Buchanan.
Minacciose alquanto le sue armatissime navi, il Commodoro mise in crisi la locale amministrazione e immediatamente dopo quella imperiale.
La Storia – il caso? – vuole che in Giappone volgesse al termine (molti i presupposti) la più importante epoca quanto alla effettiva guida politica del Paese: lo Shogunato, sorto addirittura nel lontano 1192.
Era il detto regime (gli Shogun – ed è insopportabile dovere tanto brutalmente semplificare per ragioni di spazio – concretamente governavano lasciando all’Imperatore una funzione di inattiva e ininfluente rappresentanza formale) a quel punto alla sua terza rappresentazione, denominata ‘Tokugawa’ (2) dal nome della famiglia che dal 1603 aveva nelle proprie mani il potere.

Ecco come l’appena scomparso Henry Kissinger esamina nel suo ‘On China’, 2011, succintamente (ne tratterà più compiutamente in ‘World Order’, 2015) il tema:
“Come la Cina”, nelle pagine precedenti studiata nel periodo delle Guerre dell’Oppio, “anche il
Giappone ebbe modo di incontrare le navi occidentali dotate di una tecnologia sconosciuta e di una soverchiante potenza, verso la metà del
Diciannovesimo secolo, e precisamente nel 1853, con l’arrivo delle ‘navi nere’ del Commodoro americano Matthew Perry.
Ma da questa sfida il Giappone trasse una conclusione opposta a quella della Cina: aprì le proprie porte alla tecnologia straniera e riformò le proprie istituzioni nel tentativo di imitare l’ascesa delle potenze occidentali…
Nel 1868, l’Imperatore Meiji, nel suo ‘Giuramento dei Cinque Articoli’, annunciò la decisione con queste parole:
‘La conoscenza sarà cercata in tutti gli angoli del mondo è in questo modo le fondamenta del
Governo imperiale saranno rafforzate”.
Furono in cotal modo spalancate le porte allo straordinario progresso economico del Paese.
Però.
Fillmore….

1) È Buchanan altresì il primo (quanto a John Tyler al riguardo si era solo vociferato) Presidente in relazione al cui fare si pensi all’Impeachment.
Viene creata in tale prospettiva una apposita Commissione Camerale che però conclude i lavori negativamente.
Sarà pertanto nel 1868 il successore di Abraham Lincoln Andrew Johnson il primo ad essere giudicato dal Senato dove se la caverà per il rotto della cuffia (un voto in più e sarebbe stato defenestrato).

(2) Il primo Shogunato, ‘Kamakura’, è datato 1192/1333
Poi, abbiamo la ‘Restaurazione Kemmu’, 1333/1336, del tutto effimera
A seguire,  il secondo, ‘Ashikaga’, dal 1336 al 1573
Infine, il terzo, ‘Tokugawa’, dal 1603 al 1867/68.

Varese, 2 dicembre 2023

11 dicembre 1941, Italia e Germania dichiarano guerra agli Stati Uniti!

Lo sappiamo, il 7 dicembre 1941 i giapponesi attaccano la flotta americana ancorata a Pearl Harbor, Hawaii.
Mai dichiarazione di guerra fu più esplicita.
Ma quali i pensieri, le perplessità, i timori del Presidente Roosevelt e del suo governo riguardo alla guerra in corso in Europa?
L’essere da quel momento in armi contro il Giappone non implicava necessariamente di doverlo essere anche con la Germania e l’Italia.
E d’altra parte i due Paesi or ora citati erano firmatari con Tokyo del Patto Tripartito.
Che fare, anche considerando l’opportunità se non la necessità di schierarsi nel conflitto al fianco della Gran Bretagna?
Quattro soli giorni e tutte le possibili riflessioni in merito vengono a cessare: la Germania e l’Italia, difatti – applicando estensivamente i termini dell’accordo a suo tempo concluso che prevedeva il concorso di forze solo in caso di attacco statunitense – dichiarano loro guerra agli Stati Uniti!
E’ l’11 dicembre e da quel momento praticamente tutti i continenti saranno coinvolti.
Mai decisione fu presa tanto malauguratamente: Roma e Berlino invero nulla sapevano dell’enorme potenziale americano.
Entrarono in guerra con gli USA convinti di vincere.
Ne uscirono con le ossa rotte, ma rotte sul serio.

Varese, 2 dicembre 2023

‘Afrorussi’, 
ovvero dal pushkiniano ‘Arap Petra Velikogo’ alla più o meno lunga (quanto all’appellativo, non poi tanto) storia degli ‘Afrorussi’ alcuni dei quali americani

1827, dedicandosi compiutamente alla prosa, Alexander Pushkin scrive ‘Arap Petra Velikogo’ (altrimenti, ‘Vilikogo’, dipende dalla traslitterazione).
L’opera resterà incompiuta.

Per quale particolare ragione interessarsene, oltre ovviamente per esaminare pressoché in nuce le grandi capacità anche nella narrativa del nostro?
Perché leggendola si scopre la ragione della carnagione non precisamente lattea di quel rivoluzionario letterato.

Varese, 2 dicembre 2023

Il Glossario essenziale della politica americana continua … 

‘Campaign Finance Disclosure’:
è la relazione che presenta i dati delle spese elettorali e dichiara la provenienza dei fondi.

‘Cancel culture’:
con tale espressione si descrive l’operato radicale, in non pochi momenti dominante a sinistra, di chi vuole cancellare il passato evitando di cercare di comprenderlo contestualizzando come è sempre necessario fare.

Candidato d’onore:
è il nominato ad opera di un partito allorquando lo stesso non pensi di avere reali possibilità di vittoria nelle urne.
È nel caso normalmente un uomo politico di buon nome, piuttosto anziano, al quale si concede una designazione che si ritiene appunto onorifica, un riconoscimento.

Candidatura (in particolare, ‘write-in candidate’)
è possibile concorrere per la Casa Bianca o in quanto proposto da un partito, o come indipendente o come ‘write-in candidate’.
Non tutti gli Stati (nove non lo contemplano) consentono di presentarsi come ‘write-in’ e cioè non essendo il nominativo stampato sulla scheda elettorale ma potendo essere aggiunto manualmente scrivendolo.

‘Carpetbaggers’:
furono così chiamati i bianchi del Nord che si trasferirono a Sud per sostenere la causa radicale dopo la fine della Guerra di Secessione. Da ‘carpetbag’, ovvero ‘borsa da viaggio’.

Casa Bianca:
denominata ‘White House’ pressoché ufficialmente più avanti – dopo la sua ricostruzione essendo stata bruciata dagli Inglesi nell’agosto del 1814 nel corso della cosiddetta Guerra del 1812 – nota agli inizi come ‘Executive Mansion’, fu inaugurata l’1 novembre del 1800 sotto la Presidenza di John Adams.
È da quel momento la sede del Capo dello Stato americano.
È ovviamente a Washington, al numero 1600 di Pennsylvania Avenue.

‘Caucus’:
assemblea a livello statale degli aderenti ad un partito convocata al fine di scegliere i delegati – collegati ad uno dei candidati alla Nomination – dello stesso alla Convention. Il nome dovrebbe derivare da una voce usata dagli Algonchini per indicare gli incontri tra i capi.

‘Census’:
è il Censimento che si tiene dal 1790 ogni dieci anni.
Oltre alle evidenti finalità di una rilevazione statistica del genere, serve assolutamente per determinare il numero degli abitanti di ogni Stato e su tale base assegnare in proporzione la quota di Rappresentanti alla Camera Federale alla quale ha diritto. Conseguentemente, a decidere quanti Elettori deve eleggere.

‘Cinture’:
‘Sun belt’, ‘Bible belt’, ‘Black belt’, ‘Rust belt’
Il Sud degli Stati Uniti: ‘Sun belt’, la ‘Cintura’ del Sole. Dalla California alla Florida, dove la nostra stella batte più fortemente e naturalmente fa caldo.
Il Sud Est USA, grosso modo gli Stati Confederati: ‘Bible belt’, ‘Cintura’ della Bibbia, laddove la religione è preminente in particolare per la presenza degli Evangelici.
Dal Texas alla Virginia, in specie Alabama, ancora Sud Est: ‘Black belt’, ‘Cintura’ nera, in cotal modo originariamente chiamata per il colore della terra ed oggi, invero, per la grande presenza dei neri.
Dai Grandi Laghi al Midwest, a Nord: ‘Rust belt’, ‘Cintura’ della ruggine, negli Stati nei quali la crisi economica del 2008 ha colpito in particolare l’industria facendo chiudere i capannoni mentre dentro i macchinari, appunto, arrugginiscono.

‘Coattail effect’:
è l’attitudine del candidato alla Presidenza in grado non soltanto di vincere ma di portare alla vittoria altresì i suoi colleghi di partito in corsa in concomitanza per le cariche minori. Quando ciò occorra, si dice che gli eletti che ne abbiano goduto hanno ottenuto lo scranno “on the coattails of the President”.

‘Colorblind meritocracy’:
daltonica, questa la traduzione di ‘Colorblind’. Una valutazione dei meriti che prescinda dal colore della pelle.

‘Commander-in-chief’:
è un altro appellativo del Presidente essendo egli per disposto costituzionale Comandante Capo delle Forze Armate di terra e della Marina.

‘Commission on Presidential Debates’ (CPD):
creata nel 1987, la Commissione organizza dal 1988 i dibattiti tra i candidati alla Presidenza e ne detta le regole.

‘Congress’:
è così chiamato il Parlamento USA, composto da due rami: Senato e Camera dei Rappresentanti.

‘Congressional approval rating’:
indica il grado di pubblica approvazione dell’operato dei membri del Congresso.

‘Congressional Conference Committee:
è un Comitato formato da un uguale numero di Senatori e Rappresentanti – nel quale la consistenza dei partiti è proporzionale a quella elettorale – il cui compito è di arrivare ad uniformare le leggi che escono dalle due Camere con diverse formulazioni, questo al fine di evitare il rimpallo senza soluzione o quasi delle stesse come accade nel cosiddetto ‘bicameralismo perfetto’.

‘Congressional districts’:
quattrocentotrentacinque le aree (distretti) nelle quali sono divisi gli Stati Uniti. In ciascuna di esse viene eletto un Rappresentante.
Sono divise territorialmente guardando al numero degli abitanti degli Stati quali risultano dai Censimenti.
A parte quelli nei quali, pochi essendo i residenti, il Distretto coincide con l’intero territorio statale, la loro determinazione è opera delle Autorità locali e questo porta spesso a scomposizioni e cambiamenti intendendo così il partito in quel momento in auge garantirsi al meglio l’elezione di propri uomini (‘Gerrymandering’).

‘Conservatives’:
si considerano cotali i tre quarti dei repubblicani, mentre la maggioranza (cinquantacinque per cento) dei democratici si ritrova nella definizione ‘Liberal’. Ovviamente, brutalmente semplificando, i primi si collocano a destra e i secondi a sinistra.

‘Contested Convention’:
così è definita una Convention alla quale nessuno arriva con la maggioranza assoluta dei delegati (come nella ‘brokered’) ma l’accordo viene raggiunto tra le parti contendenti prima del ballottaggio iniziale nel quale un candidato ottiene la Nomination.

‘Contingent Election’:
allorquando (è occorso solo nel 1824 per la Presidenza e nel 1836 per la Vice Presidenza) nessuno dei candidati ad una delle due massime cariche istituzionali conquisti la maggioranza assoluta degli Elettori il Collegio da questi ultimi formato non può provvedere all’elezione.
Nel caso – secondo il disposto del XII Emendamento del 1804 – l’incombenza, quanto al Capo dello Stato, passa alla Camera dei Rappresentanti che vota per Delegazioni, ciascuno Stato nella circostanza pesando uno, a prescindere quindi dalla consistenza degli aventi diritto popolari che invece, prima, determina il numero degli Elettori (in buona sostanza, nel Collegio oggi la California e l’Alaska valgono rispettivamente cinquantacinque e tre Elettori mentre nella Contingent Election, alla pari, uno)

‘Convention’:
il Congresso quadriennale del partito nel quale vengono ufficializzate le candidature.
La prima fu organizzata nel 1831, in vista delle elezioni del seguente 1832, dall’allora significativo Partito Antimassonico.
Le votazioni per la scelta ufficiale del candidato si definiscono ‘ballot’ (ballottaggi).
Per lunghi anni, la maggioranza da raggiungere per la Nomination era quella, difficile, dei due terzi la qual cosa concedeva, in particolare tra i Democratici, ai ‘sudisti’ di condizionare pesantemente in senso anti-diritti civili (per dirla in soldoni) la scelta.
Da quando, nel 1936, la maggioranza richiesta è scesa a quella assoluta, sempre più spesso (ma non in ogni circostanza) uno dei candidati raggiunge ben prima della Convention formalmente il numero prescritto di elettori.
In cotal modo, il Congresso quadriennale, ha perso buona parte del fascino originale (benissimo rappresentato, volendo, al cinema da ‘The Best Man’, ovvero ‘L’amaro sapore del potere’, 1964, ricavato da una piece di Gore Vidal).

‘Convention bounce’:
il ‘bounce’ (rimbalzo) del quale si parla si ha quando i sondaggi vengono fatti a Convention in corso e/o, a maggior ragione, immediatamente dopo.
Nell’occasione il nominando (poi, nominato) ha maggior seguito nelle rilevazioni di appena prima e molto spesso di dopo.

‘Cooping’:
occorreva che ai fini di costringere forzatamente al voto e controllarlo, bande organizzate, fra l’altro, ‘rapissero’ (in effetti li raccattavano) gli ubriachi e li mantenessero tali portandoli ai seggi a ripetutamente votare.
Per inciso, quasi certamente, Edgard Allan Poe venne a morte a Baltimora in conseguenza di un tale trattamento.

‘Cooking the books’:
ovvero ‘contabilità creativa’.
Così sono definiti i sondaggi non accurati e per conseguenza fallaci.

‘Copperheads’:
furono così chiamati (perché indossavano distintivi a forma di ‘moneta di rame’) i Democratici pacifisti che si opponevano a Lincoln volendo una politica conciliatoria nei confronti del Sud.

Corte Suprema:
attualmente formata da nove Giudici (otto più il Presidente), ha assunto una fondamentale importanza unendo in se, per capirci, le funzioni in Italia esercitate dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione, in particolare sotto la lunga Presidenza di un grande giurista quale fu John Marshall.
I componenti, così come il ‘Chief’, sono nominati dal Capo dello Stato la cui scelta va però ratificata dal Senato.
Estremamente importante la posizione più o meno conservatrice o liberal del Presidente, della maggioranza senatoriale, della persona proposta.
È capitato (e capita) che uno o più tra i Giudici della Corte si esprimano per sentenza votando differentemente rispetto a quanto le loro posizioni partitiche (dopo tutto sono espressione di un inquilino della Casa Bianca e pertanto di un uomo di partito) potessero o possano far credere.
Questo perché, prima considerazione, sono normalmente persone di alto profilo.
Poi, perché sono eletti a vita (potendo peraltro dimettersi).
Poi ancora – l’indipendenza economica conta eccome – perché i loro compensi sono intoccabili.
Si è detto nelle prime righe che ‘attualmente’ sono nove ed in effetti nessuno vieta che possano essere meno o di più.
Nove, comunque, funziona.

‘Criteria:
è un vocabolo latino usato per indicare le disposizioni date dalle Direzioni Nazionali dei partiti in materia elettorale e comunque politica al fine di regolare i confronti interni tra candidati. Molto importanti i ‘criteria’ che regolano i dibattiti televisivi interni e prima le norme rispettando le quali si può essere agli stessi ammessi.

Varese, 1 dicembre 2023

In memoria di
Henry Kissinger:
Batu e l’imbattibile Subotai alle viste di Vienna, ovvero la Russia ‘eurasiatica’ e la mancata Europa ‘mongola’

In una memorabile pagina del suo ‘World Order’ (copyright 2014), Henry Kissinger traccia, con la consueta, caratterizzante, propria, capacità di pregnante sintesi, una significante analisi storica concernente una Russia che, nel momento formativo – ancora e assolutamente ai nostri giorni influente e quindi importantissimo – ritiene “perennemente fuori fase rispetto alle tendenze storiche dell’Europa” essendo “estesa su due Continenti ma mai del tutto a suo agio con nessuno dei due”.
Davvero ‘Eurasiatica’, dunque!
Identifica correttamente il momento delle invasioni e del successivo dominio ad opera dei Mongoli come quello della sua più totale separazione dal Vecchio Continente dato che, per il lungo tratto che va dal 1237 al 1480, quello che era stato il ‘Rus di Kiev’ (la luminosa città stessa fu conquistata nel 1240 da Batu Khan), assoggettato, si era necessariamente orientato verso Est, proprio mentre l’Europa andava avviandosi all’Età Moderna.
1237/1480, quasi due secoli e mezzo.
Occorre sottolineare la durata del periodo storico di cui si parla.
Di questo come di infiniti altri.
Tendenza comune di contro essendo l’opposto.
Trascurarla, la più gran parte delle volte non avendone la minima contezza.
E d’altronde – dannazione – non sono del tutto ignoti (eccome) anche specifici accadimenti di eccezionale importanza che hanno incanalato le sorti umane?
Penso per connessione (ho citato Batu Khan) alla morte di Ogotai (Ogodei, dipende dalle traslitterazioni o romanizzazioni che dir si voglia) datata 11 dicembre 1241.
Era costui uno dei figli di Gengis Khan e ricopriva la carica suprema dell’ordine tribale mongolo.
Il nipote Batu – con il fondamentale contributo del grandissimo Generale e Stratega Subotai (Subodei) del quale non si conoscono altro che affermazioni – aveva riportato in Europa una lunga serie di vittorie militari, aveva assoggettato quindi città e campagne, si apprestava – ultima difesa essendo la minacciata Vienna – a mongolizzare l’intero Continente o pressappoco.
Orbene, venne fermato nell’azione e richiamato in Mongolia il Khan perché la nomina del successore del defunto doveva avere luogo nel ‘Kuriltai’, una sorta di concilio o congresso politico al quale tutti i nobili erano chiamati a partecipare.
È per questo arresto di indirizzo che – caduta Vienna, nessuna ulteriore, forte difesa si sarebbe opposta fino all’Atlantico – non siamo mongoli.

Varese, 1 dicembre 2023

Apologo dei magnati americani dell’acciaio impegnati in un braccio di ferro con il vessillifero della ‘Nuova Frontiera’.

“Franklin Delano Roosevelt dimostrò che la Presidenza può essere un mestiere da esercitarsi vita natural durante.
Harry Truman ha dimostrato che chiunque può fare il Presidente.
Dwight Eisenhower che in realtà non c’è bisogno di un Presidente.
John Kennedy che può essere pericoloso avere un Presidente!”

Varese, 1 dicembre 2023

‘Stadsdeel’, ‘Shibboleth’, Galaaditi ed Efraemiti, massacri per lo più, ma non solo, ‘Eastern and Western name order’, ‘catena’ di Karinthy Frygies con una citazione di Puskás Ferenc nientemeno, ‘prezzemolo’ giustamente ovunque o quasi, “figli di puttana” di rooseveltiana memoria, e, usando la ‘Visione Globale’, volendo, per il dovunque

Lo ‘stadsdeel’ è definito come “il più basso livello amministrativo dei Paesi Bassi” (“basso” e Bassi?!, meglio scrivere d’Olanda).
Scheveningen è appunto uno ‘stadsdeel’ (marittimo e si colloca nei pressi dell’Aia).
Difficile, e molto, da pronunciare correttamente tale toponimo per chi non parli l’olandese.
Orbene, si accomuna
Scheveningen in ragione di tale quasi impronunciabilità al vocabolo ebraico ‘Shibboleth’, (che può voler dire ‘spiga’ o altro a seconda delle fonti, la qual cosa in questo ambito non ha implicazioni).
È proprio ‘Shibboleth’ la parola che – come narrato nel biblico Libro dei Giudici – venne usata dopo una battaglia dai vincitori  Galaaditi per identificare gli sconfitti Efraimiti, impedire loro la fuga ed eliminarli, risultando appunto impronunciabile per questi il suono relativo.
Orbene di nuovo – dando qui purtroppo assai brevemente seguito ad una ‘Catena’ invece teoricamente infinita come ideata da  Karinthy  Frygies (saggista e scrittore ungherese ed è per questo, usando i Magiari non il nostro ‘Western’ ma il proprio ‘Eastern name order’, che vanno in cotal modo correttamente, prima il cognome come per Puskás Ferenc per dire, vergati i suoi dati) – nel 1937, ad Haiti, il termine spagnolo ‘Perejil’ (‘prezzemolo’) fu usato dai Dominicani per identificare gli Haitiani e procedere alla loro per quanto possibile eliminazione (‘Massacro del prezzemolo’).
Da qui, volendo, potremmo procedere nella ‘Catena’ seguendo il collegamento con l’Isola del Prezzemolo, incruentemente contesa tra Marocco e Spagna, e chissà poi…
Trattando di Rafael Trujillo, al potere nella Repubblica Dominicana e responsabile dell’eccidio del citato 1937, che so?, arrivare a Franklin Delano Roosevelt il quale, rispondendo ad un suo alto collaboratore che (con riguardo non solo al despota dominicano) gli aveva detto che i vari caudilli latinoamericani erano dei poco di buono, rispose:
“Figli  di puttana, è vero.
Ma sono ‘i nostri’ figli di puttana!”….
E da F. D. R. – prima o dopo spaziando e conoscendola nella ‘Visione Globale’ che mi caratterizza – in qualsiasi direzione nell’universa  Storia…

Varese, 1 dicembre 2023

Henry Ford a White House?

L’uomo di maggior successo negli Stati Uniti negli anni Dieci e Venti del Novecento?
Facile rispondere: Henry Ford.
Le auto che produceva si vendevano come il pane e la sua figura si stagliava tra le più ammirevoli.
Perché allora non mandarlo alla Casa Bianca?
Già nel 1916 un movimento spontaneamente sorto lo indicò nel Michigan per l’alto incarico ma la cosa si fermò lì.
Strenuo sostenitore di Woodrow Wilson nelle Mid Term Elections del 1918, restò grandemente deluso per il risultato in quel frangente negativo.
Per quanto indeciso tra democratici e repubblicani (e qualcuno tra i suoi sostenitori pensava addirittura ad un terzo partito appositamente creato), forte dell’enorme notorietà, pensò per qualche momento di correre nel 1924.
La situazione politica poteva apparire favorevole: il presidente Warren Harding era morto nel 1923 e il suo vice Calvin Coolidge, subentrato, non aveva ancora avuto modo di consolidarsi al potere, o così sembrava.
Non se ne fece niente, in larga misura per il carattere freddo e distante di Ford che sembrava pensare che gli Americani ‘dovessero’ votarlo per l’uomo che era, ragione per la quale non organizzò alcuna vera campagna elettorale.
Alla fine, in quel fatidico anno, si schierò per Coolidge e di una possibile candidatura a White House del costruttore di auto più di successo di tutti i tempi non si parlò più.

Varese, 1 dicembre 2023

Il Glossario essenziale della politica americana continua … 

‘Ballot’:
è lo scrutinio conseguente ad una votazione e si usa specialmente in sede di Convention.

‘Banana Republic’:
definizione coniata da O. Henry dopo un soggiorno in Honduras, assunta ad indicare gli Stati – specie in altri tempi – in genere corrotti e governati dittatorialmente.

‘Battleground States’:
sinonimo di ‘Swing States’, voce più sotto illustrata.

‘Bellwether States’:
sono così definiti quegli Stati i cui elettorati tendono a rappresentare correttamente il voto dell’intera Nazione. L’Ohio è assolutamente uno di questi visto che dal dopoguerra, con la sola eccezione del 1960, chi ha vinto colà è entrato a White House.

‘Bill of Rights’:
la Costituzione non aveva deliberato in merito ai diritti individuali civili e alle conseguenti limitazioni governatoriali ritenendo che nel campo avrebbero dovuto decidere i singoli Stati.
Poi, nel 1791 adottò al proposito i primi dieci Emendamenti, opera sostanzialmente di James Madison, che tutti insieme vengono appunto Bill of Right denominati.

‘Bipartisanship’:
in rari casi, capita che, in particolare sulla politica estera, ci sia convergenza al punto da far pensare che i due partiti, in quelle occasioni accomunati dal voto in aula, governino insieme.

‘Blexit’:
è un acronimo creato con evidente riferimento a ‘Brexit’.
Sta per ‘Bl-ack exit’ che sarebbe un raggruppamento formato da giovani di colore intenzionati a votare repubblicano uscendo dagli schemi (che li vogliono democratici) nei quali i neri sono da tempo ingabbiati.

‘Bloodbath’:
ovvero ‘bagno di sangue’, allorquando uno dei partiti prevale nettamente lasciando all’altro le briciole’

‘Blue State’:
Stato che vota abitualmente democratico (sulla carta geografica che rappresenta gli Stati nel giorno elettorale quelli aggiudicati ai democratici sono colorati appunto di blu).

‘Blue Wall’:
così sono definiti nel complesso i diciotto Stati cha dal 1992 al 2012 compresi hanno votato costantemente democratico. In totale, contano su duecentoquarantadue Elettori (dati conseguenti al Censimento del 2010).

‘Blueshift’:
è lo spostamento verso il campo democratico (il colore degli Asini è il blu) del voto popolare.
Il movimento opposto, a favore dei repubblicani è il rosso e si denomina ‘Redshift’, essendo il rosso il colore del Grand Old Party.

‘Brokered Convention’:
così è denominata una Convention alla quale nessuno dei candidati arriva avendo la maggioranza assoluta dei delegati, maggioranza che sarà pertanto raggiunta trattando e concordando tra le diverse fazioni presenti mentre i ballottaggi vanno avanti senza risultato.

‘Buck passing’:
arrivato a White House, Harry Truman collocò davanti a sé sulla scrivania – in modo che tutti gli interlocutori leggessero e ne fossero edotti – una striscia di legno che riportava la scritta “The buck stops here”.
Intendeva così dire che le decisioni finali in campo esecutivo erano di sua competenza e che non poteva spogliarsi del dovere di prenderle assumendo su di sé ogni conseguente responsabilità.
L’espressione derivava dal gergo in uso tra i giocatori di poker della Frontiera e dei battelli fluviali i quali identificavano colui che aveva dato le carte appunto mettendogli davanti un pezzo di pelle di daino (‘buck’).

‘Buckle’:
ovvero ‘fibbia’, è il decisivo, centrale punto di unione di una ‘cintura’ (‘belt’). Il ‘luogo’ di tenuta dal quale partire.

‘Bull Moose’:
è il nome popolarmente assegnato al Partito Progressista fondato da Teddy Roosevelt nel 1912. Deriva dal fatto che l’ex Presidente, intervistato dopo un attentato che gli aveva lasciato una pallottola in corpo, si definì “forte come un alce” (‘bull moose’ in inglese).

‘Bully pulpit’:
con tale espressione – laddove ‘bully’ significa prepotente nel senso di dotato di un particolare potere – Teddy Roosevelt intese definire la specifica posizione del Presidente USA, posizione che gli dà modo e possibilità di parlare autorevolmente ottenendo di farsi ascoltare.

Varese, 1 dicembre 2023

Natale alla Casa Bianca 

La futura Casa Bianca – allora Executive Mansion – fu inaugurata l’1 novembre del 1800.
Presidente (di lì a non molto, si era in periodo elettorale, defenestrato) John Adams.
Accanto a lui, la First Lady (l’appellativo non era ancora in uso, ma poco importa) Abigail Smith.
È grazie ai due, nonni felici della quattrenne Susanna e desiderosi di festeggiare con e per lei il Natale, che per la prima volta la dimora presidenziale visse di lì a poco un momento ricco di allegria e divertimento natalizi.
Invitati i membri del Governo e dello staff con mogli e figli.
Tutto questo in qualche modo contravvenendo le rigide direttive dettate in merito da non poche Chiese protestanti che da tempo si opponevano a festeggiamenti che spesso si concludevano con ubriacature, risse e disordini.

‘Frolic’?
È nel 1835 che il Presidente Andrew Jackson, coadiuvato dalla nuora e facente funzioni di First Lady Sarah Yorke, decide di organizzare per Natale un ‘Frolic’, una festa per birichini dedicata ai bambini.
Giochi, parapiglia vari e per finire una battaglia con finte palle di neve in verità realizzate con cotone bianco.

Fu nei giorni di vigilia del 25 dicembre del 1889 che la First Lady da poco insediata (il coniuge Benjamin Harrison era entrato in carica il 4 marzo precedente) Caroline Lavinia Scott fece installare alla Casa Bianca, al secondo piano, nella Stanza Ovale all’epoca usata come salotto, il primo albero di Natale.
Lo decorò, collocò ai suoi piedi i regali…
Rese felici in questo modo i propri nipoti.

L’elettricità fu installata a White House nel 1891, Presidente Benjamin Harrison la cui consorte ne aveva paura.

Tre anni dopo, succeduto Grover Cleveland, la First Lady Frances Folsom fece decorare con le luci appunto elettriche l’albero natalizio.

Impossibile convincere Teddy Roosevelt.
Era contrario al taglio degli alberi e figuriamoci per Natale.
Così la festa che organizzò la moglie Edith Kermit Carow nel 1903 per cinquecento bambini sarebbe stata priva del simbolo natalizio per eccellenza se il figlio della coppia Archie non ne avesse fatto entrare di nascosto nella dimora uno di piccola taglia.

Un albero di Natale fu collocato per la prima volta nella Stanza Blu ad opera dei figli di William Taft e della consorte Helen Herron  nel 1912.
Approfittarono i giovani della assenza di genitori in viaggio a Panama.

Detto che come ricorda nelle sue memorie Alonzo Fields, maitre e maggiordomo a White House anche in quegli anni, i Roosevelt (Franklin e Eleanor) passavano il Natale solo tra parenti leggendo Dickens, la prima First Lady che decise di scegliere un tema particolare e specifico per l’albero oramai ufficiale collocato nella Stanza Blu al secondo piano fu Jacqueline Bouvier Kennedy.
Era il 1961 e in quella circostanza (il marito John era entrato in carica il 20 gennaio precedente) le decorazioni tutte furono ispirate al balletto ‘Lo schiaccianoci’, di Peter Ciaikovskij.

La tradizione di installare l’albero nella Stanza Blu si
impose ma in due occasioni così non accadde e fu collocato nella sala d’ingresso.
Nel 1962 per via dei lavori di ristrutturazione in atto (il cui esito ritroviamo illustrato da Jackie in un documentario girato dall’ottimo Franklin Schaffner) e nel 1969 allorquando Pat Ryan Nixon così decise esponendo un abete decorato con palle di velluto e satin, che intendevano rappresentare i fiori dei singoli Stati, realizzate da operai disabili della Florida.

Tutte le successive First Ladies hanno scelto gli argomenti da celebrare con e sotto l’albero.

Esiste una Associazione Nazionale dell’Albero di Natale che ogni anno dal 1966 organizza un concorso per fornire quello ufficiale della Stanza Blu.
Essere nominato, in quanto prescelto, Gran Campione Nazionale è considerato un onore.

Dal 1961, i dati ufficiali quanto alla provenienza degli alberi dicono che in in tredici occasioni sono arrivati dal North Carolina, in undici dalla Pennsylvania, in otto dal Wisconsin e via via scendendo.

Finora, sempre dal 1961, largamente preferiti gli abeti bianchi, seguiti da quelli rossi e a quanto sembra da un solo pino.

E nel 1923 che per la prima volta un Presidente – nella circostanza Calvin Coolidge – conduce la cerimonia nazionale per l’accensione degli alberi di Natale.

Oggi e dal 1954 si tiene con la partecipazione della famiglia del Presidente una cerimonia apposita intitola Festa Natalizia di Pace.

Varese, 30 novembre 2023

Kissinger
Intelligente e tremendamente realista

Intervista ad
Ennio Caretto
per lunghi anni corrispondente del Corriere della Sera e della RSI dagli Stati Uniti d’America

da RSI

“Ho incontrato Henry Kissinger parecchie volte. Ho viaggiato al suo seguito, ho mantenuto i contatti con lui dopo che ha lasciato la politica attiva e debbo dire che era un uomo di straordinaria cultura e di straordinaria intelligenza da un lato, ma anche di un tremendo realismo, di una tremenda praticità dall’altro”. Il ricordo è di Ennio Caretto, storico collaboratore della RSI da Washington. Kissinger, afferma il giornalista, “era un uomo che aveva un concetto globale della politica estera e che ha avuto il merito di cambiare la rotta su cui gli Stati Uniti si erano avviati, sia nei confronti della Russia, sia nei confronti della Cina negli anni più duri della Guerra fredda”.

D. I successi della sua diplomazia erano dovuti anche all’attenzione ai dettagli e alla conoscenza delle persone, come nel caso del leader sovietico Leonid Brezhnev…

R. “Nel ‘73 Brezhnev venne negli Stati Uniti per un vertice con Nixon.
Kissinger sapeva che Brezhnev era un fanatico, letteralmente, dei western. Gli fece incontrare l’attore che interpretava lo sceneggiato ‘The Rifleman.
Chuck Connors era un gigante.
Brezhnev arrivò all’eliporto, dove noi ci trovavamo tutti insieme con Kissinger, con Nixon, eccetera.
Scese dall’elicottero, vide Chuck Connors e corse per prima cosa verso di lui.
Lo abbracciò.
Chuck Connors lo sollevò di peso, lo fece roteare tra gli applausi e le risate di tutto il pubblico.
E il motivo quale era?
Era che Kissinger voleva che Brezhnev fosse rilassato e fosse ben disposto al vertice con Nixon che incominciava in quel momento”.

D. Le competenze di Kissinger sono state riconosciute anche dopo il suo addio alla vita politica.
È stato consulente per praticamente tutti i presidenti americani dagli anni Settanta ad oggi. L’anno scorso fu accolto in Cina con grandi onori.

R. “Kissinger ha avuto un’influenza notevole sulla politica estera americana per tutto il resto della sua lunga vita e io non ho nessun dubbio che abbia contribuito al successo, sia pure moderato, del vertice tra Biden e Xi.
Ultimamente, io credo che lui abbia gettato le basi di una soluzione del conflitto ucraino non a breve termine ma a lungo termine, senz’altro sostenendo la tesi che risponde poi al suo realismo e cinismo di fondo, che la linea di demarcazione deve essere la Crimea ai russi con una piccolissima parte del Donbass.
Una delle direttive fondamentali di Kissinger è stato il ‘decoupling’, cioè il distacco tra la Russia e la Cina.
Kissinger ha trascorso buona parte della sua esistenza pensando a come tenere separati questi due colossi comunisti nel corso della Guerra fredda, e anche dopo, per permettere agli Stati Uniti di continuare a dominare la politica estera mondiale.
La cosiddetta triangolazione”.

D. Kissinger ha segnato sicuramente il XX secolo con i suoi successi diplomatici ma la politica statunitense di quegli anni è contraddistinta anche da un approccio ‘spregiudicato’.
Il suo realismo e il suo pragmatismo si sono manifestati per esempio con l’appoggio alle dittature militari in America latina, Cile e Argentina in primo luogo.

R. “Kissinger, che fu premiato col premio Nobel della pace dopo la guerra del Vietnam, in realtà ha avuto secondo me qualche responsabilità pesante in quanto è successo, in Cile soprattutto.
Era un conservatore, non voleva che nel giardino di casa degli Stati Uniti il comunismo prendesse veramente piede”.

D. Determinante fu anche il suo ruolo nella risoluzione del conflitto arabo israeliano del ‘73 della guerra della Kippur.
Alla luce di quanto sta succedendo a Gaza? Quanto sarebbe utile una figura come la sua.

R. “Se ci fosse un altro diplomatico della sua statura e della sua autorevolezza, probabilmente i combattimenti verrebbero sospesi e si riprenderebbe il dialogo che fu iniziato a Oslo al principio degli anni Novanta.
Kissinger era un ebreo tedesco che era fuggito, si era salvato dalla Shoah a quindici anni andando negli Stati Uniti ed era diventato poi professore a Harvard.
E ha sempre confessato di essersi trovato in difficoltà nel cercare di risolvere il problema palestinese proprio per questa sua storia personale.
Però è anche fondamentalmente l’uomo che ha indicato che la coesistenza pacifica tra i due Stati è l’unica via d’uscita”.

Varese, 30 novembre 2023

Domani 1 dicembre
Woody Allen
compie ottantotto anni

Cinque del mattino.
Credevo di averle eliminate tutte.
Parlo delle videocassette.
E invece.
In un armadio, ‘La collina del disonore’.
Capolavoro!
Fra l’altro, uno dei migliori Sean Connery di sempre.
Ricordo che Woody Allen adora questo magnifico bianco e nero.
Gli scrivo.
Via mail, naturalmente.
Propongo per domani giorno del suo compleanno un appuntamento.
Lui a New York, io a Varese.
Alle quattro del pomeriggio, ora della Grande Mela, infiliamo la cassetta o quel che sia nel lettore e in religioso silenzio rivediamo questo prezioso Sidney Lumet d’annata.
Non credo che dopo ne parleremo.
Che ciascuno viva e dipoi ripensi le proprie sensazioni.
Woody, scommetto, sarà della stessa idea.

Varese, 30 novembre 2023

Incredibilmente, da pochi mesi centenario, ieri è morto
Henry Kissinger
sul quale nel corso delle trattazioni del Diario mi sono in varie circostanze lungamente trattenuto.

Il più grande Segretario di Stato americano di sempre, chiedo?
Difficile dirlo, considerando almeno John Quincy Adams.
Senza dubbio, uno studioso di particolare spessore e profondità e quanto alla politica internazionale a seconda dei momenti un consigliere e un interprete eccezionale.
Non v’è tema e argomento fin dagli anni Sessanta a livello mondiale sul quale non sia intervenuto con capacità e dottrina operando o indicando la via.
Cento anni sono un traguardo ovviamente straordinario.
Ecco come e quale si presentava il Mondo nel 1923, alla nascita di ‘Heinz’ Kissinger il 27 maggio 1923 a Fürth in Baviera.
Presidente degli Stati Uniti d’America era Warren Harding, ventinovesimo della serie degli inquilini della Executive Mansion e si consideri che l’attuale Capo dello Stato USA Joe Biden è il quarantaseiesimo nello stesso elenco.
In Italia, Benito Mussolini governava da poco meno di sette mesi.
Cinque giorni prima era diventato Primo Ministro in Gran Bretagna il conservatore Stanley Baldwin.
Occupava la carica di Presidente del Consiglio in Francia Raymond Poincaré.
Cancelliere del Reich era Wilhelm Cuno.
Premier del Kuomintang in Cina Sun Yat-sen.
In Giappone la carica imperiale era occupata da Taishō.
Presidente del Messico, Álvaro Obregón, ultimo dei grandi protagonisti della Rivoluzione Messicana…

Varese, 30 novembre 2023

‘Oklahoma’ e la Guerra di Secessione, ovvero ‘Ci sono guerre e guerre’, i misteriosi percorsi della comunicazione

Ci sono guerre e guerre.
Quelle dimenticate.
Quelle che tutti seguono giorno per giorno.
Quelle che appassionano.
Quelle che stancano.
Quelle di cui non si vorrebbe sapere nulla.
Quelle romantiche.
Quelle sbagliate perché non si dovevano cominciare.
Quelle portate avanti disastrosamente.
Perfino, quelle che non si vogliono vincere.

Ai tempi di una oramai lontana giovinezza, per me  davvero appassionante l’Indocina: l’impero coloniale francese che andava sgretolandosi, la mitica Legione Straniera, l’infinita resistenza di Dien Bien Phu…
Mai seguita se non con distacco, invece, la Corea.
Poi, ossessionante, tragica, straziante quella del Vietnam: via via martellanti e ‘cattive’ le cronache, via via sempre più ‘sporco’ un conflitto decisamente mai ‘amato’ (si può amare una guerra? Da lontano, sì!).
Tecnologica e distante quella del Golfo: immagini televisive sbiadite e sfuggenti…
Inutili, del tutto inutili Afghanistan e Iraq.
Stupidissima quella di Libia per eliminare Gheddafi: un atto di vera demenza.

Quale la ‘mia’ guerra romantica per eccellenza?
Quella di Secessione, senza dubbio!
E, naturalmente, per ‘merito’ del Sud.

Lo so, lo so, il Sud degli Stati Uniti era schiavista, retrogrado, destinato necessariamente alla sconfitta…
Ma, per la miseria, chi mai tra gli scrittori da quel dopoguerra agli anni Cinquanta del Novecento (e, a ben guardare, fino ad oggi), chi mai, in tempi poi cinematografici, tra registi e sceneggiatori ha dedicato un romanzo o un film di vero impatto al grigio Nord?
‘Via col vento’ avrebbe potuto essere ambientato altrove che a Sud?

Per il vero e per quanto mi riguarda personalmente, ho amato i secessionisti americani in ragione di ‘Oklahoma’.
Correva l’anno 1952 e tra i molti fumetti in edicola eccolo spuntare appunto.
Protagonista, in cotal modo chiamato e a far titolo, un giovanissimo pellerossa che per quanto ciò possa oggi sembrare impossibile parteggiava per il Sud.
Mille le avventure vissute, mille i pericoli affrontati e superati dal ragazzetto che si batteva con tutte le sue forze contro i ‘cattivissimi’, nella rappresentazione, nordisti.

Avevo otto anni e quelle affascinanti strisce mi diedero un imprinting davvero particolare.
Per quanto abbia dipoi studiato e approfondito, in quella guerra eroicamente e romanticamente combattuta dagli sconfitti, imperdonabilmente, io sto col Sud!

Varese, 30 novembre 2023

The Great Migration

1910, a Detroit, Michigan, la popolazione nera è pari all’uno e quattro per cento.
Nel 1990 raggiunge il settantacinque e sette.
E’ questo il dato di maggiore impatto (un incremento di oltre il settantaquattro per cento).
Ma significativi aumenti si verificano in un numero notevolissimo di situazioni.
Nello stesso lasso di tempo a Cleveland e a St Louis, per dire, i neri crescono di più del quaranta per cento.
A Philadelphia, del trentacinque.
Percentuali queste che certificano uno dei fatti storici interni agli Stati Uniti di maggior peso relativamente al Novecento.
Si tratta della ‘Great Migration’, del trasferimento volontario di milioni di neri dal Sud e dalle zone rurali al Nord e agli agglomerati urbani.
Dalla campagna, dalle piantagioni, tradizionali e obbligate residenze degli schiavi, alle zone industriali.
Fenomeno sociale e politico di vastissima portata, la ‘Great Migration’.
Fenomeno sconvolgente equilibri prima codificati.
Attenti come sempre sono stati e sono (si pensi al ‘muro’ che dovrebbe percorrerne la frontiera meridionale) ai movimenti migratori dapprima dei Cinesi, poi degli Europei, infine dai Paesi Latinoamericani e dal Messico in specie, gli USA – e i risultati si sono visti per ogni dove nel tempo – male hanno affrontato l’irresistibile, non programmato né regolato esodo interno.

Varese, 30 novembre 2023

George Wilcken Romney, il padre di Mitt, ricordate? e l’avventura particolare che ebbe a vivere nel mondo delle automobili

Allorquando, in vista delle cosiddette Presidenziali del 2008, l’ex Governatore del Massachusetts, il mormone Mitt Romney propose la propria candidatura per ottenere la Nomination tra i repubblicani (tutti sanno come andò a finire allora e in seguito: sconfitto nell’occasione da John McCain nelle Primarie, si ripresentò nel successivo 2012, ottenne l’agognata investitura ma fu battuto dal Presidente in carica Barack Obama), subito mi tornò alla mente la figura del padre, George Wilcken Romney.
Non tanto per le sue pur molto felici imprese politiche – fu successivamente Governatore del Michigan, da 1963 al 1969, e nel corso del primo mandato di Richard Nixon (a lui preferito dagli elettori nelle Primarie del Grand Old Party) Segretario di Stato allo Sviluppo delle Abitazioni e delle Aree Urbane – quanto per due particolarità.
In primo luogo, perché la sua candidatura fu all’origine di un importante dibattito dato che, essendo egli nato in una colonia mormone nel Chihuahua, Messico, sembrava non possedere uno dei tre requisiti richiesti dalla Costituzione per diventare Presidente (e, quindi, per candidarsi): la cittadinanza USA dalla nascita.
La questione (che fu all’ordine del giorno anche quando il predetto McCain si propose visto che era a sua volta venuto al mondo fuori dagli States – a Panama – e che tornava d’attualità allora, marzo 2015, essendosi candidato per il 2016 Ted Cruz, nato in Canada da madre americana e padre non cittadino) fu risolta sostenendo che la corretta interpretazione del dettato costituzionale doveva portare a ritenere cittadini appunto dalla nascita anche i nati non in terra americana ma dovunque purché da genitori statunitensi.
In secondo luogo, per il capitolo a George Wilcken Romney dedicato da Raymond Cartier, ovviamente trattando in particolare del Michigan, nell’eccezionale ‘Le cinquanta Americhe’, 1961 in Francia e 1962 da noi.
Un Romney, quello del saggista francese, protagonista, in un periodo precedente a quello del suo impegno politico, di un’impresa maiuscola in campo industriale.
Riprendo, citando, elaborando, partendo dal quadro che della situazione anni Cinquanta dà il citato Cartier, le pagine in questione:
“Lunghe, alate, cromate, così le automobili USA prodotte a Detroit nella prima metà degli anni Cinquanta del Novecento.
Dominanti quanto a vendite, incuranti della impalpabile concorrenza delle marche europee, le case costruttrici si ritenevano inattaccabili e nulla pareva turbare la loro serenità.
Ma ecco un primo campanello d’allarme:
1955, la Volkswagen sfonda vendendo la bellezza di trentacinquemila vetture e arrivando a cinquantamila l’anno successivo”.
(E’ ambientato a Baltimora nel 1963, ma l’ottimo ‘Tin men’ di Barry Levinson, in particolare nel finale, rende benissimo il ‘momento’ in questione).
E’ in quella temperie che il direttore di una società del ramo automobilistico indipendente e secondaria chiamata Nash fonde l’azienda della quale è alla guida con l’altrettanto secondaria e indipendente Hudson creando la American Motors per tentare l’avventura dedicandosi alla progettazione e realizzazione di una macchina di dimensioni minori, più ragionevoli.
E’ ovviamente George Wilcken Romney il desso che, nel propagandare la propria attività, paragona le auto usualmente prodotte dalle case di Detroit ai dinosauri:
“Avevano le più belle griglie di radiatore della preistoria ma sono diventati così grossi che sono morti”, dice.
Ed ecco che, riprendendo un antico nome di auto, propone la Rambler, una specie di abile compromesso tra una vettura americana e una del vecchio continente.
Pochi anni davvero e, malgrado lo scetticismo generale, già nel 1957 del nuovo modello si vendono ottantottomila vetture.
Duecentomila nel successivo 1958, oltre quattrocentomila nel 1959.
Le azioni della sua American Motors, cadute a cinque dollari poco dopo il debutto borsistico, cominciano una ascesa che le porta a valere quasi venti volte tanto.
Le vie e le strade sono (relativamente) a questo punto invase dalle auto europee ma anche dalle macchine prodotte e vendute da Romney.
Nel correre tardivamente ai ripari, è proprio al modello Rambler che le case di Detroit faranno riferimento.
Così Raymond Cartier, il quale, scrivendo nel 1960, non poteva sapere quali strade in futuro il mormone avrebbe felicemente percorso.

Varese, 30 novembre 2023 

Glossario essenziale della politica americana

Premessa indispensabile

L’elezione del Presidente degli Stati Uniti d’America è ‘di secondo grado’ non ‘diretta’.
Il popolo non vota pertanto appunto direttamente per il futuro Capo dello Stato ma – dal 1848, “il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno coincidente con il bisestile” – per scegliere Stato per Stato gli Elettori (con l’iniziale maiuscola ovviamente anche nel testo che segue per distinguerli da quelli comuni) nel numero corrispondente al totale delle diverse Delegazioni parlamentari federali, che successivamente – “il primo lunedì dopo il secondo mercoledì del seguente dicembre” – effettivamente, riuniti nel Collegio che dal 1964 in cinquecentotrentotto compongono, lo eleggeranno.
Il loro operato sarà poi ratificato dal Congresso il 6 gennaio a venire e il vincitore entrerà in carica, si insedierà, a mezzogiorno dell’ancora seguente 20 dello stesso mese.

Inutile in quest’ambito riandare alla precedente e sorpassata regolamentazione e ai termini che con infinite altre note in merito al tema America possono essere conosciuti consultando le mie molte opere come pure il sito della Fondazione Italia USA che ho l’onore di presiedere, sul quale negli anni elettorali seguo le diverse vicende e il mio costantemente in fieri, enciclopedico Diario Americano su The Science of Where Magazine

Il ‘Glossario’, per consentire un’agile lettura, continua …

‘Absentee ballot’ o ‘Absentee voting’:

è la situazione nella quale l’elettore per una precisa ragione (vive altrove, presta il servizio militare, è in viaggio, è impegnato scolasticamente in uno Stato diverso da quello di residenza) non può essere presente al seggio a lui assegnato e vota altrove.

‘Absentee/mail voting deadline(s)’:

Si fa presto a dire voto postale o anticipato. Anche in questa occorrenza vanno rispettate delle regole dettate peraltro Stato per Stato.
In primo luogo, la spedizione deve essere fatta entro una data determinata la qual cosa viene documentata dal timbro postale (‘postmarked’). In secondo, la busta deve essere ricevuta (‘received’) entro una seconda stabilita data.

‘Acting President‘’:

si definisce in cotal modo il Vice Presidente che per ragioni quali malattie o impedimenti debba sostituire momentaneamente il Capo dello Stato nelle funzioni.
Nell’ipotesi in cui anche il Vice fosse impedito, la qualifica e le incombenze andrebbero affidate secondo la Linea di Successione (si veda più avanti).

‘Advance voting’:

permette, nelle evenienze determinate, quando ricorrenti, agli elettori di votare prima del periodo stabilito.

‘Advice and Consent’:

è in cotal modo definito il potere che ha il Senato di esaminare e ratificare (o bocciare) i Trattati firmati dal Presidente e alcune nomine di sua spettanza quali i Segretari di Gabinetto, i Giudici della Corte Suprema e Federali, gli Ambasciatori.

‘Affiliati’ (e non affiliati):

si dicono ‘affiliati’ gli elettori che, iscritti alle liste elettorali, hanno dichiarato appunto una loro affiliazione partitica. Non affiliati quanti non lo hanno fatto.

‘All white party’:

nel 1980, ricevendo il cinquantasei per cento dei voti dei bianchi Reagan vinse alla grande. Nel 2012, Romney arrivando al cinquantanove nello stesso gruppo etnico perse.
È il Repubblicano, in qualche modo, il partito dei bianchi e questo, diminuendo percentualmente nel tempo il peso di quelli che una volta si definivano ‘wasp’ (‘white, anglo-saxon, protestant’), in prospettiva, a livello nazionale, elettoralmente lo condanna.

‘Amendment’:

un Emendamento tende a modificare il testo costituzionale.
Quelli entrati in vigore (devono essere votati dai due terzi delle Camere e ratificati dai tre quarti degli Stati – esiste un’altra procedura mai seguita) sono ventisette.
I primi dieci, datati 1791 e noti come ‘Bill of Rights’ riguardano i Diritti Civili.

‘American Conservative Union’ (ACU)’:

è una associazione politica conservatrice che opera per favorire iniziative e leggi in armonia con i principi che la ispirano.
Assegna agli uomini politici un punteggio (ovviamente, guardando alla loro aderenza o meno ai criteri che la guidano) sulla base dei voti che esprimono nelle assemblee delle quali fanno parte.

‘Anatra zoppa’, vedi ‘Lame-duck’

‘Arab American’:

Sono gli Stati Uniti d’America il crogiolo di tutte le possibili esistenti etnie. Di ogni più piccola appartenenza. Tra le altre, quella degli ‘Arab American’. Che non vanno – ed è questa una comunque importante rilevanza – necessariamente considerati musulmani, non pochi tra loro essendo di differenti religioni. Dicono le rilevazioni in merito che possono avere qualche voce in capitolo quanto al voto in all’incirca venticinque (su quattrocentotrentacinque) Circoscrizioni camerali. Davvero poca, invece, a livello Casa Bianca.
Questo, oggi. In una situazione difatti che li vede in aumento, avranno a loro volta di certo peso in futuro.

Asino:

simbolo del Partito Democratico per questo spesso definito dell’Asino o dell’Asinello.
Vengono altresì chiamati Asini o Asinelli anche gli esponenti e gli elettori del partito.

‘At-large’:

la Costituzione americana prevede che i Rappresentanti siano votati in Distretti (tanti, Stato per Stato, quanti sono gli eligendi).
Nel caso, oggi (nel tempo sono possibili, e avvenuti, cambiamenti in merito), di sette membri dell’Unione (Alaska, Delaware, Montana, North Dakota, South Dakota, Vermont e Wyoming) però, essendo uno solo il Rappresentante da inviare a Washington, il District si identifica con lo Stato stesso, appunto ‘at-large’.

‘Australian ballott’:

è il voto segreto, usato un Tasmania la prima volta nel 1856.

‘Average’:

si usa per indicare la media ricavata confrontando le rilevazioni sondaggistiche in vista di una elezione (non solo).

‘Average error in poll’:

Courtney Kennedy è ‘director of survey research’ del Pew Research Center, un importante ‘think tank’ ‘non partisan’ con sede a Washington.
Tornando sul tema – in questo 2020 infinitamente discusso – della attendibilità dei sondaggi politici, Kennedy ha scritto che in effetti, tutto correttamente valutando, non è vero che il ‘margine d’errore’ sia, come sempre indicato, all’incirca del tre per cento.
“Several recent studies show that the average error in a poll estimate may be closer to six percentage points” le sue parole.
La conclusione – del resto alle telefonate degli istituti sondaggistici risponde un decimo dei chiamati la qual cosa già fa suonare mille campanelli d’allarme – è che “the polls are not precise enough to call the winner in a close election”.

‘Average polling error’:

dal 1968, a risultati elettorali consolidati, si confrontano, guardando alla media, i dati effettivi con quelli forniti in precedenza dai sondaggi a livello nazionale. Orbene, considerando che il margine di errore in tali rilevazioni è del due e mezzo per cento, la sola occasione nella quale l’errore fu imperdonabile è datata 1980.
I democratici erano dati indietro del due e cinquanta e persero per il nove e sette!

Varese, 29 novembre 2023

da The Guardian

Nikki Haley ottiene importanti appoggi e conseguenti finanziamenti

L’influente miliardario statunitense di destra Charles Koch appoggia Nikki Haley per la Nomination presidenziale repubblicana, scegliendo l’ex Governatrice della Carolina del Sud e Ambasciatrice all’ONU rispetto a Donald Trump, il chiaro favorito, e a Ron DeSantis, il Governatore di destra della Florida.

“Il momento che stiamo affrontando richiede un leader collaudato con la capacità di governo e l’esperienza politica necessarie per riportare la nostra nazione indietro dal baratro”, ha scritto Emily Seidel, consigliere senior di Americans for Prosperity Action, il braccio politico della rete Koch, in una nota riportata per la prima volta dal New York Times.
“Nikki Haley è quel leader”.

Varese, 29 novembre 2023

L’Ordinanza del Nordovest

OK, il 1787 è per gli Stati Uniti l’anno della Costituzione.
Ma è altresì l’anno nel quale il Congresso emana l’Ordinanza del Nordovest .
Era la parte a nord del fiume Ohio ad essere così chiamata.
Proprietà del neonato Stato a seguito del Trattato del 1783 che aveva riconosciuto l’indipendenza dalla vecchia madre patria, l’immenso territorio fu regolato in un modo del tutto innovativo, conseguente – va da sé – alle idee esposte nella Dichiarazione di Indipendenza.
Non pertanto e quindi una terra coloniale.
Le disposizioni in merito concedevano che non appena nei singoli Territori (così denominati) si fossero stabilite almeno cinquemila persone queste avrebbero potuto eleggere i propri legislatori e darsi le proprie leggi.
Che arrivati i Territori a poter contare su almeno sessantamila abitanti avrebbero potuto aspirare ad entrare a far parte degli Stati Uniti come e con gli stessi diritti delle prime tredici ex colonie.
Obbligatorio che in ogni comunità la pratica religiosa fosse libera.
Obbligatorio che ogni Territorio riservasse terreni a favore della pubblica istruzione.
Vietata la schiavitù.
Vietata anche – cosa che rese possibile il frazionamento delle proprietà terriere alla morte dei proprietari e consentì la creazione di mille piccole fattorie in luogo dei latifondi – la primogenitura.
Anche in quest’ambito, la rivoluzione!

Varese, 29 novembre 2023

Picasso a Grenoble con (in cauda venenum? ma no) una quindicina di righe finali che parlano di ‘Trump prima di Trump’ e …

Con la mano sinistra.
Non volutamente, con quel diavolo di cast.
Per come è andata, direi.
Resta comunque per certe scene e per un paio di particolari.
Parlo di ‘The Paper’ che Ron Howard ha presentato in prima assoluta a New York il 18 marzo del 1994 e gli sarebbe bastato aspettare tre giorni per debuttare sotto l’’Ariete, tutta un’altra storia.
C’è una Glenn Close che si vuole brutta e riesce ad esserlo totalmente.
C’è una Marisa Tomei l’attrice più incinta mai apparsa sullo schermo.
C’è un Randy Quaid ottimo perché fa se stesso.
C’è un Robert Duvall che ovviamente lascia traccia e racconta quella storia.
Quella delle Olimpiadi invernali di Grenoble.
Quella di quando con una banda di altri giovani inviati yankee bevono e mangiano senza un domani e al momento del conto non sanno come fare.
Quella del signore piccolino di statura e anziano che seduto al tavolo vicino ha visto e capito.
Quella dove il tizio chiama lo chef e chiede un tovagliolo pulito.
Quella nella quale lo stende e con un pennarello disegna trenta secondi.
Quella nella quale alla fine, dopo aver firmato, dice “È per il conto di quei giovanotti” e se ne va.
Quella in cui si scopre che il detto era Pablo Picasso.
Ed è all’inizio di ‘The Paper’ che Michael Keaton di rientro al giornale alla domanda “Novità?” risponde “Donald Trump si è buttato da una finestra” per sentirsi replicare “ed è caduto su una ragazza” evidente tormentone che ascoltato anni dopo diceva molto a proposito del tycoon e della sua notorietà e di come avrebbero potuto andare e sono andate le cose.

Varese, 29 novembre 2023

Chester Arthur e il Meridiano di Greenwich

È solo nel 1884 che si stabilisce a livello internazionale che in luogo dei molti in uso il Meridiano di Greenwich sia quello fondamentale per i calcoli della latitudine e dei fusi orari.
Accade nel corso della Conferenza, appunto, Internazionale dei Meridiani che si tenne a Washington dall’1 ottobre all’1 novembre nel mentre la Presidenza di Chester Arthur volgeva al termine (repubblicano, organizzatore del consesso al quale presero parte quarantuno delegati in rappresentanza di venticinque Paesi tra cui l’Italia, sarebbe stato sostituito il 4 marzo del 1885 dal democratico Grover Cleveland, invero ancora a quel mentre da eleggere – lo sarà a seguito delle votazioni del giorno successivo alla chiusura della Conferenza stessa).
Ventidue le delegazioni favorevoli.
Una contraria: Santo Domingo.
Due le astensioni: Brasile e Francia.
Quest’ultima, considererà come Meridiano fondamentale quello di Parigi fino al 1911.
La scelta di Greenwich fu determinata da due considerazioni: era già quello il Meridiano in uso per la bisogna negli Stati Uniti e gran parte delle carte nautiche lo utilizzavano.

Varese, 28 novembre 2023

Testimonianze
a proposito di personaggi o accadimenti particolarmente, anche se non nel mentre, comunque collegati alla Storia degli Stati Uniti d’America

Uno

Je me souviens du General Pinochet

par François Nicoullaud

ancien Ambassadeur de France et mon cher ami
purtroppo nel frattempo trascorso a miglior vita

Testo pubblicato il 30 gennaio 2014 on line in ‘Dissensi & Discordanze’, rivista culturale indicativamente semestrale ideata, diretta ed edita da Mauro della Porta Raffo

Nell’estate del 1973, avevo allora trentatré anni, fui nominato secondo segretario presso l’ambasciata di Francia in Cile.
Ricordo che mia moglie ed io avevamo i biglietti per arrivare a Santiago il 12 settembre, ma proprio alla vigilia, ancora a Parigi, ascoltando la radio apprendemmo che Salvator Allende era appena stato deposto con un colpo di Stato.
L’aeroporto di Santiago fu chiuso e tutti i voli, sospesi.
Riuscimmo poi ad arrivare una settimana più tardi con il primo volo autorizzato a raggiungere la capitale cilena.
Lo sbarco, tra due ali di soldati armati ai piedi della passerella, fu impressionante.
Penetrando nel centro della città passammo lungo i resti carbonizzati della Moneda, il palazzo presidenziale circondato da carri armati.
L’ambasciata ci aveva riservato una stanza in un grande albergo in centro e vi arrivammo nel pomeriggio senza che poi ne potessimo uscire dato che il coprifuoco cominciava alle cinque.
Dalla nostra finestra, all’ottavo o nono piano, vedevamo le persone che come formiche impaurite correvano verso gli ultimi autobus  in servizio, già sovraccarichi.
Gli ultimi passeggeri si attaccavano all’esterno, intorno al predellino, a tal punto da far pendere pesantemente i mezzi verso la loro sinistra, conferendogli una strana andatura da granchio.
Mi ricordo che il paese era piombato nella scarsità e carestia.
Qualche giorno dopo, ricongiunti con i nostri figli, ci installammo nella villa, ormai vuota, del mio predecessore.
Al tramonto, il primo supermercato nel quale entrammo era ben illuminato e le corsie, da lontano, ben fornite.
Affamati, ci  avvicinammo ma il negozio vendeva esclusivamente pomodori in scatola e per due settimane non mangiammo altro che patate.
I diplomatici in sede erano organizzati meglio.
Il vice-console, dopo averci invitati a pranzo, ci aveva portati a visitare la sua cantina e fatto ammirare il contenuto di numerosi congelatori pieni di arrosti, di pollame e cosciotti vari senza che gli venisse in mente di offrircene un poco.
Mi ricordo, al di là di queste piccole questioni, certo, della repressione feroce che si estendeva via, via in cerchi sempre più larghi man mano che aumentavano le confessioni e il furto delle agende con gli indirizzi degli uni e degli altri.
I perseguitati si rifugiavano a ondate nelle ambasciate e, Parigi consenziente, all’improvviso l’ambasciata di Francia rimase aperta.
Anche il personale locale, favorevole alla Giunta per quel che serviva, stava al gioco lealmente dato che l’ascendente morale dell’ambasciatore, Pierre de Menthon, risolveva sul nascere qualunque esitazione sulla linea da seguire.
L’ambasciatore aveva ‘liberato’ i giardini e tutti i saloni della sua residenza per far spazio ai richiedenti e dato che il mio ufficio era occupato da una quarantina di letti da campo, condividevo con lui quello del primo consigliere.
Bisognava sfamare tutta quella gente e le nostre mogli, organizzate in gruppo, si adoperavano per questo.
Ecco in che modo più di settecento rifugiati hanno potuto, a ondate, essere ospitati nei nostri locali prima di poter partire, dopo due o tre settimane,  per la Francia.
Il ministro cileno per gli affari esteri che rilasciava i visti, collaborava discretamente.
Mi ricordo che potevamo facilmente contattare  i franco-cileni internati non appena venivano trasferiti dai centri di detenzione e degli interrogatori clandestini alle prigioni ufficiali dove la burocrazia, abbastanza protettiva per sua stessa natura, riprendeva i suoi diritti.
La prigione centrale di Santiago, dove mi recavo ogni tanto, riservava ai detenuti un regime, tutto sommato, bonario.
L’entrata, un buco in un muro di intonaco dentellato, fiancheggiata da due palme e due cannoni fuori uso, somigliava un po’ a quella di Forte Alamo.
Durante gli orari del parlatorio, tutti, prigionieri, famiglie cariche di cesti pieni di provviste alimentari, visitatori come me, si stava, senza alcun divisorio, in una grande sala scarsamente sorvegliata.
Mi ricordo del primo prigioniero di cui ebbi ad occuparmi.
Si chiamava Victor Romeo; figlio di un diplomatico francese sposato in Cile con una cilena durante la seconda guerra mondiale, il quale, entrato poi nella Resistenza, era stato fucilato dai Tedeschi.
La sua vedova era rimpatriata con il piccolo Victor appena nato.
Era cresciuto  in Cile senza più alcun legame con la Francia e aveva aderito al Movimento della sinistra rivoluzionaria partigiano della lotta armata.
La sera del colpo di Stato, aveva raggiunto la sua cellula di militanti e il piccolo gruppo si era armato e diviso in due per setacciare il quartiere alla ricerca di militari golpisti.
Ma disgraziatamente i due distaccamenti si erano incrociati nella notte e sparati addosso l’un l’altro.
In preda al panico si erano rassegnati a chiamare la polizia e  per questo Victor Romeo, gravemente ferito ad una gamba, si era ritrovato prigioniero all’ospedale.
Andavo a trovarlo in prigione e, stando con lui, facevo grandi progressi in spagnolo.
Alla fine Romeo è stato condannato ad una pena immediatamente convertita in espulsione.
L’abbiamo fatto evacuare verso la Francia, l’ho salutato all’aeroporto e non l’ho visto mai più.
Ricordo di essere stato contattato da una famiglia angosciata per il padre detenuto a Arica, a nord del paese.
Telefonai al direttore della prigione per dirgli che teneva prigioniero un Francese al quale l’ambasciata di Francia teneva molto.
Di fatto era un Cileno con radici francesi che però, come Romeo e la maggioranza dei Franco-cileni non spiccicava una parola di francese.
Il mio spagnolo era ancora grezzo e la linea non prendeva bene, la voce gracchiava.
La conversazione quindi era stata breve ma il direttore, a duemila chilometri di distanza, pareva essere stato molto impressionato per aver parlato con un diplomatico straniero.
In seguito, non me ne sono più occupato.
Il detenuto in questione fu poi liberato otto o dieci mesi più tardi;  venne a trovarmi e mi disse che tutti i prigionieri del suo raggio, tranne lui, erano stati fucilati.
Venivano a prendere i suoi compagni di cella con una frase di rito: “Ven, vamos a sacarte la fotografía” (“vieni, ti facciamo la foto”).
Lui, lo chiamavano ‘el Francès’.
Mi ricordo anche delle sale per le udienze dei tribunali militari.
Da qualche parte a nord di Santiago, alla caserma delle Forze aeree, ho così potuto assistere al processo di un generale leale all’Unità popolare.
Alla fine dell’udienza fu condannato a morte benché l’atmosfera fosse la medesima di un’udienza di routine.
Forse la sentenza non fu poi eseguita.
Ad un altro processo davanti al tribunale militare, l’accusato, un amico di Allende, un Franco-cileno molto distinto di cui mi occupavo, era arrivato con le catene ai piedi.
Strisciando sul pavimento facevano un rumore veramente orribile.
Mi ricordo di un giovane Vietnamita che si chiamava Trân e che veniva a trovarmi ogni tanto all’ambasciata, ben contento di andarsene con due o tre pacchetti di Gauloises.
Era venuto in Cile per partecipare all’Unità popolare e si era sposato con una giovane Cilena.
Seppi, in seguito, che lo avevano  arrestato.
Il suo corpo torturato fu poi trovato e credo di avere ancora, da qualche parte,  una fotografia del suo viso tumefatto.
Eravamo una dozzina di persone al suo funerale al grande cimitero centrale di Santiago.
In quell’angolo c’erano molte fosse scavate da poco, senza croce né pietra.
Mi ricordo che in Cile, paese profondamente cattolico, oltre che del dolce vivere, fiorivano scarse vocazioni sacerdotali.
Perciò accoglieva preti europei, segnatamente francesi.
Purtroppo si facevano prendere dall’atmosfera proprio come capitò a quel parroco francese, officiante in provincia, nella regione di Copiapo.
I suoi genitori, molto pii, avevano saputo, dopo, che il loro figlio era stato giustiziato durante il Colpo di Stato perché ritenuto filo-marxista, che precedentemente si era sposato con una Cilena et che aveva avuto, da lei, un bambino.
Era davvero troppo ma tutto sommato furono poi contenti di avere un nipotino insperato e avevano fatto venire in Francia sia il bambino che la madre.
Mi ricordo, in una dimensione meno tragica, di un prete francese e di una suora risucchiati nel vortice dell’Unità popolare e presi da passione l’uno per l’altro.
Si erano potuti rifugiare all’ambasciata.
La giovane donna era incinta e aveva partorito a ridosso del Natale.
Erano stati espulsi poco dopo verso la Francia.
Li rivedo in partenza con il loro bébé imbacuccato, stile ‘fuga in Egitto’.
Ricordo di aver scoperto il volto del generale Pinochet alla televisione, nella nostra stanza d’albergo, il giorno dopo il nostro arrivo.
La sua prima intervista dopo il colpo di Stato.
Alla giovane giornalista che gli rivolgeva la domanda con fare vezzoso: “Generale, avrebbe un piccolo difetto da confessarci?”, aveva risposto dopo un momento di silenzio: “Sinceramente non trovo”.
Mi ricordo che il giornale la Segunda, quotidiano popolare della sera, decisamente schierato con il Colpo di Stato, pubblicava ogni giorno poemi inviati da lettori  a celebrare la gloria del  Pronunciamiento militar.
Tra questi, uno particolarmente sfrenato, era dedicato a mi General come dicevano allora i più ferventi partigiani del capo della Giunta.
Ma leggendo le prime lettere di ogni versetto si formava la frase : “milicos cobardes y traidores” (“militari, vigliacchi et traditori”).
La città intera ne rideva e il direttore del giornale aveva avuto delle seccature.
Mi ricordo di aver stretto la mano di Pinochet durante una parata militare.
Piazzato in alto nella tribuna ufficiale, vedo ancora la schiena di sua moglie, piuttosto grassoccia, nell’atto di stirare con la mano il posteriore della sua gonna prima di sedersi come un’attenta economa dei suoi abiti personali.
Mi ricordo che malgrado il nostro aiuto ai perseguitati politici, la gente del nuovo regime, certamente assetata di riconoscimento ufficiale, ci trattava come niente fosse.
Perciò svolgevamo in aggiunta al trattamento dei rifugiati, il lavoro classico di un’ambasciata: visite, formalità, ecc.
E mi vedo  nell’ufficio di uno degli assistenti della Giunta  a chiacchierare di cooperazione culturale.
Insisteva molto perché facessimo arrivare  a Santiago ‘Il Lago dei cigni’.
Non osavo dirgli che nel clima di terrore che regnava allora, salti e piroette mi parevano fuori luogo.
Mi balenava davanti  agli occhi l’immagine di cigni galleggianti in pozzanghere di sangue.

Varese, 28 novembre 2023

Clyde Geronimi: altro che Walt Disney!

‘Musica Maestro’, 1946
‘Lo scrigno delle sette perle’, 1948
‘Le avventure di Ichabod e mr. Toad’, 1949
‘Cenerentola’, 1950
‘Alice nel Paese delle Meraviglie’, 1951
‘Le avventure di Peter Pan’, 1953
‘Lilli e il Vagabondo’, 1955
‘La bella addormentata nel bosco’, 1959
‘La carica dei 101’, 1960
Capolavori di Walt Disney?
Certo.
Ma il regista era italiano.
Di Chiavenna.
E si chiamava Clyde Geronimi!!!!

Varese, 28 novembre 2023

Compie oggi 87 anni Gary Hart.
Parlarne come faccio nel datato (31 agosto 2022, giorno seguente la morte di Mickail Gorbaciov) intervento che segue vuol dire ricordare un’Epoca veramente memorabile nonché l’esordio infelice a livello nazionale di un certo Joe Biden.

“Gli anni Ottanta, addirittura.
Lontanissimi, precedenti la caduta del Muro di Berlino!
Negli Stati Uniti, Ronald Reagan al secondo mandato.
George Herbert Bush Vice Presidente.
Uno stuolo di Protagonisti con l’iniziale maiuscola.
Una vita fa, quella vissuta alla ribalta internazionale alla grande dall’appena scomparso Mickail Gorbaciov.
E per prima cosa mi viene alla mente un sopravvissuto yankee ‘minore’ di quei tempi: Gary Hart.
Senatore del Colorado, carismatico, giovane e gradito ai giovani, era apparso all’improvviso nella campagna elettorale primaria dei Democratici del 1984 ottenendo un risultato straordinario e non più ripetuto da allora: aveva difatti vinto nella circostanza contro tutto e tutti il ‘Supermartedi’ datato 13 marzo.
Sconfitto per la Nomination comunque e ciò malgrado da un Walter Mondale destinato alla più clamorosa disfatta nel successivo novembre, Hart si ripropose in vista del 1988 e per non pochi momenti quale probabile vincente.
È, come lo ricorda già nel titolo il recente film che ne ripercorre la vicenda, ‘The Front Runner’.
Fin quando il 28 aprile del 1987 il ‘Miami Herald’ rivela che ha una relazione con la modella Donna Rice.
Due settimane di tentata resistenza allo scandalo e poi la resa.
Per quanto non totalmente escluso dalla vita politica, da allora l’ex Senatore resterà una di quando in quando richiamata, periferica, comparsa.
La medesima fine (ed anche peggiore dato che fu obbligato al ritiro da un incredibile plagio compiuto nei riguardi di Neil Kinnock) sembrava a quel mentre fosse riservata all’altro e secondo giovane in corsa per quella Nomination: un certo Joe Biden, in grado invece, come si è constatato, di superare ogni e qualsiasi ostacolo”.

Varese, 28 novembre 2023

Apparenti bizzarrie quanto alle percentuali di voto popolare

Se si guarda al voto repubblicano in occasione delle votazioni novembrine per la Presidenza del 2012 e del 2016 balza agli occhi un dato particolare.
Nel primo caso, raccogliendo il quarantasette e due per cento dei suffragi popolari a livello nazionale, Mitt Romney ha perso.
Nel secondo, con il quarantasei e uno, Donald Trump ha vinto.
È pur vero che il risultato in valore assoluto di Trump è stato di quasi sessantatre milioni di voti contro i pressoché sessantuno di Romney.

Varese, 28 novembre 2023

‘Pro-Administration’, ‘Anti-Administration’ ai tempi di George Washington

Per definizione, George Washington è stato l’unico Presidente partiticamente indipendente.
Due mandati (il primo e il secondo di un Capo dello Stato USA) conquistati ottenendo il voto di tutti gli Elettori (iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni), all’unanimità.
Al Congresso (verrebbe da dire ciò malgrado) non esistendo ufficialmente partiti politici, nel suo quadriennio inaugurale, si manifestarono due fazioni, definite
‘Pro-Administration’
e
‘Anti-Administration’.
Per quanto si possa pensare che gli aderenti appoggiassero o si opponessero alla politica presidenziale, così sostanzialmente non era.
I primi seguivano le idee e le indicazioni del Segretario al Tesoro Alexander Hamilton (e diventeranno ‘Federalisti’).
I secondi le avversavano (e saranno ‘Democratici-Repubblicani’).
Tredici i Pro e sette gli Anti al Senato tra il 1788 e il 1789.
Trentasette i Pro e Ventotto i contro alla Camera.

Varese, 28 novembre 2023

I Navajos discendono dagli Ebrei (?!?!)
e in una nota dapprima generale e poi personale i cosiddetti ‘Code talker’

Tra tutte le lingue dei Pellirosse, quella Navajo si distingue per una particolare complessità e  pur appartenendo indubbiamente al gruppo linguistico Na-Dene, propone vocaboli che sembrano avere una diversa ed inspiegabile origine.
Tanto diversa ed estranea tale origine che, tempi orsono, qualcuno pensò di collegare il Navajo addirittura all’Ebraico.
Secondo i sostenitori di questa teoria, i Navajos altri non sarebbero
che i discendenti di quelle che vengono definite “le Tribù disperse di
Israele” e cioè delle Dieci Tribù che, appunto alla caduta del Regno
di Israele (722/720 a.C.) furono esiliate e di cui si perse storicamente ogni traccia, salvo ritrovarla proprio negli attuali Stati Uniti dove i pellegrini si sarebbero trasferiti mantenendo almeno parte della loro lingua.
Tesi che volendo, come accennato, risalgono a molto tempo fa.
Probabilmente, il primo a parlare di una colonizzazione ebraica del Nuovo Mondo fu lo studioso spagnolo Arius Montanus, nella sua ‘Bibbia poliglotta’, edita ad Anversa tra il 1569 e il 1573.
Della stessa opinione, Gregorio Garcia nel 1607 (‘Origen de los Indios del Nuevo Mondo’) e, tra il diciassettesimo e il
diciannovesimo secolo, molti altri tra i quali si distingue soprattutto per l’eminenza e la vastità delle ricerche l’Irlandese Edward King, conosciuto come Lord Kingsborough.

Nota
Esce nel 2002 ed ha un qualche successo per il tema accennato (i ‘Code talker’ dovrebbero essere i protagonisti ma in fondo restano un pretesto) il film diretto da John Woo ‘Windtalkers’, con Nicholas Cage.
In soldoni fa conoscere un fatto storico tenuto ufficialmente nell’ombra: in particolari situazioni, gli Stati Uniti, in azioni di guerra, per trasmettere via radio o telefonicamente da un plotone o un reparto militare all’altro notizie e ordini senza che il nemico (i Giapponesi nella Guerra combattuta nelle isole, in specie) riuscisse intercettandoli a comprenderli, scartato il Basco che per esempio nelle Filippine poteva essere compreso, hanno con molto successo usato lingue dei Pellirosse (soprattutto, Navajos come nella pellicola citata ma assolutamente non solo: Comanche, Choctaw, Cherokee, Lakota…) che, per di più, utilizzavano codici linguistici derivati.

Della particolarità venni personalmente in verità a conoscenza addirittura negli anni Cinquanta.
Era un caro Amico di famiglia alto ufficiale del Genio Aeronautico.
Inviato credo nel 1951/52 in Florida per un lungo periodo di studio, tornato tra noi, raccontò dei ‘Code talker’ suscitando in me una grande emozione.
Sapete, a quei tempi, western assolutamente imperanti, gli Indiani…
Mamma mia!

Varese, 27 novembre 2023

Cosa ha a che fare Detroit con la ‘Tontina’?

Per cominciare, cosa diavolo è la ‘Tontina’?
A mio modo di vedere, un invito mica male a commettere assassini.
Mi spiego per cominciare usando articolatamente la definizione che della stessa propone Wikipedia:
“È un contratto finanziario e di investimento introdotto in Francia da Lorenzo de Tonti nel 1653.
(Alcuni sostengono che questo tipo di operazione fosse già in uso in Italia in precedenza).
Il funzionamento è semplice: ognuno degli appartenenti alla Tontina paga la quota d’ingresso, dopodiché il capitale raccolto viene investito e i partecipanti godono fino alla morte degli utili derivanti dagli investimenti.
Al momento dei decessi la quota di capitale viene ripartita fra i restanti soci. Quando tutti i partecipanti sono passati a miglior vita, il capitale può avere diverse destinazioni a seconda degli accordi presi”.
Non v’è chi non veda che eliminando i soci – un paio di gialli neozelandesi (1) hanno trattato questo impianto – si possiedono quote sempre maggiori del capitale appunto sociale che infine resta nelle mani di uno solo degli investitori.
Ora, venendo alla domanda del titolo, Detroit sostanzialmente deriva da un insediamento fondato nel 1701 e chiamato Pontchartrain du Détroit (laddove Détroit significa ‘stretto’) dall’avventuriero francese Antoine Laumet de La Mothe, sedicente Signore di Cadillac, e da Alphonse de Tonti, ufficiale francese di origine italiana, figlio del predetto Lorenzo.
Come sempre, le impervie strade della conoscenza portano ovunque.
Nel caso, dal Napoletano, terra natale di Lorenzo, a Gaeta della quale quegli fu Governatore, a Parigi dove nacque Alphonse, nelle terre allora colonie francesi d’America, infine a una Detroit che ha graficamente perso l’accento e che è oggi non da oggi fiore all’occhiello del Michigan.

(1)
Nel caso più significativo, la società fondata compra un purosangue di razza che si dimostra un vero crack.
Aumentando il valore del cavallo stranamente alcuni comproprietari passano a miglior vita.
Chissà come e perché?!?!?

Varese, 27 novembre 2023

Contributo

Paradossi elettorali negli Stati Uniti d’America: i Governatori e non solo
di Giambattista Titta Rosa

Chi segue le elezioni americane, sa che da decenni sia quella del Presidente che quella dei membri dei due rami del Parlamento si giocano sul filo di lana: l’America sembra divisa in due forze antagoniste di pari peso, con relativamente pochi “independents” a decidere con il loro voto le sorti elettorali.
Se questo è vero a livello federale, nei singoli Stati la situazione è quasi opposta: in almeno quaranta l’esito elettorale è arcinoto in anticipo.
Chi volesse scommettere sulla vittoria repubblicana in California o democratica in Wyoming verrebbe probabilmente, e non senza qualche ragione, ricoverato per un trattamento sanitario obbligatorio.
I cosiddetti “swing States”, quelli dove vi è reale competizione, sono meno di una decina, alcuni storici (Pennsylvania, Wisconsin, Nevada, Virginia), altri più recenti (Georgia, Arizona, Michigan), mentre altri ancora sono negli ultimi anni diventati più marcatamente repubblicani (Florida, Ohio) o democratici (Colorado, New Mexico).
Sembra dunque che negli USA vi sia un elettorato molto polarizzato, due tribù che si detestano.
Stati “rossi” contro stati “blu”, e ancor più città contro campagne: anche negli stati più conservatori, come Utah e Texas, le città sono progressiste (nelle venti maggiori città USA, solo un Sindaco, a Miami, è repubblicano), e anche negli Stati più progressisti nelle contee rurali sono i repubblicani a prevalere largamente.
Questo fenomeno è del resto globale: basti pensare che in UK, quando nelle ultime elezioni i conservatori stravinsero, in città come Manchester o Liverpool non arrivarono al dieci per cento dei voti.
Si potrebbe pensare quindi che gli americani votino “in automatico”, per appartenenza e non valutando programmi e candidati.
Non è però così, e lo dimostrano spesso proprio le elezioni per i Governatori, un ruolo estremamente importante in un sistema federale.
A tale livello il voto va di sovente più alla qualità del candidato che al partito di appartenenza.
A confermarlo, questa settimana, la rielezione del Governatore democratico Andy Beshear in Kentucky (uno Stato stravinto da Trump nel 2020), e la conferma nelle polls di “Governatore più amato degli Usa” per Phil Scott del Vermont: è un repubblicano, eletto in una realtà che vota per il settanta per cento democratico e che elegge Senatore il socialista Bernie Sanders, ma è apprezzato dal settantasei degli elettori.
Non sono eccezioni: in particolare gli Stati superdemocratici del New England amano eleggere Governatori repubblicani.
E’ repubblicano, come il predecessore, e molto popolare, Chris Sununu in New Hampshire, e diversi repubblicani hanno governato di recente in Connecticut, Maine e Rhode Island.
I maligni sostengono che i borghesi del New England amano politici spendaccioni a New York, ma non a casa loro…
Ricordiamo anche famosi Governatori Repubblicani in California (Schwarzenegger) e a New York (George Pataki).
Sul fronte opposto il Kentucky non è un caso isolato: è democratica la Governatrice del Kansas, e lo era sino alla settimana scorsa il Governatore della Louisiana, due Stati dove Trump ha vinto e rivincerà comodamente.
Se le tasse basse spingono molti democratici a cambiare parrocchia localmente, la paura di restrizioni alle leggi sull’aborto ha lo stesso effetto su una frangia di elettori repubblicani.
Va notato che a livello locale il GOP sembra rivelarsi miglior amministratore rispetto ai democratici: tra i dieci Governatori più popolari degli States, infatti, sette sono repubblicani, mentre tra i dieci meno popolari sette sono democratici.
Un sano pragmatismo prevale dunque a livello locale: non però nella elezione dei Sindaci, dove, anche a causa della bassa partecipazione al voto, a far da padrone sono i sindacati dei dipendenti pubblici e la macchina clientelare delle amministrazioni comunali. Non per nulla, la popolarità dei Governatori è in media piuttosto elevata, mentre quella dei Sindaci modesta: si ricorderà il caso del newyorchese Bill De Blasio, proclamato inizialmente nuovo leader della sinistra mondiale e uscito mestamente di scena con un gradimento infimo persino tra gli elettori democratici e una subito abortita candidatura presidenziale.

Varese, 27 novembre 2023

Joe Biden ha conquistato la Nomination al terzo tentativo, come Hubert Humphrey e Ronald Reagan 

Candidato invano alla Nomination democratica sia nel 1988 che nel 2008, Joe Biden è riuscito come ben sappiamo nell’intento nel 2020.
Guardando ai trascorsi storici, vengono alla mente due suoi predecessori, tali specificamente perché a loro volta arrivati in porto la terza volta:
Hubert Humphrey e Ronald Reagan.
Il primo – come Biden democratico – ottenne l’investitura nel 1968 dopo avere fallito nel 1952 e nel 1960.
(Va ricordato che fu anche il Vice di Lyndon Johnson, proprio come Biden per Barack Obama).
Il secondo – repubblicano – aveva dovuto riporre le armi nel 1968 e nel 1976 prima di arrivare alla meta nel 1980.
Come tutti sanno, Humphrey, dopo tanto penare, fu sconfitto da Richard Nixon mentre Reagan riuscì a defenestrare Jimmy Carter.

Varese, 27 novembre 2023

L’irrimediabile (?) ferita inferta al ‘Dilemma di Madison’

In un sistema democratico – semplificandone al massimo il dire – il Padre della Patria USA e futuro Presidente James Madison riteneva – scrivendo ai tempi del ‘Federalist’ – necessario e indispensabile sia che la maggioranza espressa alle urne dagli elettori potesse governare, sia che le istanze delle minoranze fossero tenute in considerazione.
Difficile evidentemente ma essenziale mantenere l’impegno e il giusto equilibrio.
Talmente difficile che, dopo un lungo periodo storico nel quale le esigenze minoritarie sono state tenute in non cale, oggi non da oggi, prevalgono costantemente sul volere della predetta maggioranza.
È da qualche buon decennio infatti che, accusati bellamente di sopraffazione, i più sono obbligati a dare non solo voce ma obbedienza (non credo affatto di esagerare) ai meno.
Gli esempi, in gran numero volendoli elencare, sono sotto gli occhi di tutti.
Facendo in questo ambito ricorso al concetto di ingegneria sociale noto come ‘Finestra di Overton’, non si può non notare come appunto le minoranze, a tal fine operanti, siano riuscite a far sì – manipolando l’opinione pubblica con la violenza fisica oltre che con quella morale – che istanze un tempo semplicemente inaccettabili siano, seguendo i gradini nella ‘Finestra’ elencati, addirittura legalizzate e non sia più pensabile porle in discussione.
Così ‘ferito’ – a morte? – l’assunto madisoniano, ripiegando vie più nel timore di essere additati come fascisti (tutti gli oppositori lo sono!) quanti esprimono idee non ‘politicamente corrette’ e quindi ovviamente retrograde e vessatorie, siamo al ripiego della ‘sorda e dittatoriale’ maggioranza e al trionfo di qualsivoglia idea spacciata per negletta.
Invero, alla negazione della – tanto invocata da quanti si impongono sopraffacendo – Democrazia!

Varese, 27 novembre 2023

L’America Latina a memoria
Uno
Bolivia

con la partecipazione di
Gigliola Cinquetti
Dino Risi
Ugo Tognazzi
Antonio Josè de Sucre
Enrico della Porta Rodiani Carrara
Alcides Arguiles
Manuel Mariano Melgarejo Valencia,
un cameo di
Manuel Isidoro Belzu
e una apparizione sia di
Napoleone
che di
Bonaparte (?)

“Per come la vedo io, Napoleone è stato un Generale migliore di Bonaparte!”
Manuel Mariano Melgarejo Valencia

“Canzone di Gigliola Cinquetti”, leggo su Google nella riga che precede il torbido testo della magnifica ‘Creola’;
“Che bei fior carnosi
Son le donne dell’Havana
Hanno il sangue torrido
Come l’Ecuador
Fiori voluttuosi
Come coca boliviana
Chi di voi s’inebria
Ci ripete ognor
Creola
Dalla bruna aureola
Per pietà sorridimi
Che l’amor m’assal
Straziami
Ma di baci saziami
Mi tormenta l’anima
Uno strano mal
La lussuria passa
Come un vento turbinante
Che gli odor più perfidi
Reca ognor con sè
Ed i cuori squassa
Quella raffica fragrante
E inginocchia gli uomini
Sempre ai nostri piè
Creola
Dalla bruna aureola
Per pietà sorridimi
Che l’amor m’assal
Straziami
Ma di baci saziami
Mi tormenta l’anima
Uno strano mal”.

A parte che ‘Straziami, ma di baci saziami’ è stato un film di Dino Risi assolutamente delizioso nel quale il mio vecchio Amico riuscì perfino a far recitare un Ugo Tognazzi a ripetizione muto, Gigliola Cinquetti?
L’ho amata, devo confessarlo.
Non quando era una pupattola e diceva di non avere l’età.
Ben dopo, quando s’era mutata in ‘pupa’ eccome.
Ciò detto, ho sentito ‘Creola’ anche cantata a squarciagola da mia Madre ben prima che la veronese artisticamente s’appalesasse.

Stavo cercando il benedetto testo per quel particolare verso “come coca boliviana” che da ragazzino mi aveva catturato.
Dava l’idea sì del peccaminoso come gli altri, ma in particolare di un ‘altrove’ mica da ridere.
Fatto è che davvero la pianta della Coca è boliviana.
Fatto è che anche in ragione di ‘Creola’ la Bolivia mi ha sempre ammaliato.
E mi piaceva allora – ricordo – sapere che avesse due Capitali e che quella ‘vera’ e trascurata, perché La Paz (nonno Enrico raccontava di quando sbarcati in un gruppo da un aereo lassù tutti lui escluso fossero caduti a terra svenuti per via dell’altitudine) è un nome più romantico, fosse Sucre.
Che vuol dire ‘zucchero’ ma che non deriva dal dolcificante se non in seconda battuta visto che Antonio José de Sucre è stato nientemeno che l’eroe di Ayacucho!

Ho messo dopo Ayacucho un punto esclamativo e dovevo metterne trenta.
Fu difatti in quella località invero peruviana che gli spagnoli colonialisti combatterono, perdendo dalle forze indipendentiste guidate dal Nostro predetto, la loro ultima battaglia nel continente americano meridionale.

Fosse tutto qui.
In Bolivia si colloca Oruro e il riferimento che qui viene – ovviamente pensando per collegamento come fra poco esporrò al peggior possibile ‘caudillo barbaro’ (tutt’altro, e lo ripeterò, dal ‘letrado’, ha insegnato il boliviano Alcides Arguedas) – anni dopo mi ha fatto scrivere nientemeno che
“Allora, hai deciso di soccorrere la Francia.
È attaccata dalla Prussia e tu, senza sapere bene dove si collochi geograficamente, adori Parigi.
Sei il Presidente della Bolivia e del fatto che non avendo il tuo Paese sbocchi sull’Oceano dovrai far passare le truppe nella foresta amazzonica brasiliana non ti importa nulla.
Come non ti preoccupi affatto di come e in qual modo farai loro traversare l’Atlantico.
Metti in gioco un esercito di tremila uomini e l’unica raccomandazione che fai loro è di stare attenti a non bagnare le armi e le munizioni con l’acqua oceanica.
E al dunque vai ad Oruro.
Vai nella città più alta del mondo con i suoi tremilasettecento metri sul livello del mare.
Ad ispirarti?
E ti rompi un piede.
E ti va bene perché una volta guarito apprendi che Parigi è caduta e che il tuo intervento sarebbe vano.
Ti arrabbi ma non puoi che desistere.
Peccato, sarebbe stata una bella storia quella della traversata amazzonica.
Sarebbe stato interessante vedere come e in qual modo con i tuoi uomini avresti varcato l’Atlantico.
A nuoto?
Sarebbe stato eccezionale, unico, un confronto armato tra boliviani e prussiani.
Sei Mariano Melgarejo, il vero ‘caudillo barbaro’ – tutt’affatto diverso da un ‘letrado’ – secondo la definizione di Alcides Arguedas.
Sei capace di prendere la vita di petto e l’hai dimostrato mille volte.
Strappando il potere con la forza.
Eliminando Manuel Belzu, esponendone il corpo dal balcone del palazzo presidenziale e chiedendo alla folla sotto radunata “Chi vive se Belzu è morto” per sentirti rispondere “Larga vida a Melgarejo”.
Combattendo sempre e dovunque.
Cadrai.
Infine.
In esilio.
Ma solo le pallottole di un attentatore ti fermeranno.
A Lima.
Sotto la casa della tua (tra le tante, la preferita) amante.
‘Quel hombre y que pais vertical.
Ovaciones!’.

(Chiedendo scusa ai boliviani, chissà)

Varese, 26 novembre 2023

Le ‘Figure’ relative agli anni elettorali americani

La ‘figura’ è il numero compreso tra uno (1) e nove (9) al quale è riconducibile qualsiasi altro numero, per quanti termini lo compongano, zero (0) escluso.
Orbene, ovviamente, così è anche guardando alle date degli anni elettorali americani che – lo ricordiamo – dalla seconda evenienza del 1792 (la prima, 1788/1789, è del tutto anomala e non è qui da considerare) – per quanto il Gregoriano non consideri tali il 1800 e il 1900 perché non divisibili per quattrocento – corrispondono ai bisestili.
In questo specifico ambito, la sequenza delle ‘figure’, a declinare da 2024 (sono in programma per allora le prossime votazioni in merito) a 1992 (la nona appunto scendendo, dato che – lo si è detto – nove sono le ‘figure’) si ripete costantemente ed è:
8, 4, 9, 5, 1, 6, 2, 7, 3.
(Naturalmente, salendo da 1992 a 2024, l’ordine è invertito:
3, 7, 2, 6, 1, 5, 9, 4, 8.)
Più chiaramente:
2024 è 2 più 2 più 4 uguale 8
2020, 2 più 2 uguale 4
2016, 2 più 1 più 6 uguale 9
2012, 2 più 1 più 2 uguale 5
2008, 2 più 8 uguale 10 e poi 1 più 0 uguale 1
2004, 2 più 4 uguale 6
2000, uguale a 2
1996, 1 più 9 più 9 più 6 uguale a 25 da cui 2 più 5 uguale a 7
1992, 1 più 9 più 9 più 2 uguale a 21 dove 2 più 1 è uguale a 3.
Altrettanto – si ribadisce – riguardo a tutte le date nell’ordine decrescente seguenti fino ad arrivare all’indicato 1792 che sommando 1, 7, 9 e 2, è pari a 19, laddove 1 più 9 dà 10 e infine 1 più 0 è uguale a 1.
‘Corretto’ che, partendo dalla prima volta, la serie delle ‘figure’ – che da qui a salire è
1, 5, 9, 4, 8, 3, 7, 2, 6 –
sia inaugurata proprio dall’uno (1).
Ci si chiede se alla determinazione della data annuale iniziale tale considerazione abbia in qualche modo contribuito.

Varese, 26 novembre 2023

Pio IX in America!

Corre il 1823 – duecento anni orsono – e un poco più che trentenne sacerdote a nome Giovanni Maria Mastai-Ferretti salpa per l’America al seguito del delegato apostolico in Cile Giovanni Muzi.
Il vascello – sul quale leggenda vuole operasse un giovanissimo marinaio di nome Giuseppe Garibaldi – farà una lunga sosta negli Stati Uniti.
Si può quindi sostenere che il primo Papa ad avere mai attraversato l’Atlantico visitando sia pure di sfuggita gli USA sia stato il futuro Pio IX!

Varese, 26 novembre 2023

Lettura

Il futuro della razza negli Stati Uniti d’America
Argomentazioni, problemi, rilevazioni, apparenze, prospettive, realtà, opinioni…
Interventi in merito a firma  
Scott Rasmussen,
tra i massimi analisti politici americani,
ricevuti e raccolti nel periodo aprile/maggio del 2021
Uno:
Stiamo fraintendendo il futuro della razza in America
(19 aprile 2021)

Negli ultimi anni, il tema della razza in America è balzato in superficie più che mai dai tempi del movimento per i diritti civili degli anni Sessanta.
Molti articoli di giornale parlano della differenza tra americani bianchi e “persone di colore”.
L’implicazione è che le persone siano da una parte o dall’altra tragicamente lontane.
La saggezza convenzionale ha assorbito l’idea che gli Stati Uniti diventeranno una nazione a “maggioranza minoritaria” in un futuro relativamente prossimo.
Intorno al 2040, le “persone di colore” saranno più numerose dei bianchi.
Per alcuni, questo è un pensiero spaventoso.
Per altri, l’immagine di un giorno in cui gli americani non bianchi potranno rovesciare la situazione e mostrare all’attuale maggioranza come vive l’altra metà.
Tuttavia, un nuovo importante libro di Richard Alba suggerisce che l’intera narrativa sulla razza sia sbagliata.
Alba è un distinto professore di sociologia al Graduate Center, City University of New York.
Il suo libro si intitola ‘La grande illusione demografica: Majority, Minority, and the Expanding American Mainstream’.
Alba sostiene che sia i dati del censimento che la comprensione popolare della razza sono fondamentalmente errati.
Al centro del problema c’è “un robusto sviluppo che in gran parte non è stato annunciato: un’impennata nel numero di giovani americani che provengono da famiglie miste di maggioranza e minoranza”.
Essi “hanno un genitore bianco e uno non bianco o ispanico”.
Attualmente, circa una nascita su dieci negli Stati Uniti proviene da questo tipo di parentela.
E quel numero continuerà a crescere perché quasi uno su cinque nuovi matrimoni attraversa le linee razziali o etniche.
Perché questo è importante?
In primo luogo, perché il Census Bureau conta chiunque abbia una parentela mista come non bianco.
Questo è un cambiamento rispetto alle pratiche precedenti.
Prima del 1980, per esempio, le persone di origine messicana erano contate come bianche dal Census Bureau.
Ora sono contate come non bianche.
Oggi, più di cinquanta milioni di americani di origine ispanica descrivono la loro razza come bianca.
Considerando questa e altre questioni, la revisione di Alba dei dati del Census Bureau conclude che la realtà di una nazione a maggioranza minoritaria è molto più lontana di quanto comunemente inteso.
In effetti, potrebbe non arrivare mai.
Ma c’è di più nella storia.
Su un punto, l’idea stessa che le identità razziali ed etniche siano rigide e inflessibili è sbagliata.
Il sei per cento delle persone che hanno risposto al questionario del censimento del 2020 ha dato risposte razziali o etniche diverse da quelle del 2010.
Questo accade per varie ragioni, incluso il fatto che molte famiglie immigrate di seconda e terza generazione iniziano a vedersi come più ‘americane’ che altro.
Forse la cosa più importante che Alba fa notare è che quelli di discendenza mista hanno esperienze sociali e culturali molto diverse.
Mentre il Census Bureau li definisce come minoranze, la maggior parte di coloro che provengono da genitori misti si impegnano principalmente con quella che sarebbe ampiamente definita come società bianca.
Se la società fosse semplicemente divisa in categorie di bianchi e persone di colore, molti di questi americani di origine mista si vedrebbero sul lato bianco del grande divario.
Ad aggiungere confusione è il modo in cui vediamo la nostra storia.
Ci guardiamo indietro e vediamo una nazione dominata da un gruppo omogeneo di bianchi.
Tuttavia, coloro che hanno vissuto gran parte delle nostre vicende non avrebbero mai pensato che fosse così.
Per fare solo un esempio, un secolo fa i cattolici italiani e polacchi, insieme agli ebrei dell’Europa orientale, erano visti come una minaccia per molti americani bianchi.
Oggi sono visti come parte della maggioranza bianca.
Così, quando guardiamo indietro dall’anno 2021, tendiamo a visualizzare una popolazione più omogenea di quella realmente esistita.
Quando guardiamo in avanti, vediamo una divisione razziale più rigidamente definita di quella esistente.
In entrambi i casi, ciò che ci manca è la storia dell’America.
La vera storia dell’America è una nazione con un mainstream in espansione e sempre più inclusivo.
Questo mainstream è guidato da un desiderio condiviso di far sì che gli Stati Uniti si avvicinino a vivere i propri ideali fondatori di libertà, uguaglianza e autogoverno.

Due:
La storia del patrimonio razziale ed etnico dell’America è complessa
(27 aprile 2021)

La settimana scorsa ho dato un’occhiata ai numeri che stanno dietro al tema della razza in America.
La realtà è che la nostra società non è ordinatamente divisa in categorie razziali facili da definire.
Al contrario, la vera storia dell’America è una nazione con un mainstream in espansione e sempre più inclusivo.
Questo mainstream è guidato da un desiderio condiviso di avere gli Stati Uniti più vicini a vivere i loro ideali fondatori di libertà, uguaglianza e autogoverno.
Gran parte della rubrica della scorsa settimana è stata costruita su un nuovo importante libro di Richard Alba, ‘La grande illusione demografica: Majority, Minority, and the Expanding American Mainstream’.
Ha richiamato l’attenzione sul crescente numero di americani di razza mista.
Un adulto su dieci oggi ha un genitore bianco e uno non bianco.
Questa settimana, attingo ad alcuni dati di un mio sondaggio per guardare l’argomento da una diversa angolazione.
L’indagine ha scoperto che il sessantacinque per cento degli elettori ispanici identificano la loro razza come bianca.
Questa non è una scelta di uno o dell’altro.
È un’identità razziale ed etnica mista.
Ma anche questo comincia solo a raccontare la storia.
Gli elettori ispanici i cui genitori sono nati entrambi negli Stati Uniti tendono ad avere prospettive diverse da quelli con almeno un genitore immigrato di prima generazione.
Considerate, per esempio, le risposte alla mia domanda generica sul voto al Congresso.
È quando chiediamo agli elettori se voterebbero per il repubblicano del loro distretto o per il democratico.
Serve come misura di base dell’umore politico della nazione.
Attualmente, i miei numeri mostrano i Democratici con un vantaggio di quattro punti sulla scheda generica: quarantatre a trentanove.
Gli elettori ispanici nel complesso favoriscono i democratici con un margine molto più ampio: quarantasei a trentasei.
Ma i numeri sono drammaticamente diversi per gli elettori ispanici i cui genitori sono entrambi nati negli Stati Uniti.
Questi elettori favoriscono i repubblicani con un margine di dieci punti: quarantasette a trentasette.
Tra tutti gli altri elettori ispanici, i democratici sono preferiti con un enorme margine: cinquantacinque a ventisei.
Questi risultati potrebbero essere spiegati da una tra due teorie.
La prima è che i nuovi elettori ispanici sono semplicemente diversi da quelli che venuti prima.
Se questo è vero, allora i Democratici beneficeranno fortemente di più immigrati ispanici.
Ma c’è anche una seconda possibilità.
Può essere che gli elettori ispanici di seconda e terza generazione comincino a identificarsi maggiormente con il Paese di nascita piuttosto che con quello della loro eredità etnica.
Ci sono molti altri dati di ricerca che supportano questa spiegazione.
E si adatta all’esperienza americana.
C’è stato un tempo in cui irlandesi, italiani, polacchi e altri immigrati erano considerati separati dalla corrente principale americana.
Questo accadeva molto tempo fa.
Ora, sono diventati parte di un mainstream in continua crescita.
Infine, c’è un’altra domanda nel mio recente sondaggio che mostra quanto possano essere fluide le definizioni di razza ed etnia.
Ho chiesto alle persone quale categoria razziale o etnica li definisce meglio.
Ma l’ho fatto con un colpo di scena.
Ho aggiunto ‘americano’ come una delle possibilità.
Con questa opzione, il quarantasette per cento  degli elettori si è identificato come bianco e il trentatre come americano.
Tra gli elettori ispanici, il trentasette si è definito come americano e il ventinove come bianco.
Il punto di tutto questo è che la storia dell’eredità razziale ed etnica dell’America è complessa.
Guardando al futuro, questo significa che probabilmente vedremo un crescente offuscamento dei confini tra le razze e una maggiore attenzione agli individui piuttosto che alla loro razza.
È un futuro che sarebbe piaciuto al Rev. Dr. Martin Luther King, Jr.
E sarà un futuro luminoso per i nostri figli e nipoti.

Tre:
Capire la razza in America: Costruire un mainstream più ampio e inclusivo
(2 maggio 2021)

Nelle ultime due settimane, ho esplorato i dati che evidenziano la complessità del patrimonio razziale ed etnico dell’America.
Le linee sono molto più sfocate di quanto sia generalmente riconosciuto nel dialogo pubblico.
Ci sono due ragioni principali per questo.
Una è il numero crescente di americani che hanno un’eredità razziale ed etnica mista.
Il mio sondaggio più recente ha trovato che il diciassette per cento degli elettori dichiara almeno due origini razziali ed etniche nella propria storia familiare.
I più comuni sono i bianchi di origine ispanica.
Secondo il Census Bureau, ci sono più di cinquanta milioni di residenti di questo tipo nel Paese oggi.
La seconda ragione è che l’identità razziale è fluida, piuttosto che fissa.
I dati citati da Richard Alba in ‘The Great Demographic Illusion’ mostrano che circa il sei per cento degli americani ha riportato il proprio background razziale o etnico in modi differenti nei diversi rapporti del censimento.
La mia ricerca personale ha confermato che anche piccole differenze nella formulazione delle domande sulla razza e l’etnia possono generare risultati diversi.
Lo scorso fine settimana, ho chiesto agli elettori quale categoria “descrive meglio come definiresti la tua eredità razziale ed etnica”.
Una delle opzioni date era ‘americana’ e il trentanove per cento dei votanti ha detto che era l’etichetta che avrebbe scelto.
Un altro trentanove ha detto bianco, il dieci ha detto nero, il cinque ispanico, il tre asiatico e il quattro ha detto altro.
Quelli che hanno scelto altro hanno dato risposte come nativo americano, umano, ungherese, iraniano, latino e mediorientale.
Guardando un po’ più a fondo negli sfondi demografici abbiamo trovato alcune dinamiche interessanti.
In primo luogo, c’è un sostanziale divario generazionale.
Tra gli americani dai quarantacinque anni in su, il quarantanove per cento dice che americano è il termine migliore per definire la propria eredità razziale ed etnica.
Tra gli elettori più giovani dei quarantacinque anni, solo il ventiquattro per cento ha scelto questa etichetta.
Inoltre, c’è anche una divisione partitica.
Tra i repubblicani, il cinquantuno per cento definirebbe la propria eredità come americana.
Lo stesso farebbe il quarantadue degli elettori indipendenti.
Tuttavia, solo il venticinque dei democratici è d’accordo.
Guardando il divario da una prospettiva diversa, i democratici sono molto più propensi a identificarsi come bianchi piuttosto che americani.
L’opposto è vero per i repubblicani e gli indipendenti.
Forse i dati più interessanti, tuttavia, si trovano lungo le linee razziali ed etniche.
Tra gli elettori che sarebbero definiti come neri dal Census Bureau, il settantaquattro per cento ha scelto i neri come migliore definizione del loro patrimonio.
Questo è vero per tutti gli elettori neri e per gli elettori neri i cui genitori sono nati negli Stati Uniti.
La dinamica è molto diversa tra coloro che sarebbero definiti ispanici dal Census Bureau.
Solo il quaranta per cento di questi elettori dice che ispanico è la migliore definizione del loro lignaggio.
Un numero leggermente maggiore – il quarantatre – dice che si descriverebbe come americano (ventidue) o bianco (ventuno).
La settimana scorsa ho notato che c’erano significative differenze politiche tra gli elettori di origine ispanica a seconda del luogo di nascita dei loro genitori.
C’è anche una differenza significativa in termini di identità.
– Tra gli elettori ispanici i cui genitori sono nati negli Stati Uniti, il cinquantaquattro per cento si definisce o americano (ventitre) o bianco (trentuno).
Solo il trentacinque si è definito ispanico.
– Tra gli altri elettori ispanici, quelli con almeno un genitore nato fuori dal Paese, solo il trenta per cento si è identificato come americano (ventuno) o bianco (nove).
Quasi la metà di questi elettori – il quarantasette per cento – dice che ispanico è la migliore definizione del loro patrimonio.
I numeri suggeriscono, nelle parole di Richard Alba, che ‘L’attuale narrazione dominante, quella della nazione a maggioranza minoritaria, è profondamente problematica’.
Nel suo libro, Alba dice che i problemi non derivano ‘solo per questioni di accuratezza’.
Crede che una tale narrazione dominante e imprecisa ‘è intrinsecamente divisiva’.
Al suo posto Alba offre una prospettiva diversa, basata su un’attenta revisione dei dati e della storia della nostra nazione.
Dal suo punto di vista, ‘l’assimilazione in un mainstream in espansione e sempre più inclusivo offre un modo superiore di comprendere’ i cambiamenti che avvengono oggi nella nostra società.

Varese, 26 novembre 2023

‘Winner takes all method assoluto’
‘Winner takes all method relativo’: quando?, come?, dove?, perché?

1) Winner takes all method assoluto
– Allora, quarantotto Stati USA (Maine e Nebraska esclusi) più il Distretto di Columbia – dal 1848 allorquando si cominciò a votare per la bisogna “il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno bisestile”, ciascuno di loro a seconda del momento d’entrata nell’Unione partecipando al voto – scelgono i loro Elettori (iniziale maiuscola per distinguerli dai comuni, lo ripeteremo sempre) con il ‘winner takes all method assoluto’.
(Va altresì ripetuto – non solo qui ma all’infinito – che l’elezione del Presidente degli Stati Uniti d’America non è di ‘primo grado’ – il popolo non lo vota direttamente – ma ‘di secondo’, spettando la nomina, nel Collegio che costituiscono, ai predetti Elettori “il primo lunedì dopo il secondo mercoledì del successivo mese di dicembre”, salvo il caso straordinario – avvenne nel 1824 – che nessun candidato raggiunga la maggioranza assoluta nel citato Collegio e l’incombenza passi alla Camera dei Rappresentanti).
Ebbene, il ‘winner takes all method assoluto’ prevede che il candidato che in uno Stato ottenga anche un solo voto popolare in più del rivale conquisti tutti (tutti) gli Elettori (come notificati in un apposito elenco) ai quali il medesimo Stato ha diritto.
Ora, dalla votazione del 1964, i pluricitati membri del Collegio sono cinquecentotrentotto (pari alla totalità dei Congressisti – Senatori e Rappresentanti – con l’aggiunta dei tre che spettano al Distretto di Columbia) e pertanto la maggioranza assoluta è fissata a duecentosettanta.
La distribuzione degli stessi è proporzionalmente corrispondente al numero degli abitanti degli Stati (stando ai risultati dei Censimenti che hanno luogo ogni dieci anni quando la finale è zero) e ogni delegazione statale è pari al totale dei Congressisti ai quali ha diritto.
È l’applicazione del ‘winner takes all method assoluto’ Stato per Stato che porta a volte (cinque finora) alla vittoria per Elettori – l’unica che conti – di un candidato invece soccombente per voti popolari a livello nazionale.
Parlando, per meglio capirci, delle elezioni 2016, Hillary Rodham Clinton ha vinto su Donald Trump in California per quasi cinque milioni di voti popolari, conquistando pertanto gli allora cinquantacinque spettanti Elettori che avrebbe ottenuto anche se avesse raccolto solo, per dire, cinquecento suffragi in più.
Donald Trump ha strappato ai democratici il Michigan, il Wisconsin e la Pennsylvania – quarantasei Elettori complessivamente – per poche migliaia di voti
ciascuno.

Accade ultimamente che i votanti per il Partito Democratico aumentino ma negli Stati ‘sbagliati’ – quali   il predetto Golden State – dove elettoralmente non servono.

Ricorrentemente, si parla di mutare il sistema per far prevalere il voto popolare a livello nazionale.
Occorrerebbe un Emendamento costituzionale che per entrare in vigore deve essere approvato dalla maggioranza qualificata dei due rami del Congresso e poi ratificato dai tre quarti degli Stati (praticamente da trentotto su cinquanta).
Impossibile.

Nota bene:
il Maine e il Nebraska hanno deciso di usare un diverso sistema dividendo il loro territorio in circoscrizioni.
La competenza in merito è difatti degli Stati e non federale.

2) ‘Winner takes all relativo’
– Il ‘Winner takes all method relativo’, – non in uso nelle votazioni presidenziali delle quali si è parlato ora – si distingue dall’assoluto perché, ove sia utilizzato, i delegati (serve spesso, anche in alternativa all’altro, in campo repubblicano per l’attribuzione appunto dei delegati alle Convention) sono tutti assegnati al vincitore solo se supera il cinquanta per cento dei suffragi (nell’assoluto basta una maggioranza anche inferiore).
Nel caso in cui il primo classificato non arrivi a tanto i delegati vengono attribuiti in proporzione ai voti ricevuti.

Varese, 26 novembre 2023

Thomas Hendricks: “stolen”?

Thomas Hendricks, Vice designato nel ticket democratico del 1876 al fianco di Samuel Tilden.
Vicenda elettorale particolare, quella che lo riguarda.
È difatti la campagna predetta la prima che si conclude con un voto popolare favorevole ad una parte (la sua) e con uno schieramento di Elettori (iniziale maiuscola per distinguerli dai comuni) di contro a maggioranza contrari.
Vince ma perde, insomma.
Trascorsi due mandati, nel 1884 è nuovamente candidato alla funzione vicaria, questa volta con Grover Cleveland.
Prevalgono e si insedia il 4 marzo 1885.
Poco più di otto mesi e muore improvvisamente nel sonno.
Resta quindi il primo candidato Vice ‘stolen’ (‘derubato’, come non pochi lo definirono con Tilden) ed altresì tra coloro che hanno esercitato il ruolo per il quale erano dipoi stati eletti per decisamente poco tempo.
(Peraltro, dai due punti di vista, battuto almeno da John Tyler – subentrato alla Presidenza nel 1841 dopo un mese a causa della morte di William Harrison – e da William King, in carica nel 1853 per soli quarantaquattro giorni e dipoi passato a miglior vita).

Varese, 26 novembre 2023

‘Founding Fathers’

I ‘Padri fondatori’
(Founding Fathers’).
Magnifica espressione che penseresti coniata e in uso da subito o quasi.
È invece pronunciata a Chicago per la prima volta nella Convention del 1916 del Partito Repubblicano dal futuro Presidente Warren Harding (verrà eletto quattro anni dopo) nel discorso inaugurale.
Thomas Jefferson, parlando degli stessi – tra i quali ovviamente va collocato in prima fila – con cognizione di causa, aveva sostenuto fossero “Cinquanta semidei”.
Fra loro, da ricordare almeno John Adams, Benjamin Franklin, Alexander Hamilton, John Jay, James Madison e assolutamente George Washington!

Varese, 25 novembre 2023

Correva il 22 ottobre 2020 quando chiesi ad alcuni amici di scrivere senza riflettere le parole che passavano loro per la testa sentendo dire “Stati Uniti d’America”.
Ecco le cinquantasette risposte allora ricevute:

“Spazi sconfinati, grand canyon, grattacieli, libertà e liberismo sfrenato, bella gente, tutto pubblicato e diaponibile, spacconate e esagerazioni, miglior paese per viverci …. dopo la Svizzera”,
Guido Martinoli.

“Libertà, democrazia, multietnica, ascensore sociale, pluralismo, etica, forza, federalismo, creatività”,
Cesare San Mauro

“Scriverei di NYC, con Broadway e il Madison Square Garden.
Scriverei di Washington con la Casa Bianca, il suo fascino e i suoi misteri.
Scriverei di Hollywood, del mito che ha creato, del soft power esercitato nel mondo.
Scriverei di Marylin, icona eterna di fascino.
Così, ecco, senza riflettere”,
Mauro Mazza

“Orizzonti”,
Linda Terziroli

“Un circo stanco”,
Geminello Alvi

“Un uomo con testa e cuore da bambino”,
Robertino Ghiringhelli

“Libertà e possibilità”,
Raffaella Tosi

“La seconda guerra civile incombe!”,
Maurizio Cabona

“La spensieratezza di bambino, quando l’America mi entrava in casa con la fiaba reale della sua storia. La raccontavano i giochi. Poi vennero i libri.
Infine i giornali.
Che cominciarono a copiare, sia pure in scala ridotta, i libri”,
Massimo Lodi

“In questo momento mi suscitano una grande preoccupazione: che il sogno di libertà,  giustizia, progresso umano e sociale insito negli States da quando sono nati, si infranga contro lo strapotere del capitalismo più bieco.
È un pericolo reale, quasi palpabile”,
Riccardo Prando

“Scriverei che è un Paese pieno di contraddizioni e che oggi a differenza di un cinquantennio fa non ha più né la leadership etica, né quella economica, ma solo finanziaria e che è il luogo dove le disuguaglianze sono più accentuate.
Il sogno americano si è spento”,
Luigi Pastore

“Libertà, Dio, Prateria, Frontiera, West, Jazz, Hollywood, Grattacieli, Italoamericani, Silicon Valley, Baseball”,
Vincenzo Sansonetti

“Se penso agli USA mi vengono in mente gli intellettuali, artisti e architetti europei fuggiti dall’Europa per continuare a coltivare i loro sogni in tempi di guerra.
Ma penso anche a quei poveretti che oggi non hanno assistenza sanitaria e se la passano male.
Là si è un po’ costretti a giocare al gioco estremo del capitalismo, altrimenti sei un drop out.
Perdonami la banalità degli argomenti. Io sto con Rachel Carson e June Jordan”,
Katia Accossato

“Stelle, libertà, competizione, eccesso, violenza, bibbia, arizona, forza, capitalismo, saguaro, solitudine, tramonti”,
Mara Gergolet

“Libertà
Spirito di iniziativa
Disuguaglianza
Basket
Nasa
Internet
Università”,
Paolo Orrigoni

“Libertà”,
Mauro Suttora

“Il mito della mia giovinezza oggi disintegrato”,
Doriana Giudici

“Easy, my friend.
America?
My youth, my books, my music, my wives, my son, my generation, the right side of my brain… my other self”
Andrea Monti

“Pick up, Route 66, Sulla strada, Lolita nel giardino con Humbert che la guarda, un carretto rosso trainato da bambini che vendono limonata ai vicini, le stelle a Sunset Boulevard, surfisti sulle note dei Beach Boys, gli Hamptons, alcune immagini di Kennedy e Jackie, le ali di pollo, il rosa di Miami, il piano degli espressionisti al Moma, un giro in carrozza a NY, il finale di Come eravamo, la panchina del film Manhattan, l’espressione di Bruce Springsteen in Born to Run”,
Federica della Porta Raffo

“Le torri gemelle,  potenza , prepotenza,  Kennedy, Reagan,  Obama,  Trump”,
Renato Soma

“Con Trump la svolta per l’umanità… se Dio vuole”,
Francesca Del Nero

“Mauro della Porta Raffo”,
Elisabetta Trinci

“In una parola ‘Vastità’.
Vastità degli spazi e del paesaggio, ovviamente delle metropoli (che mi attraggono di meno) e delle case in periferia (che mi attraggono di più): a quanto si vede nei film villette ampie dentro e fuori decisamente più vivibili dei condomini italiani e con sufficiente distanza tra i vicini. Infine vastità “selvaggia”: i ranch e ovviamente i pellerossa o quel che ne resta…
Forse è una descrizione un po’ idealizzata, ma non sono mai stato oltreoceano”,
Stefano Chiappalone

“Siamo arrivati inseguendo il sogno americano / ci ha inghiottito una sterminata periferia / non importa, per tutti Kentucky fried chicken”,
Alfredo Tocchi

“Purtroppo si stanno suicidando come nazione per un eccesso di permissivismo pseudo-democratico e di imbastardimento etnico-razziale”,
Leonardo Bellanca

“La prima cosa che mi viene in mente se mi dici USA è ipocrisia”,
Lorenzo Bellei Mussini

“Stati Uniti d’Europa”,
Massimo Gaudina

“Ricerca della libertà”,
Cristiano Parafioriti

“Film western”,
Gianfranco Bechini

“Complessità”,
Rino Cammilleri

“Libertà”, Flavia Massarini

“È una domanda tanto interessante da porsi quanto difficile può essere la risposta…
Se penso agli Stati Uniti d’America la cosa che d’acchito mi viene in mente è la Mayflower, forse perché la considero ingenuamente la prima tappa della loro lunga, anche se non troppo, storia.
Poi mi sopraggiunge la figura di Benjamin Franklin come pensatore poliedrico e geniale, dal momento che mi aveva incuriosito un approfondimento che aveva fatto l’anno scorso al Liceo su di lui.
Per aggiungere ancora qualcosa direi gli avvicendamenti politici e sociali dal secondo dopoguerra in poi: le grandi battaglie elettorali, Woodstock, il Watergate, il 9/11, il curioso aneddoto di Stevenson sull’intelligenza degli elettori e così via.
Da dire ci sarebbe ancora tanto, già solo sul loro sistema elettorale – tu insegni – si possono scrivere diversi tomi.
Però questo è quello che direi se qualcuno mi chiedesse cosa evocano in me gli Stati Uniti d’America”,
Andrea Boldrini

“Distanze infinite e Chevrolet Corvette”,
Franco Arnaldi

“Libertà. Nostri liberatori. Alleati”,
Gigi Moncalvo

“Preferisco l’Australia.
I love Sydney.
Ma forse sono un ‘paesano’,
Marco Font

“Libertà, democrazia e sviluppo economico”,
Bruno Dapei

“Taxi Driver, il primo film che mi fecero vedere al DAMS, la sigla di Happy Days che alle 19.20 in punto faceva per una manciata di minuti da colonna sonora alla cena, Charles Bukowski, La leggenda del pianista sull’oceano, la sceneggiatura di The Million Dollar Hotel di Wim Wenders, le musiche di Morricone in C’era una volta in America, la mia vicina di casa che mentre prendo l’ascensore esce sul pianerottolo e grida “stanno attaccando l’America” (11 settembre), Sotto le stelle del  Jazz di Paolo Conte”,
Gianluca Mattei

“Recessione”,
Antonio Giordano

“Potenza, guerra, primati, innovazione, futuro, grandi orizzonti, potere, sopraffazione, muri, violenza, razzismo, libertà , contraddizioni, tutto è il contrario di tutto… Sodoma e Gomorra”,
Silvia Priori

“È un Paese nel quale non vivrei.
Tutto troppo.
Nella proposta, nella mutazione”,
Lucia Russo

“Declino. Vertiginoso declino iniziato con la presidenza di Trump ma che in realtà riflette quasi tutto il mondo anglosassone e non. Trovo che i ‘nobili’ ideali degli USA che un tempo facevano da benchmark ormai non esistono più. E invece la voce è stata data alla sua parte peggiore. Ma non è solo perché hanno trovato in Trump un supporto (visto che ingegnosamente Trump si è modellato a loro piacimento), la ragione principale del declino generale è dei giganti informatici (come li ha chiamati lei), dei loro algoritmi che nutrono le persone di informazione tailor made e che di conseguenza sta creando un mondo sempre più polarizzato. Insieme all’impegno per invertire il cambiamento climatico, occorre urgentemente una regolamentazione del web e dei suoi players. Saranno gli USA a guidare quest’impresa?”,
Anna Bisazza

“Se devo rispondere senza riflettere .. per vocaboli direi: bandiera, dollaro, terra,  grandi spazi,  agricoltura, terra, parchi, grandi citta’, strade, luogo di tante razze che convivono , ma non amalgamate, tecnologia, ricchezza, ricerca, innovazione,  progresso, regole da rispettare, opportunità, criminalità diffusa, polizia”,
Tiziana Bortot

“Nazione delle opportunità. Invasori nascosti dietro alla bandiera della Democrazia. Sguaiati farfalloni. Scopritori di cervelli a cui sanno dare le giuste opportunità”,
Alberto Crippa

“Un sogno dal ’45 . . . Accidenti si sta incrinando . . .”,
Enrico Beruschi

“Il Mondo nero e non  tra musica jazz e pallacanestro, le grandi praterie, la letteratura, le avanguardie artistiche, la democrazia, la segregazione dei nativi, il complesso di superiorità politica internazionale, una grande potenza militare, la camicia azzurra della marina, i jeans, il Montgomery, i grandi cantanti, i grandi spazi, le grandi tormente, gli oceani, il Vietnam e le proteste contro quella guerra, i residuati bellici (soprattutto abbigliamento, tende da campeggio, borse per la scuola, l’eskimo, ecc.ecc.) che venivano venduti da noi a Genova, Livorno e anche a Malnate…”,
Carlo Meazza

“Prima cosa Piano Marhall.poi democrazia fin troppo esasperante a seguire il razzismo nei confronti di una popolazione nera che ha raggiunto un numero di abitanti ed un potere incredibile..
avrei degli aneddoti in proposito,un’altra volta de visu.
Bomba atomica che ha posto fine alla seconda guerra mondiale,per fortuna!
Alleati nel bene e nel male nel condurci al boom economico.
Un grande senso di protettori della democrazia nel mondo…con conseguenti azioni che li hanno portati a volte ad incasinarsi mica da ridere.
Mi fermo perche’ non voglio tediarti”,
Umberto Ermolli

“Stati Uniti?
Non li conosco per cui le loro immagini improvvise sono quelle della violenza, del degrado , della morte violenta che mi derivano dal cinema. Poi arrivano immagini di presidenti saggi, di figure rassicuranti antiche, di fatti curiosi di storia che nascono dai ricchi racconti di Mauro della Porta. Tutto è un misto di sgomento e fascino”,
Irene Di Paola

“Reagan, come uomo e come Presidente!”,
Giuseppe Fezzardi

“I Kennedy!”,
Ambrogina Zanzi

“Speriamo che tengano.
Altrimenti sarà crisi globale”,
Gianfranco Gattoni

“Texas”, Andrea Mascetti

“Paperino… Indiani…”,
Renzo Biella

“Libertà, rispetto per la privacy, grandi possibilità di concretizzare le proprie competenze professionali, sufficiente presenza delle istituzioni al fianco dei cittadini, sistema giudiziario farraginoso ed eccessivamente permeato dal potere discrezionale del singolo magistrato (anche se, fortunatamente, il civil Law sta aprendo brecce), criminalità sempre meno contenibile, corruzione politica ed indottrinamento forzato dei giovani nelle università controllate dalle sinistre, sistema sanitario snello come un capodoglio…”,
Paolo Celli

“Libertà, grandi spazi, calamità, grandi possibilità…”,
Susanna Primavera

“In positivo : l’armoniosa bellezza delle principali architetture istituzionali.
In negativo : lo sterminio dei nativi”,
Enzo Tosi

“Realtà complessa”,
Gianni Barbacetto

“In questo momento sono felice di essere Italiana”,
Mirna Aimetti

Varese, 25 novembre 2023

Quando del tema elezioni americane tratta, naturalmente seguendo una propria visione, una ‘vera’ grande firma:
Giovanni Spadolini
del quale tratto – altresì arrivando a parlare della Maga di Firenze! – per poche ma significative frequentazioni personali

Credo sia qui opportuno (necessario) riportare la parte conclusiva delle argomentazioni vergate nel 1980 da uno dei pochi ‘grandi’ del giornalismo, Giovanni Spadolini.
Si occupa da par suo del confronto Carter/Reagan.
Corre il 10 novembre e La Stampa pubblica ‘L’America di Carter e quella di Reagan’.
Ecco:

“A distanza di quattro anni dall’elezione di Carter, una certa immagine dell’America è completamente cambiata, tutte le speranze di allora si sono dissolte o vanificate. L’avvento di Carter volle dire il rilancio di una certa America, rooseveltiana e kennediana: l’America dei diritti civili e della indivisibilità di tutte le libertà, l’America che abbandona al suo destino le dittature latino-americane e non impiega la Cia per salvare regimi traballanti od oppressivi nell’intera sfera del Terzo mondo, l’America che non crede alle astuzie ‘metternichiane’ di Kissinger nelle relazioni fra i blocchi e nei rapporti fra gli Stati, l’America che si sente profondamente ‘europeista’ e ‘illuminista’, rifuggendo da qualunque tentazione di isolazionismo, da qualunque orgoglio di solitaria e sprezzante autonomia imperiale.
Un’America moralista, puritana, quasi virtuosa; l’America che spiega la politica generosa ma spesso innocente di Carter, che sta alla base della sua imprevedibilità e della sua nevrosi, che contiene in sé i germi dei suoi fallimenti e dei suoi errori ma anche delle sue grandezze (Camp David, per esempio).

Per gli europei, e soprattutto per gli europei di fede democratica, l’America di Carter era molto più di casa di quanto non sia l’America di Reagan: col suo liberismo sfrenato, col suo individualismo orgoglioso, col suo primitivismo aggressivo, con la sua istintiva diffidenza verso un’Europa giudicata elemento di confusione o di corruzione (il partito di Reagan è stato avverso, nel corso di un secolo, all’intervento americano sia nella Prima sia nella Seconda guerra mondiale: c’era perfino un’ala fra il ’38 e il ’39 che sarebbe stata disposta a trattare con Hitler).
E’ un’America che considera il ‘New Deal’ un errore, la politica di intervento dello Stato nell’economia un riflesso del ‘demonio’ socialista (cui si oppone il puritanesimo liberistico, dell’uomo che fa da sé), la ‘Nuova Frontiera’ un fantasma che sta fra la retorica e l’utopia: un giornalista penetrante e malizioso ha parlato per Reagan di un “Roosevelt capovolto”.

Le radici ideali sono una cosa; le varianti tattiche un’altra.
Gli elementi di continuità fra i due Presidenti, soprattutto nella sfera internazionale, supereranno di gran lunga le differenziazioni o addirittura le antinomie fra i personaggi, fra i loro retroterra culturali, fra le ispirazioni differenziate, o addirittura contrastanti delle due visioni della vita e del mondo.

Ho visto Reagan una sola volta, a Los Angeles, insieme con Saragat e Fanfani; e il Presidente del Senato lo ha ricordato sere fa in un affollato dibattito televisivo sulle prospettive della nuova amministrazione americana, cui abbiamo partecipato entrambi.
Eravamo nel settembre del 1967; il Presidente Saragat compiva il suo famoso giro del mondo, di pace e di amicizia, quel giro che partì dal Canada per concludersi nei sultanati del Golfo Persico.

Il Governatore della California ci ricevette in un grande albergo di Los Angeles: forse lo stesso che aveva scelto a quartier generale della sua campagna presidenziale (non meno che della prima conferenza stampa post-elezione).

Giungevamo da Washington; il pranzo alla Casa Bianca, in onore di Saragat, che finiva in quel giorno sessantanove anni, era stato funestato da un incidente diplomatico, da un momento di incomprensione fra il Capo dello Stato italiano e il presidente Johnson, un democratico tollerante su tutto tranne che sulla questione vietnamita nella quale non accettava consigli o suggerimenti da nessuno, e neanche dagli alleati europei.
Certi rilievi di Saragat, che adombrava una linea morbida, di negoziato, agli Stati Uniti, avevano suscitato l’irritazione del padrone di casa.
Il clima che si respirava a Los Angeles, in quell’isola repubblicana, era di fermezza e di durezza ancora maggiori di quella della Casa Bianca, in materia di Vietnam, e in genere di equilibri internazionali.

La difesa del prestigio imperiale degli Stati Uniti toccava vertici sconosciuti alla linea tanto più cauta e prudente dei democratici al governo.
Eppure, quattro anni più tardi, sarebbe stato un Presidente repubblicano a liberare gli Stati Uniti dalla tragedia vietnamita: con una spregiudicatezza inconcepibile non dico per Kennedy ma anche solo per un Johnson.
Un paradosso che arriva fino a Reagan”.

Sul personale, come premesso:
“Ho avuto due volte l’occasione di incontrare Giovanni Spadolini.
La seconda quando ho ricevuto dalle sue mani la targa che in occasione del sessantesimo della Provincia di Varese (nel 1987, perché il cinquantesimo nessuno lo aveva ricordato) fu data ai Consiglieri tutti (viventi o familiari).
La prima, molti anni avanti, quando Piero Chiara – che evidentemente quel giorno non aveva voglia di guidare – mi chiese di portarlo in auto al Corriere della Sera.
Lo attendeva il direttore Spadolini.
Parlarono allegramente e compiutamente nel famoso Sancta sanctorum.
Ascoltavo.
Nel viaggio di ritorno – Piero era cosiffatto quanto a storielle e pettegolezzi: alla fine, gli uscivano di bocca – fui messo al corrente della ‘profezia’ ‘spadoliniana’ della ‘Maga di Firenze’.
Ebbene, aveva costei detto ad un allora giovanissimo Giovanni che sarebbe stato professore universitario, direttore del Resto del Carlino, del Corriere della Sera, Presidente del Consiglio, del Senato e infine della Repubblica.
Le prime tre parti della profezia essendosi compiute…
Venne il giorno, lo sappiamo, della quarta e della quinta.
Non dell’ultima se non per una serie di supplenze ‘ad interim’ di Francesco Cossiga.
Chapeau, comunque, grande Maestro.
Mille volte chapeau!”

Varese, 25 novembre 2023

La forza fisica necessaria per esercitare la Presidenza (guardando a F. D. Roosevelt)

Praticamente, oltre un anno e mezzo.
Questa, ai nostri giorni, la durata della campagna elettorale USA per i candidati impegnati nell’ambito dei due partiti maggiori a cercare di ottenere la Nomination seguendo percorsi che prevedono confronti e dibattiti a iosa, Caucus, e Primarie per ogni dove, per infine battersi con l’avverso contendente.
(Minore, a tale fine, ovviamente ma non sempre, l’affanno del Presidente in carica in cerca di conferma).
Occorre quindi – cosa che non viene usualmente presa nella dovuta considerazione mentre è psicologicamente molto importante (chi voterebbe una persona in difficoltà fisiche?) – una salute di ferro per la bisogna.
Salute che deve poi permanere nei tempi successivi, nel mentre l’eletto esercita il potere esecutivo.
Storicamente – i non gravi problemi affrontati e risolti da Dwight Eisenhower a parte – quanto possa ‘pesare’ governare si è compiutamente visto quando Franklin Delano Roosevelt ottenne il quarto mandato.
(Non per altro, si pervenne poi nel 1951 alla approvazione dell’Emendamento, il XXII,  che impedisce una terza elezione).
Entrato nella circostanza in carica il 20 gennaio 1945, affaticato, debole, probabilmente febbricitante, Franklin Delano pronunciò un breve discorso.
Due giorni dopo, doveva partire per partecipare alla Conferenza di Jalta.
Arrivato in treno a Newport News, Virginia, si imbarcò su un incrociatore pesante opportunamente attrezzato di rampe per la sua sedia a rotelle.
Il viaggio per Malta – ottomila i chilometri – durò undici giorni.
Dall’isola mediterranea, un successivo e solitario volo (Churchill era su un differente aereo) di sette ore per arrivare in Crimea ed incontrare Stalin.
Ufficialmente, dal 4 febbraio la Conferenza.
Molto discussi – esaltati quanto criticati – dagli storici i suoi comportamenti e i risultati.
Tornato negli USA, il primo marzo riferì al Congresso.
Ancora più magro e pallido, parlava da seduto incapace di reggersi in piedi.
Tremava e biascicava.
Fu il seguente 12 aprile 1945 che a Warm Spring collassò, per morire alle 15.35 a causa di una emorragia cerebrale.
4422 i giorni trascorsi alla Casa Bianca.
Troppi da ogni punto di vista e pertanto anche fisicamente.
Non era d’altra parte stato George Washington rifiutando nel 1796 una terza investitura a dire che nessuno poteva pensare di poter sostenere un siffatto peso per più di otto anni?

Varese, 24 novembre 2023

Un clamoroso caso di incremento demografico (con una annotazione da non perdere assolutamente)

Tennessee Williams!
John Huston!
Richard Burton!
Ava Gardner!
Deborah Kerr!
Sue Lyon!
Il primo – un drammaturgo fuori categoria, dicendola tutta, che Hollywood ha per ogni dove saccheggiato – scrivendo il testo.
Il secondo dirigendo il film ricavato.
I quattro attori ottimamente recitando.
Hanno provocato uno dei massimi incrementi
demografici della Costa Pacifica messicana!
(E mettiamoci un settimo punto esclamativo).
Racconta Huston che quando arrivò nel 1963 in quel poco più di un villaggio nello Stato di Jalisco con la troupe per girare ‘La notte dell’ iguana’ gli abitanti non erano più di duemilacinquecento.
Che fu a causa del successo del film – una storiaccia decisamente ‘alla Williams’ che, devo dirlo, si risolse in una pellicola, la sola di John, che non mi piacque per niente e infatti laggiù non sono andato – che gli Americani lo scoprirono.
Che con il conseguente turismo il piccolo centro si sviluppò per arrivare al tempo nel quale il davvero grande uomo di Cinema scriveva – fine anni Ottanta – la propria autobiografia (1) a contare ottantamila abitanti (e oggi, vedo, più di duecentoventimila).
È stato quello descritto un procedere positivo per Puerto Vallarta (tale il fin qui volutamente celato nome)?
Conservatore intelligente quale sono, reputo che “proprio no!” (ottavo punto esclamativo).

(1) Huston era uno forte e l’ho molto amato.
È stato uno dei registi davvero americani più colti (e guardate che la stragrande maggioranza dei cinematografari operanti ad Hollywood a farla la Mecca che fu erano europei colà approdati) e a mio modo di vedere va apprezzato anche per avere intitolato ‘An open book’ la citata autobiografia.
Un libro aperto, perché sai, e soprattutto speri, che il bilancio che fai scrivendo di te – come in fondo faccio io ogni volta che, sto per dire e dico, prendo in mano la penna qualsiasi argomento affronti – non è, non sia, quello definitivo! (il nono).

Varese, 24 novembre 2023

Con riferimento al precedente intervento:
John Wayne secondo Katharine Hepburn

“John Wayne è stato l’eroe degli anni Trenta, degli anni Quaranta e di quasi tutti gli anni Cinquanta.
Prima che i vermiciattoli cominciassero ad alzare la testa.
Prima che, negli anni Sessanta, l’eroe scivolasse giù, fra i deboli e gli incompresi.
Prima che le donne cominciassero a buttare ogni pretesa di verginità alle ortiche.
E fino all’avvento dell’unisex.
Crebbero i capelli e decrebbe la fierezza.
E ci ritrovammo in mezzo agli antieroi”.

Varese, 24 novembre 2023

USA 1964: quando John Wayne appoggiava Barry Goldwater

1997, prodotta per la televisione esce una pellicola straordinaria.
Sceneggiata magistralmente da Martyn Burke e diretta da Joe Dante, si intitola ‘La seconda guerra civile americana’.
In una scena, gli inviati di un potente network tv, in attesa degli eventi, guardano un film di guerra.
Sullo schermo, John Wayne fa strage di nemici e uno dei due ne esalta il valore.
“Ti ricordo”, replica l’altro, “che Wayne era un attore”.
“Se ai tempi del Vietnam John fosse stato alla Casa Bianca quel conflitto sarebbe durato una settimana!”, chiude, sicuro, il primo.

Ecco, il protagonista di mille western (e non solamente), il Ringo di ‘Ombre rosse’, l’Ethan Edwards di ‘Sentieri selvaggi’ non era percepito da larga parte degli americani ‘solo’ come un divo di Hollywood.
Era, rappresentava molto di più: il coraggio, il senso del dovere, l’onore, la fermezza, in qualche modo il Paese.

Ebbene, questo vero monumento vivente nel 1964 partecipa in prima linea, in prima persona, senza risparmio, alla campagna per White House che vede il Senatore repubblicano Barry Goldwater impegnato contro il Presidente uscente, il democratico Lyndon Johnson.
Quali i risultati?
Una netta sconfitta.
Gli elettori non si lasciano convincere.
Johnson ha fatto bene in politica interna e il Vietnam, laddove gli USA combattono, non lo ha ancora demolito come avverrà di lì a non molto.
Goldwater perde addirittura per quattrocentoottantasei delegati nazionali a sessantadue su un totale di cinquecentotrentotto.
(Per inciso – e non che a determinare la svolta epocale sia John Wayne, per carità – per la prima volta il partito repubblicano smarrisce il Nord, sua abituale riserva elettorale, conquistando invece Stati del Sud fino a quel momento praticamente sempre democratici.)

Perché ricordare questi lontani accadimenti?
Semplicemente perché ancora oggi la stampa e le tv danno grande rilievo alle dichiarazioni dell’uno o dell’altro personaggio, non soltanto del cinema, che si schieri in campagna elettorale di qua o di là.

Se ai suoi tempi non è riuscito John Wayne, l’americano per eccellenza, a cambiare le carte in tavola perché dovrebbero riuscirci, che so?, una Sarah Jessica Parker, un Woody Allen, perfino un George Clooney per stare tra i democratici, un Robert Duvall o un John Voight per passare ai GOP?
Per quanto grande regista e attore sia, guardando alle ultime campagna, non ha cambiato nulla, se non forse per qualche infinitesimale zero virgola qualcosa, neanche il celebrato ‘endorsement’ a favore di Mitt Romney pronunciato nel 2012 da Clint Eastwood.

Come diceva il vecchio e saggio, oltre che bravissimo, Indro Montanelli, alla fine conta il parere del lattaio dell’Ohio (Stato i cui risultati molto molto spesso, anche se non nel 2020, collimano con quelli nazionali) l’opinione del quale nessuno o quasi dei giornalisti italiani che si occupano di elezioni USA cerca di conoscere.

Varese, 24 novembre 2023

First atomic bomb.
Blackett, Togo, Churchill coinvolgendo Truman e pensando a Giovenale 

Per quanto attiene al teatro europeo, la Seconda Guerra Mondiale ebbe termine l’8 maggio del 1945 al momento della resa della Germania.
Fu in quella temperie che i Russi – in segreto visto che non erano in conflitto con il Giappone -garantirono che novanta giorni dopo sarebbero intervenuti militarmente colaggiù.
Scadenza pertanto fissata all’8 agosto seguente.
È al fine di evitare che quel, per quanto concordato, non desiderabile scenario – meglio essere i soli a mettere successivamente sotto tutela il Sol Levante – si verificasse che due giorni prima, il 6 dell’ottavo mese annuale, gli Stati Uniti d’America lanciassero su Hiroshima la prima bomba atomica della Storia?
È basata su tale convincimento una non peregrina teoria elaborata dal fisico Premio Nobel 1948 britannico Patrick Maynard Stuart Blackett in ‘Fear, War and the Bomb’, articolo di tre sole pagine pubblicato il 2 dicembre 1949 sulla ‘University of Pennsylvania Law Review’.

(Tra le varie differenti altre teorie in merito, quella che sosteneva che gli USA avessero speso per tutta la complessa, concernente, attività troppo tempo e denaro per non portarla infine a termine facendo uso dell’ordigno).

Per connessione
– È stato ed è sostenuto che le atomiche – determinando il Giappone alla resa – per quanti decessi abbiano direttamente causato, siano risultate strumento necessario al fine di impedire che, la guerra durando, molti più morti dovessero essere contati, ed anche tra gli Americani.
– Non andrebbe presa per oro colato l’asserzione che Tokyo non fosse a quei giorni in dubbio quanto all’ipotesi di trattare per la cessazione del conflitto.
È agli atti una comunicazione del ministro degli Esteri nipponico Shigenori Togo al suo ambasciatore in Russia datata 13 luglio che riporta:
‘La resa incondizionata è l’unico ostacolo alla pace’.
Ove gli Stati Uniti avessero accettato, per dire e come poi avvenne, che l’Imperatore, invece di abdicare, restasse…
– Quanto alle responsabilità:
Corre l’8 gennaio del 1953..
Winston Churchill è a cena nella sede washingtoniana dell’ambasciata britannica con Harry Truman al quale restano meno di due settimane di permanenza alla Casa Bianca.
È verso fine pasto che se ne esce con:
‘Spero che lei abbia la risposta pronta per l’ora in cui ci troveremo entrambi davanti a San Pietro e lui dirà che siamo noi due i responsabili del lancio di quelle bombe atomiche’.
È certo, aggiunge sollecitato da uno dei presenti, che il Creatore non li condannerà senza un’udienza che, visti gli atti compiuti è inevitabile.
Colgo ogni volta pensando a queste parole di Winston una precisa eco dell’ottimo Decimo Giunio Giovenale laddove, come sempre profondo, rileva e chiede
‘Gli altri possono perdonarti.
Sei in grado tu di farlo?’
Il grande statista, almeno al riguardo, no!

Varese, 24 novembre 2023

Le elezioni del 1788/1789 (le inaugurali) e i conseguenti Insediamenti.

Dieci gli Stati chiamati alle urne da lunedì 15 dicembre 1788 a sabato 10 gennaio 1789 per le cosiddette elezioni del primo Capo dello Stato USA.
(Rammento che è solo dal 1848 che le urne aprono un unico giorno).
Dieci e non tredici perché a quel mentre il North Carolina e il Rhode Island non avevano ancora ratificato la Carta Costituzionale e il New York non aveva scelto in tempo i propri Delegati.
Poco meno di quarantaquattromila i votanti.
Sessantanove gli Electors nominati che a loro volta si pronunciarono all’unanimità per il Padre della Patria George Washington, indipendente e sostenuto da tutti i movimenti politici.
Vice, con il voto di trentaquattro dei predetti sessantanove Elettori, uno dei leader del Partito Federalista, John Adams.
Non che fosse stato facile convincere Washington ad assumere un impegno che giustamente riteneva gravoso ma che infine proprio per questo accettò di sostenere.
È questa l’unica volta nella quale si votò, come si vede, anche in un anno dispari.
Il Capo dello Stato, la cui elezione – unitamente a quella del Vice – era stata ratificata dal Congresso il 6 aprile 1789, si insediò il 30 dello stesso aprile a New York poco meno di due mesi dopo l’inizio dei lavori da parte del Parlamento (4 marzo, data nella quale era stata altresì promulgata la Costituzione) e, caso unico, nove giorni a seguire l’Insediamento (il 21) del proprio Vice.
Da notare che larga parte del Discorso Inaugurale pronunciato dal Presidente era in effetti stato scritto da James Madison così come, d’altronde, quasi tutto quello letto in forma di replica del Congresso.
Il Senato risultò formato da venti Laticlavi (due per Stato) divisi in tre classi di all’incirca pari numero.
La prima classe scadeva dopo due anni e sarebbe stata rinnovata nel 1790.
La seconda dopo quattro.
La terza dopo sei.
Dopo ancora a seguire essendo comunque il mandato senatoriale pari a sei anni.
La Camera dei Rappresentanti – il cui impegno era biennale – risultò composta da cinquantanove membri.
Cinque Stati avevano nella circostanza scelto di votare nel dicembre 1788.
Sei (si aggiungeva il New York, escluso solo dalla scelta degli Elettori) a gennaio 1789.
Fu questo uno dei due mandati presidenziali più corti rispetto ai canonici quattro anni precisi visto che terminò il 4 marzo del 1793.
(Per conoscenza, il secondo coinciderà con quello inaugurale di Franklin Delano Roosevelt che giurerà la prima volta il 4 marzo 1933 e, rieletto, la seconda il 20 gennaio 1937 avendo un Emendamento anticipato il precedente termine).

Varese, 23 novembre 2023

Il principio delle possibilità limitate
 
Piramidi egizie, azteche, tolteche, babilonesi e elamitiche (ziqqurat), tongane, tahitiane.

A distanza di migliaia di chilometri e di millenni, diverse etnie, nelle più differenti parti del mondo – quasi sempre senza avere nessuna cognizione l’una dell’altra – hanno edificato piramidi.
Come mai?

Molte le risposte di fantasia a questa e a consimili domande e più diffusa fra tutte (dai media, sempre alla ricerca dell’improbabile o, meglio ancora, dell’incredibile) quella che vuole che oltre diecimila anni orsono una sola, grande ed avanzatissima civiltà – in seguito, scomparsa a causa del diluvio o per il passaggio del pianeta attraverso la coda di una gigantesca cometa – governasse la Terra e che proprio la diffusione delle piramidi in ogni angolo dell’orbe lo comprovi.

La scienza, sempre giustamente restia ai voli di fantasia, ha invece risposto altrimenti, in particolare per bocca dell’antropologo e sociologo americano ma di origini e formazione ucraina Alexander Goldenweiser (Kiev 1880 – Portland 1940).
Sua è, infatti, la teoria nota come ‘Principio della possibilità limitate’.
In sostanza, Goldenweiser afferma che per quanto le produzioni fantastiche degli esseri umani siano infinite, la loro traduzione in pratica – attraverso usi, costumi, organizzazione sociale, eccetera – è, appunto, limitata.
Le abitudini e le manifestazioni concrete di un gruppo, cioè, possono assomigliare a quelle di un’altra etnia anche assai remota perché esiste solo un numero circoscritto di modi per fare una cosa.
Ad esempio, per salire un pendio si impone comunque l’idea di una scala o dei gradini mentre per ripararsi dalla pioggia, dovunque nell’orbe terracqueo, si è pensato all’ombrello.

Varese, 23 novembre 2023

Americani in bicicletta nelle corse a tappe europee (prescindendo da Lance Armstrong, per carità)

Lo yankee Chris Horner (nato nel 1971) è il ciclista più anziano ad avere vinto una delle tre grandi corse a tappe – durata tre settimane – europee (nell’ordine di effettuazione attuale, Giro d’Italia, Tour de France, Vuelta a España).
Si impose nella Vuelta del 2013 a quasi quarantadue anni d’età.

Sepp Kuss (1994) lo ha imitato in Spagna quest’anno.

Greg LeMond (1961) ha vinto tre Tour de France, 1986, 1989 e 1990.

Andrew Hampsten (1962) riportò il Giro d’Italia del 1988, primo non europeo in grado di farlo.

George Hincapie (1973), dal 1997 al 2012 ha partecipato a sedici edizioni consecutive della corsa francese portandole a termine.

Varese, 23 novembre 2023

Irwin Shaw, perbacco!

Ho letto tutti i suoi romanzi e ho visto tutti i film e le miniserie tv che ne sono stati ricavati.
Ho anche apprezzato la maggior parte delle pellicole alla quali Irwin Shaw ha collaborato da sceneggiatore, spesso in Italia (‘Due settimane in un’altra città’, per dire, laddove Roma è di scena).
Adoro il suo ‘modo’.
Ricordo qui il bellissimo ‘I giovani leoni’ – che rappresenta al meglio la Seconda Guerra Mondiale in Europa e in Africa, tanto quanto ‘Il nudo e il morto’ di Norman Mailer aveva saputo rappresentarla nelle isole del Pacifico – in seguito al cinema con Marlon Brando, Montgomery Clift e Dean Martin.
Poi, la ‘Saga degli Jordache’, sviluppata in ‘Povero ricco’ e ‘Mendicante ladro’ dalla quale fu ricavata la serie tv che rivelò Nick Nolte.
E ancora, il fondamentale libro di condanna sul Maccartismo che l’aveva costretto all’esilio, ‘La guerra di Archer’.
Infine, i minori ‘Lavoro di notte’ e ‘Una vita nel vuoto’, pur sempre ammirevoli.
Ho cominciato queste righe scrivendo ‘Ho letto’, ma non va bene: passando dall’uno all’altro li rileggo anche oggi.
Con vero piacere!

Varese, 23 novembre 2023

L’immigrazione negli Stati Uniti tra fine Ottocento e inizi Novecento.
La ‘minaccia’ cattolica, quella cinese e quella derivante dall’arrivo degli ‘indesiderabili’

Usa, anni Ottanta dell’Ottocento.
“I cattolici sono insopportabili.
Aumentano di numero.
Visto che la maggior parte dei nuovi arrivati sono Irlandesi finiremo per diventare sudditi del papa”.
Queste, per sommi capi, le preoccupazioni da qualche tempo allora montanti degli Wasp  americani.
Necessario, quindi, provvedere organizzandosi.
Nasce così nel 1886 la ‘American Protective Association’.
Già nel precedente 1882, peraltro, una prima disposizione legislativa federale aveva vietato l’ingresso negli Stati Uniti ai condannati, ai malati di mente, ai nullatenenti e a chiunque non fosse in grado di dimostrare di potersi mantenere col proprio lavoro.
Nello stesso anno fu emanato il primo dei provvedimenti (‘Chinese Exclusion Acts’) intesi ad impedire l’arrivo di nuovi immigrati ‘gialli’.
Appoggiati dai sindacati che temevano la concorrenza dei ‘nuovi’ e i conseguenti ribassi dei salari, nacquero altri seri movimenti.
Da ricordare, in specie, la bostoniana ‘Immigration Restriction League’, datata 1894.
Furono i soci di questa lega a pensare ad un ‘esame preliminare di cultura’ al quale avrebbero dovuto sottoporsi tutti gli immigrati.
Naturale che solo ai pochissimi che l’avessero superato sarebbe stato dato il permesso di soggiorno.
Furono i presidenti Grover Cleveland, William Taft e Woodrow Wilson ad adoperarsi contro tale esame opponendo il veto alle leggi che lo istituivano.
Alla fine, i divieti si estesero a quanti avessero malattie infettive, ai poligami (!?), alle prostitute, agli anarchici e ‘a chiunque sostenesse idee rivoluzionarie contro il governo americano’.
Per inciso, è nel 1892 che il mitico Ellis Island – un isolotto artificiale costruito con i detriti degli scavi della Metropolitana di New York – diventa (per esserlo fino al 1954) il maggior punto di ingresso USA per gli immigranti.
In precedenza, dal 1847, il controllo era esercitato nel forte nuovaiorchese di Castle Garden, in origine denominato Fort Clinton in onore dell’ex Sindaco della Grande Mela, Senatore e tre volte Governatore dello Stato de Witt Clinton altresì invano candidato alla Casa Bianca.

Varese, 22 novembre 2023

Maidan
una narrazione che cambia
a seconda della prospettiva.

di Stefano Grazioli
(già ottimo mio collaboratore quanto all’Est Europa ai tempi di
‘Dissensi e Discordanze’)
per RSI

Il 21 novembre del 2013 cominciarono nel centro di Kiev, in Piazza dell’indipendenza (Maidan) le proteste contro la decisione del presidente Victor Yanukovich di non sottoscrivere con l’Unione Europea l’Accordo di associazione che avrebbe avvicinato l’ex repubblica sovietica a Bruxelles. La parte economica dell’intesa era stata parafata oltre un anno prima, mentre quelle politica era bloccata a causa dell’incarcerazione di Yulia Tymoshenko, ex premier accusata di abuso d’ufficio. L’Ue aveva chiesto la liberazione dell’eroina della rivoluzione arancione del 2004 come precondizione per la firma dell’Accordo. A Kiev si sapeva che Yanukovich non avrebbe ceduto e il fallimento del vertice di Vilnius, in Lituania, dove avrebbe dovuto essere siglata l’intesa, era programmato. Quando arrivò l’ufficialità, iniziarono le manifestazioni di piazza.

Euromaidan e la svolta filo-occidentale

Contro il presidente e il governo del premier Mykola Azarov, nelle proteste che interessarono la capitale e i maggiori centri nell’ovest del paese, si schierarono l’opposizione, guidata dalla troika formata dai leader dei partiti in parlamento, vale a dire Arseni Yatseniuk, Vitaly Klitschko e Oleh Tiahnibok, gran parte della società civile, una fetta delle élite politico-economiche, uno si tutti l’oligarca Petro Poroshenko, le cancellerie occidentali, presenti con vari rappresentanti sin dal mese di dicembre a Maidan in supporto dei manifestanti, e anche gruppi estremisti di destra, come Pravy Sektor. Ogni tentativo di compromesso politico fallì, il governo fece uso della forza, la piazza insorse, mentre Russia da una parte e Occidente dall’altra si stavano preparando al cambio di regime. Il bagno di sangue del 19-21 febbraio del 2014 si concluse in realtà con la sottoscrizione di un accordo tra Yanukovich e il trio dell’opposizione, controfirmato dai ministri degli esteri di Francia, Germania e Polonia, che però non venne messo in pratica dopo il rifiuto da parte delle ali radicali di Maidan. Il presidente fu costretto alla fuga, venne insediato il primo governo guidato da Yatseniuk e Poroshenko fu eletto successivamente presidente.

La rivoluzione arancione del 2004

Euromaidan è vista da Mosca come un colpo di stato, dall’Occidente come un passaggio turbolento di potere in una cornice democratica
La narrazione è diversa a seconda della prospettiva, in realtà le manifestazioni del 2013 e del 2014 hanno avuto due facce: quella della protesta ucraina spontanea, europeista e contro il sistema cleptocratico di Yanukovich, ma anche quella delle spinte occidentali, soprattutto statunitensi, per il cambiamento di regime a tutti i costi. Lo scenario è stato quello che si era già visto nel 2004, con la prima rivoluzione, quella arancione, dove a Maidan si erano sfidati sempre Yanukovich, delfino del presidente uscente Leonid Kuchma, e Victor Yushchenko, che avrebbe vinto le elezioni dopo la ripetizione del ballottaggio e guidato il paese per cinque anni, sino al 2010 e alla rivincita di Yanukovich. Anche allora lo schema era quello di un duello ucraino tra uno schieramento filo-occidentale e uno filo-russo, supportati direttamente da Mosca e da Washington. Il successo della rivoluzione arancione fu di breve respiro, il governo di Yulia Tymoshenko andò a rotoli e il paese rimase sostanzialmente diviso internamente e in bilico tra Russia e Occidente.

Una nuova rivoluzione?

Volodymyr Zelensky è stato eletto nel 2019, dopo il mandato di Poroshenko. L’Ucraina aveva già perso nel frattempo la Crimea e parte del Donbass, dopo la prima guerra cominciata nell’aprile del 2014 come operazione antiterrorismo del governo di Kiev di riportare sotto controllo le regioni ribelli di Lugansk e Donetsk, sollevatesi contro il governo di Yatseniuk. In questi giorni, mentre si ricorda il decennale di Maidan, quasi due anni dopo l’inizio dell’invasione russa cominciata nel febbraio del 2022, il presidente ha lanciato l’allarme di una terza rivoluzione in arrivo, sempre orchestrata dalla Russia. Mosca sta continuando le operazioni militari all’est tentando di conquistare alcuni lembi del Donbass, mentre al sud è impegnata a bloccare la controffensiva; per Kiev è un momento di difficoltà, sia al fronte, sia a livello interno, con le frizioni diventate evidenti tra il capo di stato e i vertici militari. Una nuova rivoluzione è concretamente improbabile: Zelensky ha ancora il potere saldamente in mano, in parlamento ha una solida maggioranza e le frazioni filorusse sono diventate irrilevanti, ma soprattutto gode di molto consenso tra l’elettorato. Qualche crepa però c’è e così l’evocazione del pericolo di un terremoto politico pare più che altro un ulteriore segnale all’Occidente perché aumenti il sostegno, politico, militare e finanziario a Kiev, in modo che il presidente non sia costretto all’angolo dall’opposizione interna, guidata sempre da Poroshenko, se il conflitto dovesse prendere nei prossimi mesi una piega negativa.

Varese, 22 novembre 2023

Progressive Party of United States 1912-1920

Centotre anni fa aveva termine l’esperienza del primo e più importante Progressive Party americano.

Tre, nella lunga storia delle elezioni presidenziali americane, invero, i partiti denominati Progressisti.
Il primo al quale va fatto attento riferimento fu formato da Theodore Roosevelt e dai suoi sostenitori allorquando l’ex Presidente, non avendo ottenuto la Nomination repubblicana alla Convention del 1912, uscì dal Grand Old Party sbattendo la porta e presentandosi autonomamente.
Ebbe questa formazione (chiamata durante quella campagna ‘Bull moose’ dato che Teddy aveva dichiarato di sentirsi “forte come un alce”), un notevole successo a novembre arrivando al ventisette per cento dei voti popolari, conquistando ottantotto Elettori (con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni) e superando lo stesso GOP (nessun altro ‘terzo partito’ è stato storicamente in grado di fare altrettanto).
Nella circostanza, ottenne altresì una decina di seggi alla Camera.
Rapido però il successivo declino soprattutto perché lo stesso Teddy nel 1916 rifiutò una ulteriore corsa elettorale in proprio decidendo invece di sostenere il repubblicano Charles Evans Hughes.

Deceduto il grande riformatore ai primi del 1919, il partito venne a cessare le proprie attività nel successivo anno.
Per la storia, l’indicazione Progressive fu usata con sempre minore successo
altre due volte:
da Robert La Follette nel 1924 e da Henry Wallace
nel 1948.

Varese, 22 novembre 2023

Il vero John Kennedy
nel sessantesimo anniversario della morte

‘Lo strangolatore di Boston’, intenso dramma portato nel 1968 sul grande schermo da Richard Fleischer, vede un ottimo e coinvolgente Tony Curtis – come poche altre volte, splendidamente lontano dall’amata commedia – impersonare un operaio schizofrenico di origini italiane (si chiama Albert DeSalvo) che, in stato di semi incoscienza, uccide l’una dopo l’altra dodici donne.
Interrogato, non riesce a ricordare quasi nulla del proprio passato ed è talmente assente da non rammentare cosa stesse facendo il 22 novembre del 1963!
Tutti, in America, infatti, se appena all’epoca avevano capacità di intendere, hanno bene in mente a quali faccende attendessero nel giorno (appunto il 22 novembre di sessant’anni fa) dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, tanto l’accadimento si è impresso indelebilmente nella memoria dell’intera nazione.
Ultima vittima della cosiddetta ‘maledizione dell’anno zero’  (a partire dal 1840, i Presidenti eletti o confermati in un anno con finale zero sono morti in carica, a seguito di un attentato o per cause naturali), l’uomo della Nuova Frontiera resta nel mito al punto tale che ogni qual volta la lunga corsa verso la Casa Bianca prende il via i media immancabilmente si chiedono se sia in vista un ‘nuovo Kennedy’.
E’ proprio dalla mitizzazione del primo Capo dello Stato cattolico (il secondo essendo Joe Biden) espresso dagli USA che non si riesce ad uscire, cosicché ben poche sono le voci – peraltro tutte di seri studiosi – che hanno cercato in questi decenni di fornirci un quadro veritiero dell’attività politica kennediana e dell’eredità politico culturale che ci ha lasciato.
Alla costruzione della sua leggenda, comunque, John Kennedy aveva pervicacemente lavorato fin dalla più giovane età, a ciò indirizzato dal padre Joseph le cui immense fortune economiche – molto chiacchierate per le sue poco eleganti relazioni con la mafia che gli avevano consentito di arricchirsi con il commercio degli alcolici durante il Proibizionismo – erano state messe totalmente al servizio della scalata che doveva inevitabilmente condurlo (per il vero, come seconda scelta dato che il fratello maggiore era deceduto) alla Casa Bianca.
Mai, in tutta la sua non breve permanenza al Senato per il Massachusetts, John aveva preso posizioni precise, cercando, invece, su ogni questione di barcamenarsi per non inimicarsi nessuno. Basti qui ricordare che nell’oscuro e tristissimo periodo maccartista della ‘Caccia alle Streghe’ neanche per un attimo il giovane Senatore si era levato a parlare contro le persecuzioni che colpivano gran parte degli intellettuali americani e, massimamente, quelli di sinistra.
Ancora, quando nel 1956 si era parlato di una sua possibile presentazione quale candidato alla Vicepresidenza per i democratici con Adlai Stevenson per cercare di scalzare dalla carica presidenziale il Generale Dwight Eisenhower, Kennedy aveva manovrato abilmente per evitare quella che considerava una iattura (vista l’estrema difficoltà dell’impresa) e si era, invece, riservato per momenti migliori.
La sua famiglia fu la prima ad intuire l’enorme potere che già in quegli anni andava assumendo il mezzo televisivo ed ingenti capitali furono utilizzati per costruire un personaggio – puntando sulla sua telegenicità – che i media in generale e la TV in particolare trovassero attraente e ‘spendibile’.
Un’attenta campagna di stampa fu condotta, poi, a partire dai primi mesi del 1959 per presentare il nuovo ‘profeta’ agli americani e al mondo intero.
Si fece in tal modo leva sul suo passato di soldato, sulla moglie (facendo intendere che Jacqueline Bouvier discendesse da una nobile famiglia francese), sul suo aspetto da bravo ragazzo ‘tutto casa e famiglia’ (il che era talmente falso da far ridere chiunque lo conoscesse davvero visto il suo passato e presente da impenitente sottaniere), sulla sua prorompente giovinezza.
Anche a quest’ultimo riguardo molte falsità trovarono ampio credito considerato che non era assolutamente vero che fosse (come veniva scritto e detto) il più giovane candidato mai proposto da un grande partito per la White House (nel 1896, William Jennings Bryan, democratico, al momento delle elezioni, aveva solo trentasei anni) e che, comunque, se eletto, non avrebbe potuto essere il più giovane Presidente in carica posto che Theodore Roosevelt era entrato alla Casa Bianca a soli quarantadue anni.
Nella campagna del 1960 Kennedy trovò l’appoggio – molto ben compensato – della sinistra intellettuale americana (le cosiddette ‘Teste d’uovo’) cui seppe aggiungere il frenetico attivismo di tantissimi giovani che cercavano in lui qualcosa di nuovo, al passo con quei tempi ormai prerivoluzionari (il ’68 non era poi molto lontano!).
Il famoso discorso della ‘Nuova Frontiera’ (il riferimento andava al concetto fine ottocentesco di ‘Frontiera’ di Frederick Jackson Turner) che così fortemente condizionò l’andamento dei risultati elettorali sia nelle Primarie che al voto di novembre non era ovviamente farina del suo sacco e fu interamente scritto da un collaboratore (un ‘ghost writer’) sulla base dei sondaggi popolari, effettuati per la prima volta su larga scala, tesi a conoscere cosa il popolo elettore si attendesse da un candidato.
Anche questa fu, in fondo, una ben riuscita operazione di marketing così come tutta la costruzione e presentazione del ‘personaggio’.
Una volta eletto – e non dimentichiamo che Richard Nixon, il suo rivale, fu sconfitto per soli centomila voti popolari in tutto il grande Paese e che molto ci sarebbe da dire sull’appoggio ricevuto dallo schieramento kennediano da parte della mafia e sui voti ‘fantasma’ (per lui, votarono migliaia di morti!) ottenuti in Illinois per ‘merito’ del sindaco di Chicago Daily – l’azione politica di Kennedy fu quanto di più maldestro si potesse immaginare.
E’ lui che dette inizio alla Guerra del Vietnam (anche se nessuno vuol sentirselo dire) inviando oltre diecimila ‘osservatori militari’ – incredibile eufemismo – a sostenere il corrotto regime del Sud di quello Stato.
A Kennedy si deve il definitivo allentamento di Fidel Castro (che all’epoca non era ancora comunista) e di Cuba dall’Occidente e l’abbraccio all’isola caraibica da parte dell’URSS e del comunismo visto che, invece di riconoscere il buono che pure c’era nell’azione castrista contro il dittatore Batista, pensò di scalzare il ‘lider’ cubano mettendo in atto la maldestramente ideata dalla precedente amministrazione spedizione della Baia dei Porci (17 aprile 1961), finita tanto male che peggio non si potrebbe.
E’ sotto John Kennedy che si fu ad un passo dalla Terza Guerra Mondiale, quando, sempre per Cuba e in conseguenza dei suoi errori, inviò l’ultimatum a Nikita Krushev ed il mondo corse davvero un pericolo mortale.
E’ contro la sua politica e disprezzando le sue posizioni che, lui Presidente, fu costruito il Muro di Berlino che fino alla sua caduta ha voluto significare il profondo distacco esistente tra i due blocchi planetari.
E’ con Kennedy che gli USA riprendono la corsa agli armamenti attraverso un deciso e massiccio riarmo che li porterà ad affermare vieppiù il loro ruolo di super potenza.
Se questi sono i ‘successi’ del giovane capintesta (che arrivò al punto di nominare ministro suo fratello, cosa mai accaduta in tutta la storia americana!) in politica estera e sul piano internazionale, che si deve dire del suo operato all’interno del Paese?
Per quanto avesse promesso di “rimettere ancora in moto l’America”, molti dei suoi punti programmatici furono bocciati od eliminati visto che i rapporti con il Congresso non si potevano certo definire brillanti e che, in verità, la sua determinazione veniva spesso a mancare.
Per quel che riguarda i diritti civili (all’epoca, il problema interno più scottante per gli Stati Uniti alle prese ancora con forme di violento razzismo e comunque di segregazionismo nei confronti delle minoranze e in specie dei neri) la sua opera, in seguito esaltata, fu assai lenta e pochissimo convinta.
Ancora nel marzo 1963, un Martin Luther King profondamente deluso lo accusava “di essersi accontentato di un progresso fittizio nelle questioni razziali”.
Alla vigilia di Dallas tutta la sua politica era ad un punto morto e neppure la grande abilità e dimestichezza con i media sembravano poterlo salvare (d’altra parte, i democratici avevano perso le elezioni di ‘medio termine’ del 1962 principalmente a causa delle già evidenti manchevolezze del loro uomo a White House) tanto che una conferma nella tornata elettorale del 1964 appariva decisamente problematica.
La sua morte improvvisa colpì profondamente il Paese che la rivisse infinite volte alla TV, la qual cosa rese certamente più reale che in passato un accadimento non nuovo per gli Stati Uniti, visto che altri Presidenti lo avevano purtroppo preceduto su quella strada.
Fu così che un uomo sull’orlo di una probabile disfatta politica e con un passato tutto da discutere, improvvisamente, come un martire, venne da tutti idealizzato e che il suo discutibilissimo operato venne rivalutato oltre ogni dire.
Come afferma Maldwyn Jones nella sua ‘Storia degli Stati Uniti’, a voler essere gentili, “gli anni della presidenza Kennedy furono molto più ricchi di promesse che di fatti”.
Si può aggiungere che ben pochi di questi fatti furono veramente positivi per l’America e per il mondo.
Un’ultima considerazione va poi fatta a proposito dell’atteggiamento di John Kennedy nei confronti delle donne, della moglie e delle sue numerose e disprezzate amanti tra le quali la povera Marilyn Monroe.
La puritana America (complice la stampa dell’epoca) che tutti conosciamo e che ha distrutto la promettente carriera di molti aspiranti alla presidenza per i loro rapporti extraconiugali, solo a lui (e, in parte, poi, a Bill Clinton) ha perdonato ogni scappatella, arrivando, addirittura, a glorificarlo per il suo gallismo.
E’ proprio vero che quando si nasce con la camicia…

Varese, 22 novembre 2023

Gente da White House e no!

Come sapeva vincere Franklin Delano Roosevelt (quattro volte candidato alla Casa Bianca e quattro volte vincente), nessuno.
Come sapevano perdere Henry Clay e William Jennings Bryan (in tre circostanze in corsa per White House e sempre sconfitti), nessuno.
Come ha saputo risorgere Richard Nixon (battuto da Vice Presidente in carica nel 1960 e da candidato al Governatorato della California nel 1962, vinse nel 1968), nessuno.
Come (ritenendo gli fosse dovuta la Nomination ed essendogli stata negata) affossò il proprio partito Teddy Roosevelt nel 1912, nessuno.
Come sono rimasti delusi (erano andati a dormire convinti di avere vinto e si sono svegliati sconfitti il primo nel 1916 e il secondo nel 1948) Charles Evans Hughes e Thomas Dewey, nessuno.
Come abbiano sovvertito le previsioni e i sondaggi (che li davano non sconfitti ma demoliti) affermandosi Harry Truman e Donald Trump, nessuno.
Come gli sia riuscito di vincere tre votazioni di seguito quanto a voti popolari a livello nazionale e nel contempo perdere per Elettori (con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni) quella di mezzo (governando quindi per due mandati non consecutivi) come Grover Cleveland, nessuno.
Come sia riuscito (non avendo alcuno raggiunto la maggioranza degli Elettori e arrivando secondo quanto al numero degli stessi conquistati) a John Quincy Adams di essere eletto dalla Camera dei Rappresentanti, nessuno.
Come abbia ricevuto per due volte (quelle nelle quali si candidò) il cento per cento dei voti degli Elettori come George Washington, nessuno.
Come sia stato costretto (entrando in politica e dato che la lingua che parlava in famiglia era l’olandese) a imparare l’inglese alla stregua di Martin Van Buren, nessuno.
Come sia arrivato in due consecutive occasioni alla Convention democratica con il maggior numero di Delegati (ovviamente non la maggioranza assoluta) e non abbia ottenuto la Nomination al modo di William Gibbs McAdoo, nessuno.
Come Al Gore sia stato in grado (da Vice Presidente in carica alla ricerca della Nomination ) di vincere tutte le Primarie e ciascuno dei Caucus indetti dal suo partito per poi perdere l’elezione, nessuno.
Come abbia prevalso quanto a voto popolare (in un sistema che guarda agli Stati conquistati e non a tutto il Paese) nazionale di quasi tre milioni per risultare battuta al livello di Hillary Rodham Clinton, nessuna.
Come la stessa Clinton sia riuscita ad essere la sola ex First Lady e la sola donna arrivata alla Nomination di uno dei due partiti egemoni per poi perdere, nessuna.
Come sia capace di sorridere restando immobile, sostanzialmente distaccato, apparendo insieme presente e assente, Joe Biden, nessuno.

Varese, 22 novembre 2023

A proposito degli Stati: Red, Blue, Swing

Non è poi molto tempo che la carta geografica sulla quale si evidenziano nella notte (per noi per via del fuso orario) elettorale i risultati gli Stati attribuiti al Partito Repubblicano vengono colorati di rosso: Red States.
Quelli assegnati al Partito Democratico di blu: Blue States.
Quelli incerti, di viola diventando, per via del fatto che possono passare da una parte all’altra, Swing States.
Guardando agli ultimi decenni, un Blue State è certamente il Minnesota che vota per l’Asinello dal 1976 compreso.
Meglio, nel campo – ma non si tratta di uno Stato – il Distretto di Columbia (Washington D. C.) che è per i Democratici da sempre: quindici votazioni, quindici Asinelli.
Nel campo opposto, addirittura nove gli Stati Red che dal 1968 incluso – tredici di fila – si dichiarano tali: Alaska, Idaho, Kansas, Nebraska, North Dakota, Oklahoma,  South Dakota,  Utah, Wyoming.
Veramente Swing, l’Ohio che dal 1948 costantemente – unica eccezione prima del 2020 il 1960 – vota il Candidato che dipoi effettivamente vince, spostandosi pertanto.
Florida e Iowa gli altri, sia pure meno specifici, Swing States.

Varese, 22 novembre 2023

Grande cinema noir
La Ghirlandeina, Carter Burwell e i Fratelli Coen 

Si cerca il cadavere dello ‘Spizzichino’ (John Turturro).
Là, nella boscaglia.
Non lontano dalla città che il duro Leo (Albert Finney) governa ancora per quanto con mano sempre più leggera per via di un deviante amore indebitamente insorto che lo ammorbidisce.
Dice Tom (Gabriel Byrne) di averlo ucciso come gli era stato ordinato di fare.
Eddie (J. E. Freeman) non gli ha creduto neanche un minuto e non gli crede.
Lo fa troppo debole, quasi una ‘mammola’, per portare a termine un omicidio.
Ed è per verificare come sono andate veramente le cose che lo sta trascinando di qua e di là tra gli alberi chiedendogli di decidersi a dire dove sta il cadavere o di prepararsi a morire.
Tom è ridotto alla disperazione perché in effetti non ha ammazzato lo ‘Spizzichino’.
Cedendo alle sue suppliche, gli ha detto di sparire.
Aiutano Eddie nella ricerca due scagnozzi: ‘Tic Tac’ (Al Mancini) e Frankie (Mike Starr).
È quest’ultimo un tenore di pressoché mezza tacca che ispirato dall’aria boschiva in quel mentre canta a squarciagola.
Non una canzone o un’aria americana.
No.
Incredibilmente, la Ghirlandeina!
Carter Burwell – è lui l’autore della bellissima colonna sonora di ‘Miller’s Crossing’ (‘Crocevia della morte’, in Italia), il film di cui alla vicenda che Ethan e Joel Coen nel 1989/90 hanno tratto da due romanzi di Dashiell Hammett senza accreditarlo come autore originale, la sola cosa che non mi riesce di perdonare loro in tutta la carriera – ha scelto la bellissima, mitica ‘Canzoun’ modenese, che Luciano Pavarotti aveva portato al successo mondiale pochi anni avanti, perché dia la ‘cifra’ a e di questa imperdibile, suggestiva, quasi sacrale, scena.
Sbava e infine, accasciato, vomita Tom.
Ed ecco che ‘Tic Tac’ trova un corpo morto e avverte.
È irriconoscibile il trapassato per via dei due colpi ricevuti in volto a sfigurarlo.
Tornato in città dall’Inferno già pronto ad ingoiarlo, scoprirà Tom poi che il defunto è un ‘amichetto’ dello ‘Spizzichino’, un desso di nome Mink (Steve Buscemi) fatto fuori da lui e colà steso in vece sua.
Grande Cinema.
Grande ‘hard boiled school’s story’.
Grande ‘Canzoun’.
Grandi attori.
Grandi caratteristi.
Grandi sceneggiatori.
Grandi registi.
Vedere.
Rivedere.
Vedere.
Rivedere…
Ogni volta a cogliere – nelle apparentemente ai poveri di spirito sempre uguali immagini – sfumature, tonalità, gradazioni, nuance, scintillii, affermazioni

Varese, 21 novembre 2023

Un indispensabile sguardo sul Mondo, ovvero
L’Argentina ora punta sul ‘Trump della Pampa’

L’opinione di
Osvaldo Migotto
per il Corriere del Ticino

Toni sopra le righe, comizi infuocati e piani di governo decisamente fuori dagli schemi: l’ultraliberista Javier Milei ha ottenuto la vittoria più netta dal ritorno della democrazia nel Paese – Saprà muoversi con maggiore delicatezza rispetto a quella mostrata in campagna elettorale?

Nel corso della campagna per le elezioni presidenziali argentine che lo ha portato alla vittoria finale con il ballottaggio di domenica scorsa, l’ultraliberista Javier Milei è stato definito da alcuni osservatori ‘il Trump della Pampa’ per i suoi toni sopra le righe, per i comizi infuocati e per i piani di governo decisamente fuori dagli schemi.
Alla fine la vittoria a sorpresa è arrivata veramente e, stando alle analisi del quotidiano argentino Clarin, Milei ha ottenuto la vittoria più netta dal ritorno della democrazia in Argentina nel 1983, arrivando in testa in 21 delle 23 province (a cui va aggiunto il Distretto federale).
Molti argentini sono scesi in piazza per festeggiare, ma in realtà nel Paese c’è poco da rallegrarsi, vista la grave situazione in cui versa l’economia nazionale, con la classe media che sta letteralmente sparendo, andando a gonfiare le sacche di povertà che ormai inglobano oltre il quaranta per cento della popolazione.

Con le sue promesse elettorali che tra l’altro prevedono una drastica riduzione dell’iperinflazione (lo scorso ottobre ha toccato il picco, con il 143% su base annua, ma si temono aumenti ancora entro la fine dell’anno) e una decisa spinta alla privatizzazione delle aziende pubbliche, il neopresidente che entrerà in carica il 10 dicembre, ieri ha già ottenuto un primo successo: all’inizio delle contrattazioni alla Borsa di New York alcuni titoli argentini hanno registrato un forte rialzo, sulla spinta della sua vittoria alle presidenziali.
L’industria petrolifera YPF (a partecipazione statale) all’apertura di Wall Street ha registrato un +34%, mentre il vento favorevole ha spinto verso l’alto anche altri titoli, come quelli del Banco Galicia e del Banco Macro.
Congratulazioni e incoraggiamenti al nuovo presidente sono poi giunti da Stati Uniti, Cina, Russia ed altri Paesi, nonché dalla titolare del Fondo Monetario Internazionale (FMI), Kristalina Georgieva, con cui Milei dovrà negoziare un pagamento da due miliardi il prossimo gennaio.
Pertanto l’aria di festa a Buenos Aires non è destinata a durare a lungo. Considerato che il candidato presidenziale ultraliberista al primo turno era arrivato secondo raccogliendo poco meno del 30% dei voti, se domenica è arrivato primo con oltre il 55% dei voti è presumibile che molti argentini al ballottaggio abbiano votato per il candidato del partito ‘La Libertà Avanza’ (una coalizione tra formazioni politiche di destra ed estrema destra) scegliendo il meno peggio.
In effetti il peronismo argentino ha presentato per la corsa alle presidenziali il ministro dell’Economia uscente Sergio Massa, ossia il responsabile dell’ulteriore crollo dell’economia argentina, che già sotto la presidenza del liberista Mauricio Macri aveva subito duri contraccolpi.
Diversi argentini, stanchi dei partiti tradizionali hanno così scelto la via del cambiamento.
Lo stesso era accaduto in Venezuela nel 1998 quando Ugo Chavez vinse a sorpresa le elezioni presidenziali alla guida del nuovo partito ‘Movimento Quinta Repubblica’.
Allora si trattava della vittoria di una formazione politica di estrema sinistra, ma spesso anche altri tipi di estremismo portano conseguenze nefaste.
Va comunque detto che oltre ai proclami dalla non facile realizzazione, quali la dollarizzazione dell’economia argentina (ossia la sostituzione del peso con il dollaro americano) o la chiusura della Banca Centrale, il neopresidente argentino ha promesso di voler sempre agire nel rispetto delle regole esistenti.
Si tratterà ora di vedere se il ‘Trump della Pampa’ saprà muoversi con maggiore delicatezza rispetto a quella mostrata in campagna elettorale, per tessere indispensabili alleanze in Parlamento, dove il suo partito è lontano dall’avere una solida maggioranza.

Varese, 21 novembre 2023

Musica americana

contributo di
Federica della Porta Rodiani Carrara Raffo 
(Testo redatto l’1 agosto 2022)

C’è la New York dei quartieri eleganti, dei palazzi in mattoni rossi, dei pochi gradini in pietra davanti a portoni in ferro battuto e legno, quella di Meg Ryan che passeggia per Central Park in abito leggero o che desidera comprare matite colorate in un qualche negozietto di Soho.
C’è poi la New York del jazz raffinato dei film di Woody Allen, ammantata di un velo malinconico di sax e pianoforte dove Annie cammina incerta toccandosi i capelli che spuntano da una improbabile bombetta nera.
Le note di Gershwin sono il sottofondo di una panchina che guarda il ponte di Brooklyn.
La voce di Armstrong accompagna un mercatino delle zucche di Halloween o l’allestimento di un grande albero di Natale all’interno di Sax.
E ancora, c’è la città di Sinatra e degli uomini d’affari che fermano il taxi per andare a Wall Street.
La musica si alza e diventa sfrontata, ti porta a Broadway nei teatri che provano ‘Oklahoma’ o ‘West Side Story’, ti accompagna in ristoranti costosi per poi lasciarti insieme a Dean Martin in qualche trattoria italoamericana.
I luoghi cambiano come i colori, le stagioni e le persone e la musica è il fil rouge che associa emozioni ad immagini facendoti innamorare di un’America che ti fa credere che dall’elegante appartamento di Manhattan la periferia sia davvero, o per fortuna, molto lontana.
Ma il New Jersey è a pochi passi.
Basta attraversare un ponte o prendere un treno ed ecco che lo scenario cambia e si mette a suonare la musica di altri Americani, quelli che si svegliano all’alba e che intorno casa hanno boschi e laghi, non grattacieli.
Degli operai con mani callose e rughe profonde segni del duro lavoro, quelli che hanno un porticato mal messo e la zanzariera che non verrà mai riparata e che tuttavia bevono ogni sera una birra felici del poco che hanno, accanto a un vecchio stereo che suona le canzoni del ‘Boss’.
Bruce Springsteen è il cantautore che più di
tutti parla all’uomo medio: cresciuto in una famiglia semplice con poche possibilità, ha iniziato cantando in locali vicino a casa, parlando nelle canzoni di tematiche comuni ai piu’: il reduce del Vietnam che non trova il proprio posto in una società che non si accorge di lui, il disoccupato che non riesce a mantenere la famiglia, la liceale che scopre di essere incinta quando il suo ragazzo viene chiamato al fronte.
E mentre Bruce canta per i pompieri deceduti l’11 settembre, una toccante ‘The Rising’ per incitare una città e una nazione a rialzarsi, arriviamo alla Boston degli Aerosmith che da quasi cinquant’anni tengono alta la bandiera del rock, per poi atterrare dall’altra parte degli States dove la scena musicale è più scanzonata e metallara.
A Los Angeles, nello storico Whisky a GoGo sono passate tutte, o quasi, le più grandi band che fanno rock and roll: dai Doors ai i Guns ‘N Roses, dai i Motley Crüe ai Red Hot Chilli Peppers infiammando le platee con i loro rif di chitarra chiassosi e dirompenti, la potenza della batteria e il basso che in alcuni casi fa da protagonista.
Qui il concetto di sesso-droga e rock and roll è più che mai vitale e vissuto in modo divertente ed esplosivo e pare impossibile che a Nord, nella piovosa e cupa Seattle per più di un ventennio la gioia dello sballo sia stata trattenuta e compressa in un malinconico e controllato spirito introspettivo con il Grunge e i suoi esponenti principali (Cobain, Vedder con i Pearl Jam e il compianto Cornell dei Sound Garden) che pure hanno lasciato (e continuano a farlo) una traccia indelebile nel panorama mondiale.
Ma gli Stati Uniti non sono solo questo, sarebbe impossibile terminare il viaggio – che in realtà completare non si può tanto è vasto il panorama musicale – senza parlare del Country, fenomeno prettamente americano di cui noi sappiamo davvero poco, ma che nel territorio statunitense riscuote da sempre grandissimo seguito.
Fondato sull’Old Time Music, un genere contraddistinto dall’uso di violino e banjo, e dalla musica folk anglo-irlandese che si divide in diversi filoni, di cui i più importanti sono: il bluegrass, il western e le sue tradizionali ballate. Johnny Cash, Patsy Clyne, Dolly Parton e Hank Williams (scomparso a ventinove anni) sono solo alcuni dei cantanti diventati vere e proprie icone seguite e venerate da un pubblico che emula la loro vita e compra i loro dischi tanto che l’album ‘Greatest Hits’ degli Eagles è tutt’ora quello più venduto di sempre.

Varese, 21 novembre 2023

Charles Dickens e Oscar Wilde in America

Uno
Presidenti e personaggi famosi: John Tyler e Charles Dickens

di Roger Miller

Nel 1842, durante la presidenza di John Tyler, il famoso scrittore britannico Charles Dickens fece la prima delle sue due visite negli Stati Uniti.

Dickens non aveva ancora trent’anni quando salpò da Liverpool sul piroscafo Britannia il 3 gennaio di quell’anno, ma era all’apice della sua popolarità.
Era nato a Portsmouth, in Inghilterra, in condizioni di povertà.
Lasciò la scuola all’età di dodici anni per lavorare in una fabbrica di stivali dopo che il padre era stato rinchiuso in una prigione per debitori.
Dopo un triennio tornò a scuola, prima di iniziare la carriera letteraria come giornalista.
Dickens diresse un giornale settimanale per vent’anni, ma sarebbe diventato famoso soprattutto per molti dei romanzi che scrisse e che rimangono tuttora dei classici.
Il successo letterario di Dickens iniziò con la pubblicazione a puntate, nel 1836, di The Pickwick Papers.
Nel giro di poco tempo, divenne una celebrità letteraria internazionale, famoso per il suo umorismo, la sua satira e la sua acuta osservazione della società.
La maggior parte dei suoi romanzi fu pubblicata a puntate mensili o settimanali.
I finali a rischio nelle sue pubblicazioni a puntate tenevano i lettori con il fiato sospeso.

All’epoca della sua prima visita negli Stati Uniti, aveva già scritto Oliver Twist (pubblicato mensilmente nella Bentley’s Miscellany dal febbraio 1837 all’aprile 1839), Nicholas Nickleby (un’altra pubblicazione a puntate mensili, dall’aprile 1838 all’ottobre 1839), L’Old Curiosity Shop (ancora a puntate settimanali nel Master Humphrey’s Clock, dall’aprile 1840 al novembre 1841) e Barnaby Rudge (anch’esso a puntate settimanali nel Master Humphrey’s Clock, dal febbraio al novembre 1841).

Dickens sperava di aumentare la propria popolarità su entrambe le sponde dell’Atlantico e, con l’approvazione dei suoi editori, Chapman and Hall, volle vedere di persona la giovane nazione.
Fu accompagnato dalla moglie Catherine e dalla cameriera Anne Brown.
Il viaggio da Liverpool a Boston si rivelò uno dei più burrascosi degli ultimi anni e la sua cabina a bordo del Britannia era piccola.

Arrivarono a Boston il 22 gennaio 1842 e Dickens fu accolto da una folla adorante, tanto che il suo arrivo fu paragonato da alcuni storici a quello dei Beatles più di un secolo dopo.

All’inizio Dickens si rallegra dell’attenzione, ma ben presto la richiesta incessante del suo tempo comincia a stancarlo.

Se ne lamentò in una lettera all’amico John Forster, scrivendo: “Non posso fare nulla di ciò che voglio fare, non posso andare da nessuna parte dove voglio andare e non posso vedere nulla di ciò che voglio vedere.
Se giro per strada, mi segue una moltitudine”.

Uno dei temi all’ordine del giorno di Dickens fu quello di cercare di far valere l’idea del diritto d’autore internazionale.
Le sue opere erano spesso piratate in America senza alcun compenso.
Dickens cercò di convincere coloro che lo ascoltavano che un tale accordo sarebbe stato reciprocamente vantaggioso per gli autori americani che venivano piratati in Europa.
Le sue argomentazioni furono accolte con critiche dalla stampa, che accusò Dickens di essere un mercenario e di essere venuto in America al solo scopo di fare soldi.
Non ci sarà una legge internazionale sul diritto d’autore fino al 1891, oltre vent’anni dopo la sua morte.

Durante la sua permanenza a Boston, Dickens visitò il Perkins Institution e la Massachusetts School for the Blind, dove osservò Laura Bridgman, una ragazza cieca e sorda che riuscì a ricevere un’educazione straordinaria grazie all’insegnamento di Samuel Gridley Howe, direttore della scuola.

Dickens intendeva confrontare le istituzioni pubbliche americane con quelle britanniche.
Visitò ospedali per pazzi, orfanotrofi e scuole per bambini ciechi e sordi in quasi tutte le città che visitò.
Visitò anche le fabbriche.

Nel marzo del 1842, mentre si trovava a Washington, visitò la Casa Bianca e incontrò il decimo presidente degli Stati Uniti John Tyler.

Dickens sperava che il suo tour avrebbe rivelato se la democrazia americana fosse un miglioramento rispetto al modello della monarchia britannica. Arrivato nella capitale, Dickens trascorse un’intera settimana a osservare la politica americana.

Fece numerose visite al Congresso e incontrò diversi leader.
In attesa di incontrare il presidente Tyler, si sedette con altri uomini che cercavano un’udienza con il presidente.
Fu disgustato dalla loro abitudine di sputare tabacco e scrisse che “elargivano i loro favori così abbondantemente sul tappeto, che ritengo scontato che le domestiche presidenziali abbiano salari elevati”.

Dopo questa spiacevole esperienza, Dickens incontrò il presidente Tyler in un ufficio il 10 marzo e lo descrisse così:
“Aveva un aspetto un po’ stanco e ansioso, come è giusto che sia, essendo in guerra con tutti.
Ma l’espressione del suo viso era mite e piacevole, e i suoi modi erano straordinariamente non affettati, gentili e gradevoli.
Mi è sembrato che, nell’insieme del suo portamento e del suo comportamento, si adattasse alla sua posizione in modo singolare”.

Al loro incontro Tyler, accogliendo Dickens, disse di essere stupito di vedere un uomo così giovane. Dickens sorrise e in seguito scrisse che aveva pensato di ricambiare il complimento ma non lo fece, perché Tyler “aveva un aspetto troppo logoro e stanco per giustificarlo”.

Il 15 marzo Dickens e Tyler si incontrarono di nuovo, questa volta in occasione di un grande ricevimento in onore anche di Washington Irving, che Tyler aveva appena nominato ambasciatore americano in Spagna.
Il numero di persone venute a vedere il famoso autore fu stimato in tremila, solo nella East Room.
La polizia ebbe difficoltà a controllare la folla e il cordone di sicurezza che di solito era mantenuto intorno a Tyler è stato descritto come “ridotto a quasi nulla”.
Un altro partecipante ha descritto l’evento come “un ingorgo totale”.

Durante questo tour Dickens incontrò un altro presidente, l’ex presidente e ora deputato John Quincy Adams.
Dickens ebbe un’impressione più favorevole del sesto presidente.
Scrisse: “Adams è un bel vecchio, settantasei anni, ma con un vigore, una memoria, una prontezza e una grinta sorprendenti”.

Dickens incontrò anche due dei tre membri del “grande triumvirato” del Senato.
Gli piacque Henry Clay, che descrisse come “uno degli uomini più piacevoli e affascinanti che abbia mai visto.
È alto e snello, con lunghi capelli grigi e flosci, una bella testa, lineamenti raffinati, occhi brillanti, una bella voce e un modo di fare più franco e accattivante di quanto abbia mai visto in un uomo, a qualsiasi stadio della vita.
Ne rimasi perfettamente affascinato”.
Incontrò anche Daniel Webster e nei suoi scritti osservò che Webster “fingeva di astrarsi di fronte alla terribile pressione degli affari di Stato; si sfregava la fronte come uno stanco del mondo”.

Dickens non era generalmente impressionato da Washington DC come città.
Scrisse che questa “città dalle magnifiche intenzioni”, come la definì, era piena di “ampi viali che non iniziano in nulla e non portano da nessuna parte; strade lunghe un miglio a cui mancano solo case, strade e abitanti; edifici pubblici che hanno bisogno solo di un pubblico per essere completi; e ornamenti di grandi arterie, a cui mancano solo grandi arterie per ornare”.

Durante il viaggio Dickens incontra anche i giganti della letteratura americana Henry Wadsworth Longfellow, Edgar Allen Poe e Washington Irving.

Poe ha chiesto l’aiuto di Dickens per trovare un editore britannico, cosa che Dickens ha poi cercato di fare senza successo.
Quando fallì nei suoi tentativi, riferì che i suoi rapporti con Poe si erano “raffreddati”.

Dickens voleva vedere il Sud e osservare di persona la schiavitù.
Aveva progettato di andare a Charleston, ma a causa del caldo e della lunghezza del viaggio si accontentò di Richmond, in Virginia.
Ciò che vide a Richmond non gli piacque affatto, sia per le condizioni degli schiavi che per l’atteggiamento dei bianchi nei confronti della schiavitù.

In American Notes, un libro scritto dopo il suo ritorno in Inghilterra per descrivere la sua visita in America, scrisse un resoconto scortese sull’istituzione della schiavitù.
Citò i resoconti dei giornali di schiavi fuggitivi orribilmente sfigurati dai loro crudeli padroni.
Da Richmond, Dickens tornò a Baltimora, passando per Washington, e iniziò un viaggio verso ovest fino a St. Louis, viaggiando su battelli fluviali e diligenze.
Scoprì di avere più anonimato e libertà personale quanto più si spingeva verso ovest.

Charles Dickens fu generalmente deluso dalla sua esperienza americana.
Scrisse: “Questa non è la repubblica che sono venuto a vedere; non è la repubblica della mia immaginazione”.

In American Notes criticò la stampa americana, che incolpò della mancanza di informazioni generali degli americani.

Nel romanzo successivo, Martin Chuzzlewit, Dickens invia il giovane Martin in America, usando lo scritto come ulteriore veicolo per criticare la giovane repubblica.

La risposta americana a entrambi i libri fu estremamente negativa e fece arrabbiare molti americani.

Dickens cercherà di fare ammenda durante la sua seconda visita in America nel 1867-68.

 

Due
Oscar Wilde
in America
di MdPR

Grande successo e repliche su repliche a New York, a partire dal mese di settembre del 1881, del musical ‘Patience’, di Gilbert e Sullivan, operetta satirica che, ripetendo pari pari la estremamente positiva precedente esperienza londinese, diverte in specie la locale alta borghesia mettendo alla berlina gli esteti.
Produttore dello spettacolo Richard d’Oyly Carte che prende la palla al balzo e, quasi certamente seguendo un suggerimento di Sarah Bernhardt, propone all’allora ventottenne ma già famosissimo Oscar Wilde – ovviamente, all’epoca, il massimo esponente dell’estetismo – una serie di conferenze per tutti gli Stati Uniti (ma non trascurando il Canada) sulle tracce di Charles Dickens che aveva fatto quindici anni prima la medesima esperienza nel corso della sua seconda visita.
Dotatosi di un nuovo, particolarissimo guardaroba a suo parere adatto alla bisogna a causa del quale verrà messo alla berlina dai fogli satirici londinesi, Wilde si imbarcò sul transatlantico Arizona per approdare a New York la sera del 2 gennaio del 1882.
Essendo la discesa a terra dei passeggeri in programma per il giorno dopo, la nave fu subito raggiunta da alcune lance cariche di giornalisti che, saliti a bordo, scovarono Oscar e lo tempestarono di domande.
Celebre la sua prima battuta ‘americana’:
“Non sono pienamente soddisfatto dall’Atlantico, non è così grandioso come mi aspettavo”.
Famosissima la sua dichiarazione, il dì seguente, alla dogana:
“Età diciannove anni, professione genio, condizioni patologiche il mio talento”.
Da allora in poi, tutto quanto il grande irlandese ebbe a dire finì immancabilmente sulla pagina di un qualche giornale e non solo in America vista l’attenzione con la quale i corrispondenti dei quotidiani e delle riviste inglesi lo seguivano.
Wilde trascorrerà l’intero 1882 in giro per il continente nordamericano per tornare a Londra solo l’anno successivo, proclamare la ‘nascita’ di un secondo e nuovo se stesso e da lì trasferirsi a Parigi dove soggiornerà cinque mesi all’Hotel Voltaire.
Sarà fugacemente ancora e per un’ultima volta a New York nell’estate del 1883 per presentare, per il vero con pochissimo successo, il dramma ‘Vera’.
Ma gli Stati Uniti, che certamente non gli piacquero, e gli atteggiamenti, per lo più provinciali, degli americani (in particolare, delle signorine: “… affascinanti piccole oasi di graziosa irragionevolezza in un vasto deserto di pratico buon senso”, per il cui viaggio di nozze, invariabilmente alle cascate del Niagara, si preoccupava considerando che quella “visione dev’essere una delle primissime delusioni, se non la più acuta, della vita coniugale americana”) torneranno molte volte a fare capolino e nelle sue sempre brillanti conversazioni e nelle sue geniali opere.
Assai criticamente dirà:
“…la scoperta dell’America fu l’inizio della morte dell’arte”.
“E’ il paese più rumoroso che sia mai esistito.
Questo continuo tumulto finirà per distruggere le facoltà musicali”.
“Un serissimo problema che il popolo americano dovrebbe prendere in considerazione è quello di coltivare la buona educazione.
E’ il più evidente, principale difetto della civiltà americana”.
Cattivissimo, scriverà in una lettera:
“Gli americani sono certamente grandi cultori degli eroi, e li scelgono sempre tra le classi criminali”.
Scolpita nel marmo la celeberrima battuta:
“Oggi, abbiamo davvero tutto in comune con l’America, tranne la lingua, naturalmente” (‘Il fantasma di Canterville’).
Metterà in bocca ai suoi personaggi non poche ulteriori sgradevolezze.
“Molte americane, quando lasciano il paese natio, assumono l’aria di
ammalate croniche, convinte che questa sia una forma di raffinatezza europea” (ancora ‘Il fantasma di Canterville’).
“Forse, dopo tutto, l’America non è mai stata scoperta.
Secondo me è stata semplicemente avvistata” (‘Il ritratto di Dorian Gray’).
”Dicono che gli americani buoni quando muoiono vanno a Parigi”. “Davvero?
E dove vanno gli americani cattivi quando muoiono?”.
“In America!”…(di nuovo, ‘Il ritratto di Dorian Gray).
…“Queste ragazze americane si portano via i migliori partiti.
Perché  non se ne stanno al loro paese?
Ci dicono sempre che è il paradiso delle donne.”
“E’ vero, Lady Caroline.
Ed è per questo che come Eva sono tanto impazienti di uscirne” (‘Una donna senza importanza).

Varese, 20 novembre 2023

Nel giorno nel quale
Joe Biden
compie 81 anni

da Huffington Post

Uno
“Joe Biden oggi compie 81 anni e l’età del presidente torna al centro del dibattito. Politico scrive che durante un raduno con i fundraiser, a chi chiedeva come rispondere alle sempre più crescenti preoccupazioni dei donatori, come degli elettori, sull’età troppo avanzata del presidente, il vice manager della campagna Quentin Fulks abbia risposto che bisogna mettere l’enfasi sugli storici risultati ottenuti nel primo mandato di Biden.
“Penso che la strategia sia di non affrontare la cosa, di considerare le domande come una cosa stupida”, rivela un donor democratico che ha sollevato la questione dell’età di Biden con esponenti democratici che “semplicemente si sono rifiutati persino di riconoscere che questo sia un problema”.
L’approccio, quello appunto di considerare l’età un tabù  non sta convincendo molti donatori, fundraiser e strateghi democratici che, rivela ancora Politico, considerano che forse questo non sia il modo migliore per affrontare quella che rischia di essere la vulnerabilità maggiore del presidente.

Bisogna poi considerare, continua Politico, che alleati di Biden, e anche membri della famiglia, sono sempre preoccupati che il presidente, pur nel pieno delle sue facoltà mentali, possa dare un’immagine di fragilità.
Tanto che – rivelano fonti informate – persone vicine al presidente hanno discusso la possibilità di farlo camminare poco quando è ripreso dalle telecamere e addirittura sostituire le scarpe formali con calzature più comode per evitare maggiormente il rischio di cadute.
Ma c’è anche chi è convinti che la campagna dovrebbe rivendicare l’età di Biden come una prova e garanzia di saggezza in un periodo turbolento, usando con ironia la formula “Grandpa Joe”, nonno Joe.
Poi c’è chi ritiene che, se Biden riceve continui attacchi, anche interni, per l’età, nessuno fa la stessa cosa con Trump che ha 77 anni.

Il 70% dei possibili elettori di sei stati chiave considerano Biden “troppo vecchio per essere un presidente efficace”, secondo un sondaggio New York Times-Siena College, mentre solo il 39% condivide la stessa opinione su Trump.

Due
ad opera di
Massimo Teodori

“L’altro problema in casa Biden si chiama Joe Manchin.
Una candidatura da indipendente del senatore democratico potrebbe rivelarsi un disastro per la rielezione, affermano diversi senatori democratici commentando la possibile discesa nel campo delle presidenziali 2024 del collega della West Virginia che ha annunciato che non si ricandiderà al Senato con la dichiarata intenzione di sondare il terreno per la possibilità di un movimento nazionale sulle sue posizioni molto più centriste di quelle dell’attuale presidente. Alcuni democratici, interpellati da The Hill, parlando di vero e proprio “scenario da incubo” con Manchin che ruba voti a Biden finendo per rimettere la Casa Bianca nella mani di Donald Trump.
“Penso che sarebbe una cosa molto, molto sventurata se Joe Manchin decidesse di candidarsi”, afferma Debbie Stabenow, senatrice del Michigan, sottolineando come Manchin sia un politico esperto e sa benissimo che “se dovesse entrare nella corsa questo renderebbe più probabile rifare Trump presidente”.
Da parte sua Manchin conferma che “assolutamente” sta prendendo in considerazione una candidatura perché farebbe “qualsiasi cosa per aiutare il Paese”.
Ma continua a ripetere di non aver deciso sulla candidatura e che c’è “un sacco di tempo” per farlo, contestando il fatto che una sua discesa in campo favorirebbe Trump.
“Io non accetto questo scenario – ha detto in un’intervista – l’ho sentito, ma non lo accetto, perché se guardiamo alla storia, non credo che si pensasse che Ross Perot avrebbe fatto vincere Bill Clinton nel 1992″.

Varese, 20 novembre 2023

A proposito della appartenenza regionale degli italiani immigrati in America

Fino al 1861, allorquando il 17 marzo cambiò denominazione diventando Regno d’Italia, gli abitanti del Regno di Sardegna che emigravano, arrivando oltreoceano, venivano in non poca parte dei casi regolarmente registrati come ‘Sardi’.
(Celebre, è vero quanto alla Argentina, la circostanza relativa all’avo che dette a Juan Domingo Peron il cognome, il quale avo, genovese ma appunto registrato come detto, diede origine alla vana ricerca in terra sarda del luogo di partenza).

Varese, 20 novembre 2023

Contributo

Frammenti di diario di un viaggio in America

di Gianfranco Fabi
già Direttore di Radio 24 e lungamente Vice Direttore de Il Sole 24 Ore

Il parere dei viaggiatori di lungo corso era unanime: “l’America non è New York”.
E così, esauriti in pochi giorni i tradizionali appuntamenti della Grande Mela, che cosa ci può essere di meglio che un bel viaggio in treno verso la capitale, Washington, per un’esperienza di vita a contatto con i veri americani.
A ben guardare i vagoni semivuoti non offrivano grandi possibilità per socializzare ed il paesaggio che scorreva dai finestrini ricordava molto quello della pianura padana non fosse per le skyline di Filadelfia e Baltimora che davano l’idea di grandi e solide città.
Washington finalmente, da dove con una bella macchina Hertz ci avviamo lungo strade sconosciute.
Strade larghe che invitavano a correre, ma con chiari limiti di velocità (di solito settanta miglia all’ora) con la vettura che si premurava regolarmente di avvertire non appena si avvicinavano.
Alla ricerca della ‘vera’ America ecco allora, a poco più di due ore dalla capitale, un parco nazionale: Shenandoah.
Una serie di collinette con grandi cartelli che invitavano a percorrere i sentieri alla scoperta del bosco.
Sembrava di essere al Brinzio (1).
Appagati dai (quasi) monti non poteva mancare una puntata verso il mare magari per scoprire un po’ di storia della grande America.
Eccoci allora puntare su Williamsburg, una cittadina che fu la capitale della colonia della Virginia dal 1699 al 1780 ed ebbe, raccontano le guide, un ruolo fondamentale nella Rivoluzione Americana. Insieme a Jamestown e Yorktown, fa parte del ‘triangolo storico’.
A Williamsburg arriviamo di sera e troviamo un motel appena superato il cartello della città.
Quindi, un salto in centro per vedere il tanto decantato quartiere storico dove ogni anno, ma in tutt’altro periodo, si svolge un evento con figuranti in costume che ricorda la storia di tre secoli fa.
Una buona bistecca, quattro passi tra edifici anonimi ed è ora di tornare al motel per un sonno ristoratore.
Peccato che andare sia una cosa, e proprio tornare un’altra.
Peccato che le strade di una media città americana siano tutte uguali e spesso a senso unico per cui non si possono percorrere al contrario.
Peccato che non ci sia un’anima a cui chiedere informazioni.
Dopo due ore di girovagare (e per fortuna che i self service di benzina non mancano) la decisione di cercare l’ultima cittadina incontrata prima di Williamsburg, una ventina di chilometri, e poi provare a ricordare la strada fatta.
Alla fine, assicuro, vedere l’insegna del motel è stato come scoprire l’America!

(1)
Per i non Varesini (che vanno per questo sgridati? si!), un simpatico paese e una zona boschiva declinante dalla Città Giardino alla Valcuvia che precede Luino e il Maggiore.
Un complimento il paragone, visto che di meglio, specie d’autunno, traccia non v’è!

Varese, 20 novembre 2023

Michael Bloomberg
a Pago Pago

‘Territorio non incorporato’ degli Stati Uniti d’America, così sono definite le Samoa Americane.
Per quanto, appunto, per questo non considerate come Stato hanno un proprio delegato, peraltro senza diritto di voto, nella Camera dei Rappresentanti a Washington.
Per di più, in loco, durante la campagna per il conferimento della Nomination si svolge uno dei ben cinquantasei (?!) Caucus o Primarie del partito democratico.
Orbene, è nel 2020 che il plurimilardario Michael Bloomberg, già Sindaco di New York, già repubblicano, già indipendente, non sopportando neanche l’ipotesi di una conferma dell’odiato Donald Trump, dopo avere tergiversato, si candida infine nelle fila appunto dem.
Spendendo cifre esorbitanti, nel Super Tuesday esce dovunque sconfitto dai rivali interni, tranne – una battuta che purtroppo funziona solo in italiano – che nelle citate Samoa la cui capitale infatti si chiama Pago Pago!!!

Varese, 20 novembre 2023

Recitazione teatrale e recitazione cinematografica.
Perché di Eduardo De Filippo Orson Welles poteva dire ‘Sulla scena, nessuno in Europa che gli si possa anche solo avvicinare’ e nel contempo risultasse davvero poco sullo schermo.

Da sempre, o, più esattamente, da quando il cinema esiste, ci si chiede quale sia la strana ragione per cui vere ‘star’ del teatro internazionale, applauditissime sulle scene, non riescano – se non in rarissimi casi ed escludendo, chissà perché, buona parte degli Inglesi – a proporsi durevolmente nel mondo cinematografico al livello dei divi (hollywoodiani o meno che siano) più acclamati.
Un primo tentativo di dare una risposta al quesito è quello del drammaturgo americano Arthur Miller.
Nella bella autobiografia intitolata ‘Svolte’, racconta della propria esperienza sul set del film ‘Gli spostati’ (del quale aveva scritto la sceneggiatura), di John Huston, opera interpretata, oltre che dalla allora moglie di Miller, Marilyn Monroe, da Clark Gable, Montgomery Clift, Ely Wallach e Thelma Ritter.
Gable, all’epoca, era da molti ritenuto ‘il più grande’ e per questo il drammaturgo si preoccupò molto, durante le riprese, nel vederlo ‘dal vivo’ quasi svogliato ed assente ed arrivò al punto di pensare che tutte le scene che lo riguardavano andassero rigirate.
Con grande meraviglia (e, naturalmente, in totale contrasto con la sua lunga esperienza teatrale), invece, esaminando i ‘giornalieri’ e potendo così meglio valutare l’interpretazione del ‘Re di Hollywood’ sullo schermo, si accorse di quanto essa fosse persuasiva.
Concluse, quindi, per l’esistenza di una recitazione che definì ‘cinematografica’, del tutto diversa, se non opposta, a quella teatrale, e che, indubbiamente, proprio per questa ‘specificità’, doveva risultare molto difficile per un interprete, anche se ottimo, delle scene di Broadway, o di un altro qualsiasi consimile ‘tempio’ esprimersi al massimo in ambedue i campi perché i ‘mezzi’ necessari sono totalmente diversi.
Anche il citato John Huston – celebre regista americano tra i più colti che il cinema abbia avuto – si sofferma sullo stesso argomento (senza arrivare ad una ‘vera’ soluzione) nell’opera autobiografica ‘Cinque mogli e sessanta film’, specialmente a proposito di Montgomery Clift e di Robert Mitchum, da lui ritenuto ‘il più grande attore di cinema di tutti i tempi’.
(Si può qui ricordare, per inciso, il celebre aneddoto, più volte riportato, che racconta come lo stesso Mitchum, saputo da un giornalista della definizione di Huston che lo riguardava, abbia così risposto:
‘Ogni volta che incontro John gli do dieci dollari perché continui a ripetere quella frase’).
Una pronuncia pressoché definitiva sull’argomento – che resta, comunque, misterioso – è, alla fine, quella che Orson Welles dà nel corso del primo capitolo della lunga e straordinaria intervista concessa a Peter Bogdanovich e pubblicata sotto il titolo ‘Io, Orson Welles’.
La scena del colloquio tra i due è Roma e l’oggetto della discussione Eduardo De Filippo che, poco dopo, andranno a vedere a teatro
Welles: “esistono ‘attori cinematografici’.
Cooper era un attore cinematografico.
Un caso classico.
Lo vedevi lavorare sul set e pensavi: ‘Dio mio, questa dovranno rigirarla!’.
Praticamente, sembrava che non ci fosse.
Poi, vedevi i giornalieri e riempiva lo schermo”.
Bogdanovich: ‘Come lo spieghi tu?’
Welles: ‘Personalità!
Non presumo di risolvere questo mistero.
Ma conta sempre più della tecnica.
Per esempio, chi conosce meglio la tecnica di Laurence Olivier?
Eppure, per quanto bravo sia al cinema, è solo l’ombra dell’attore che impone la sua presenza magnetica sulle scene teatrali.
Perché la macchina da presa sembra diminuirlo?
E ingrandisce Gary Cooper che di tecnica non ne sapeva niente?
E adesso, proprio adesso, vedrai il perfetto esempio di questo mistero: Eduardo De Filippo.
Sulla scena non c’è nessuno in Europa  che gli si possa anche solo avvicinare.
Al cinema non c’è più.
La macchina da presa non lo ama!
Questa, per inciso, è la teoria di Akim Tamiroff’ (famoso caratterista di origine russa – spesso interprete dei film di Welles – che parlava un pessimo ma divertente inglese).
‘Machina guarda tipo uno e machina dice: zii, questo me piace!
Machina guarda tipo due, machina dice: nooo!
Ghi sape perché machina.
Nessuno sape!’
Ha ragione, nessuno lo sa!’
Bogdanovich: ‘Si pensa che la macchina da presa sia una grande macchina della verità.
Secondo te si vede quando l’emozione è falsa?’
Welles: ‘Sicuro, è una specie di cartina di tornasole.
Quello che la macchina registra è l’assenza o la presenza del sentire.
Quello che fa è fotografare il pensiero.
Registra qualcosa che l’occhio nudo distingue solo vagamente scorgendone qualche traccia e te la registra forte e chiaro: registra il pensiero!
Ogni volta che un attore pensa, nel film si vede!’.
Tutta un’altra faccenda, dunque, rispetto al teatro.
Non certamente l’unica, per carità.
Ma eccezionalmente ‘giusta’ ad illustrare l’assunto infine wellesiano, la scena nella quale i due fratelli Spellacy (Robert De Niro e Robert Duvall) siedono in ‘L’assoluzione’ di Ulu Grosbard l’uno accanto all’altro al bancone di un bar laddove si sono dati appuntamento.
Hanno questioni varie sulle quali confrontarsi.
Due parole e un successivo ‘momento’ nel quale sono l’uno accanto all’altro – la tazzina di caffè davanti – senza proferire verbo.
La macchina da ripresa li ama (lo meritano assolutamente) e non v’è bisogno alcuno che, per trasmettere agli spettatori i pensieri e le sensazioni che li percorrono, parlino.

Varese, 19 novembre 2023

Lettura

Black Face
Storia di uno stereotipo razzista

di Emanuela Musto

da RSI

Forse non tutti sanno cosa sia la Black Face e perché viene considerata una forma di travestimento problematica. Con black face si intende la pratica di dipingersi il volto di nero per imitare persone nere. L’interprete sottolinea ed esaspera una serie di stereotipi negativi all’interno della comunità afroamericana con lo scopo di divertire il pubblico. Il personaggio rappresentato finisce per diventare inevitabilmente grottesco ridicolizzando così un’intera razza.

In America è un fenomeno molto conosciuto, ma non dobbiamo andare così lontano dalla Svizzera per vedere degli esempi piuttosto recenti come Aldo “mascherato” da immigrato afrodiscendente ne Il Ricco, il povero e il maggiordomo, film uscito nel 2014, alle più recenti “maschere nere” presentate a Tale e Quale Show. La pratica nasce agli inizi del ‘800 nei contesti di circhi e spettacoli per il pubblico in cui l’interpretazione del menestrello caratterizzava i neri come pigri, ignoranti, superstiziosi, ipersessuali e inclini al furto e alla codardia.

Lo storico Dale Cockrell notò che i bianchi della classe operaia americana che si sentivano “spremuti politicamente, economicamente e socialmente dall’alto, ma anche dal basso, inventarono il menestrello” come un modo per esprimere l’oppressione che contraddistingueva l’essere membri della maggioranza, ma al di fuori della norma bianca.
Ma cosa sono i menestrelli?

Queste rappresentazioni comiche del “blackness” da parte di bianchi non possono essere completamente separate dalla derisione razziale e dagli stereotipi al suo interno. Distorcendo le caratteristiche e la cultura degli afroamericani – compreso il loro aspetto, la lingua, la danza, il comportamento e il carattere – gli americani bianchi furono in grado di codificare la “bianchezza” attraverso le linee di classe e geopolitiche. I primi spettacoli di menestrelli furono eseguiti nella New York del 1830 da artisti bianchi con volti anneriti e abiti laceri che imitavano gli africani ridotti in schiavitù nelle piantagioni del sud.

Thomas Dartmouth Rice, noto come il “padre dei menestrelli”, sviluppò il primo personaggio dalla faccia nera popolarmente conosciuto, “Jim Crow” nel 1830.

“Venite ad ascoltare
ragazzi e ragazze
Canterò una piccola canzone
Il mio nome è Jim Crow
Girati intorno
Girati e fai così
Ogni volta che mi muovo
salto Jim Crow”

Queste parole provengono dalla canzone “Jim Crow”, come appariva nello spartito scritto da Thomas Dartmouth “Daddy” Rice. Rice, un “attore” in difficoltà (faceva brevi scenette da solista tra una scena e l’altra) al Park Theatre di New York, si imbatté in una persona di colore che cantava la canzone di cui sopra – alcuni resoconti dicono che fosse un vecchio schiavo nero che camminava con difficoltà, altri dicono che fosse uno stalliere nero e cencioso. Non sapremo mai se sia stato modellato su un vecchio o un ragazzino, ma sappiamo che nel 1828 Rice apparve sul palco come “Jim Crow”.

Rice è stato uno dei primi artisti a truccarsi il viso nero: la sua pelle era scurita dal sughero bruciato. La sua routine di canti e balli di Jim Crow fu un successo sorprendente che lo portò da Louisville a Cincinnati, a Pittsburgh, a Filadelfia e infine a New York nel 1832. Si esibì anche con grande successo a Londra e Dublino. A quel punto “Jim Crow” era un personaggio standard negli spettacoli di menestrelli, insieme alle controparti Jim Dandy e Zip Coon. I successivi personaggi dalla faccia nera di Rice furono Sambos, Coons e Dandies. Il pubblico bianco era ricettivo alle rappresentazioni dei neri come sciocchi che cantavano, ballavano e sorridevano.

Nel 1865, il 13° Emendamento fu aggiunto alla Costituzione degli Stati Uniti rendendo illegale la schiavitù. Tuttavia, gli stati del sud approvarono rapidamente leggi che discriminavano gli afroamericani appena liberati. Già nel 1890 queste leggi furono soprannominate leggi di “Jim Crow”. Dal 1874 al 1965, infatti, venne varato un insieme di leggi, regole e comportamenti che imponevano la separazione sistemica in base alla razza, religione o casta tra afroamericani e bianchi nell’America del sud. In che modo uno spettacolo razzista nel Nord è diventato il nome di una serie di leggi razziste nel Sud? Gli storici non ne sono sicuri. Jim Crow potrebbe essere stato usato perché è così che alcuni bianchi chiamavano i neri. Era un insulto comune. Comunque sia successo, il nome è rimasto. Nel corso del tempo, il menestrello dalla faccia nera divenne meno popolare, anche se non morì mai. Il riso è stato per lo più dimenticato. Oggi la maggior parte delle persone non conosce il suo nome.
Tutti conoscono Jim Crow.

Lo spettacolo dei menestrelli fu una delle prime forme native di intrattenimento americano e Rice era giustamente considerato il “padre dei menestrelli americani”. Aveva molti imitatori, un esempio sono i Virginia Minstrels, quattro uomini bianchi di New York, pubblicizzati come i Virginia Minstrels che nel 1843 si scurirono il viso e imitarono il canto e la danza dei neri. Usavano violini, nacchere, banjo, ossa e tamburelli. La loro routine ha avuto successo e sono stati invitati a visitare il paese.

Rice e i suoi imitatori, con le loro rappresentazioni stereotipate dei neri, contribuirono a rendere popolare la convinzione che i neri fossero pigri, stupidi, intrinsecamente meno umani e indegni di integrazione. Durante gli anni in cui i neri furono vittime di linciaggi, furono anche vittime delle caricature razziste propagate attraverso romanzi, spartiti, rappresentazioni teatrali e spettacoli di menestrelli. Ironicamente, anni dopo, quando i neri sostituirono i menestrelli bianchi, anche i neri “annerirono” i loro volti, fingendo così di essere bianchi che fingevano di essere neri. Daddy Rice, l’originale Jim Crow, divenne ricco e famoso grazie alle sue abilità. Tuttavia, condusse uno stile di vita stravagante e quando morì a New York il 19 settembre 1860 in povertà.

Gli spettacoli di menestrelli persero gran parte della loro popolarità nazionale con l’avvento del cinema e della radio. Sfortunatamente gli spettacoli di menestrelli continuarono nelle piccole città e le rappresentazioni caricaturali trovarono maggiore espressione nei film e nelle radio.

L’ industria dell’intrattenimento – producendo canzoni e spartiti, trucco, costumi, nonché una serie di stereotipi già pronti su cui costruire nuove performance – ci marciò sopra. Le esibizioni di black face divennero particolarmente popolari tra la fine della guerra civile e l’inizio del secolo nelle città del nord e del Midwest, dove l’interazione regolare con gli afroamericani era limitata. L’animosità razziale dei bianchi crebbe dopo l’emancipazione, quando gli stereotipi prebellici si scontrarono con i veri afroamericani e le loro richieste di piena cittadinanza, compreso il diritto di voto. I nuovi media hanno introdotto le esibizioni dei menestrelli dal palco, attraverso radio, televisione e nei teatri. Famosi attori americani, tra cui Shirley Temple, Judy Garland e Mickey Rooney, hanno indossato la black face, collegando la performance del menestrello attraverso le generazioni e rendendo il blackface (parodia razziale e stereotipi) un divertimento familiare.

Varese, 19 novembre 2023

Flash elettorale
‘Kamala-non-Joe’

Sappiamo che una delle più serie preoccupazioni dei democratici riguarda l’età decisamente avanzata di Joe Biden.
Ora, per quanto la Vicepresidente in carica Kamala Harris non goda di buona stampa e sembri in disparte, invero esiste un gruppo di suoi simpatizzanti che la vorrebbe personalmente in prima fila: si denominano i sostenitori della ex Senatrice appunto ‘Kamala-non-Joe’!

Varese, 19 novembre 2023

Mikaela Shiffrin e Orson Welles o della inaccettabilità del definitivo

8 febbraio 2023, Campionati Mondiali di sci alpino in scena a Courchevel Meribel.
Supergigante femminile.
Vince pennellando strepitosamente le curve finali Marta Bassino.
Seconda Mikaela Shiffrin.
Intervistata a fine gara la grande campionessa americana racconta cosa vuol dire essere tra i primi al traguardo ed aspettare la discesa degli altri.
Il timore che fino all’ultimo si ha di essere battuti.
E conclude osservando che in quei momenti devi solo sperare sapendo che la tua prestazione non può in nessun modo essere cambiata, migliorata.
È e resterà quella che è.
Una considerazione che mi ha fatto tornare alla mente quanto diceva Orson Welles a proposito dei suoi film che non voleva mai vedere una volta finiti.
La sera della prima, invariabilmente, aspettava che si abbassassero le luci in sala per sgattaiolare via.
Sapeva che non gli sarebbe stato possibile modificare nulla di quanto girato e non voleva dover pensare che una scena o un dialogo avessero bisogno di un aggiustamento, cosa che invece a teatro era sempre fattibile.
L’inaccettabilità del definitivo!

Varese, 19 novembre 2023

Data l’importanza storica del ‘gioco dai gesti bianchi’ negli Stati Uniti (fra l’altro ideatori della Coppa Davis) e lo svolgimento a Torino delle Association Tennis Player’s Finals,
cosa significano termini astrusi come
‘Round Robin’
‘Challenge Round’
e, più comprensibile, Eliminazione diretta

‘Round Robin’, il regolamento dei gironi delle Tennis  Finals.

Nelle Finals WTA – Women Tennis Association, pertanto femminili – come in quelle ATP – Association of Tennis Professionals, maschili – come ancora nei doppi donne e uomini, nelle quali si confrontano verso fine anno tra loro le migliori otto giocatrici, i migliori otto tennisti, i migliori doppi, in classifica a livello internazionale (ovviamente sostituiti a seguire se impossibilitati a partecipare), all’inizio vengono in ogni circostanza formati due gironi composti da quattro competitori o quattro coppie ciascuno.
Contrariamente ai normali tornei tennistici nei quali vige l’eliminazione diretta per cui naturalmente vanno al turno successivo i vincitori o i vincenti di ogni singolo incontro, alla fine dei match nei predetti gironi, progrediscono i primi due classificati la quale cosa significa che è possibile – accade sempre quanto ai secondi posizionati che incontrando i primi hanno necessariamente perso – essere battuti e passare ugualmente lo scarto.
Difatti, i citati tornei, terminate le partite dei gironi, proseguono con le semifinali nelle quali i meglio classificati dell’uno incontrano i secondi dell’altro, qui tornando però a valere l’eliminazione diretta.
Può pertanto accadere – e si è verificato più volte – che in sede di finale si ritrovino due giocatrici, giocatori o doppi già tra loro opposti nei gironi e che occorra perfino che gli sconfitti in precedenza prevalgano nella ripetizione del confronto.
È il sistema in uso nei primi match definito tecnicamente ‘Round Robin’ derivando tale modo di dire da una espressione francese ‘ruban rond’, ‘nastro rotondo’, che fa riferimento all’usanza di firmare una petizione o una richiesta disponendo in cerchio le singole sottoscrizioni facendo così in modo che non sia possibile identificare l’autore della prima.

‘Challenge Round’

Il più importante torneo tennistico a squadre è dall’anno della sua prima effettuazione – il 1900 – la Coppa Davis.
Per molti decenni – fino al 1971 incluso – ha visto le compagini nazionali iscritte affrontarsi in cinque partite:
quattro singoli, due il primo giorno,
un doppio nel secondo
e gli ultimi due nel terzo (non sempre disputati se l’esito del match era già in bacheca).
Per quasi infiniti decenni, la detentrice del titolo, nella successiva edizione, non partecipava alla competizione se non nella sfida finale, affrontando in casa e sul terreno preferito, forma di privilegio, la vincitrice del torneo indetto tra le altre che si scontravano ad eliminazione diretta: chi perdeva 3/2, 4/1 o 5/0 era cioè fuori.
Il sistema era chiamato
‘Challenge Round’
e prendeva ispirazione da quanto occorreva fino al 1921 compreso a Wimbledon (il campione colà, dalla seconda effettuazione, giocava appunto solo la finale).
Per la storia dello ‘sport dei gesti bianchi’ – come lo ha definito il da non molto scomparso Gianni Clerici, un caro Amico – a quei tempi e naturalmente prima della conquista nel 1976 dell’Insalatiera con l’approdo alla precitata eliminazione diretta l’Italia ha vinto due volte (1960 e 1961) consecutivamente il campionato di selezione, perdendo poi (4/1 e 5/0) l’ultima sfida contro l’Australia disputata nella terra dei canguri sull’ostica erba.

Varese, 19 novembre 2023

Caucus e Primarie
come definiti nel mio
Glossario essenziale della politica americana

‘Caucus’:
assemblea a livello statale degli aderenti ad un partito convocata al fine di scegliere i delegati – collegati ad uno dei candidati alla Nomination – dello stesso alla Convention.
Il nome dovrebbe derivare da una voce usata dagli Algonchini per indicare gli incontri tra i capi.

Primaria:
elezione diretta da parte degli elettori dei delegati – collegati ad uno dei candidati alla Nomination – di un partito alla Convention.
Nelle Primarie ‘chiuse’ sono ammessi al voto solamente gli elettori che iscrivendosi alle Liste Elettorali hanno dichiarato di essere vicini al partito che le indice.
Nelle Primarie ‘aperte’ la partecipazione è appunto aperta a tutti coloro che risultano iscritti alle Liste Elettorali e non limitata.

Varese, 19 novembre 2023

Terra Gigantum 
dove si narra anche dell’origine dell’uomo americano, d’altro e perfino di Butch Cassidy

1) All’inizio, fu per via de ‘I figli del capitano Grant’
All’incirca settenne/ottenne, in via Calabria numero 32, nella biblioteca della casa romana dei Raffo, mi imbattei in una bella edizione del romanzo di Jules Verne in questione.
Avevo tempo e voglia, come sempre se mi è data la possibilità, di leggere.
Fu in cotal modo che venni a più avvertita conoscenza della Patagonia, terra nella quale gli avventurosi protagonisti, appunto, si spingono nel primo dei tre libri che compongono l’opera.
Fu in quelle pagine, giurerei, che sentii narrare ed ebbi quindi contezza della incredibile stazza dei Patagoni, la cui altezza aveva stupito Magellano e Pigafetta, quest’ultimo il primo che ebbe a parlarne ai nostri lidi nella relazione che della da lui compiuta circumnavigazione vergò.
Altrove, dipoi, lessi che quegli omaccioni, avvolti nelle pelli e con calzature di cuoio del tutto particolari, frequentemente raggiungevano e superavano i due metri.
Uomini che camminando lasciavano enormi impronte con i loro piedoni e cos’altro significa ‘Patagones’ se non, appunto, in uno spagnolo forse arcaico, ‘piedoni’?
Molto tempo dopo, accurate ricerche antropologiche, concluderanno, quanto proprio ai Patagoni, per un’altezza media dei maschi di un metro e ottanta.
La notizia fu data con l’intento di confutare l’antica convinzione che ne faceva dei giganti.
Ma non è forse vero che una media di tale portata non fa, di contro, che confermarla?
Come dovevano apparire quei selvaggi ai non certamente alti europei del primo Cinquecento?
Erano quelli, altresì, gli anni nei quali, avidamente, scorrevo il Calendario Atlante De Agostini, all’epoca ancora curato da Luigi Visintin, e di quella lontana terra ebbi non poche notizie leggendo dell’Argentina come dei Cile, Paesi dei quali viene a far parte.
E come non considerare con particolare enfasi il fatto che quelle terre, l’inospitale Antartide a parte, siano le più meridionali di questo nostro pianeta?

2) 1957, a Parigi esce una nuova edizione di ‘Les origines de l’homme americain’ del grande Paul Rivet ed ecco che la Patagonia torna ad interessarmi.
Trattando difatti della per lui certa presenza degli australiani in America, l’illustre antropologo, basandosi in particolare su approfonditi studi concernenti il linguaggio, certifica che i pellirosse abitanti la Patagonia – i Tehuelche, ma non solo – come quelli viventi nella Terra del Fuoco – gli Ona, ma non esclusivamente – appartengono al gruppo linguistico ‘chon’ che presenta evidenti e numerosissime somiglianze con le lingue del continente/isola australe.
A proposito dei citati Ona, va ricordato che al giorno d’oggi sono da annoverarsi tra i popoli scomparsi essendo l’ultima donna di tale etnia morta nel 1967.
Ma come e in qual modo i primitivi aborigeni australiani sarebbero colà arrivati?
Ed ecco che al riguardo Rivet abbraccia le tesi sostenute da Mendes Correa addirittura già nel 1925.
All’incirca seimila anni orsono, le coste dell’Antartide non erano ricoperte dai ghiacci la qual cosa consentiva abitabilità e transitabilità a quanti, d’isola in isola o forse utilizzando un allora esistente istmo, cercavano nuove terre.
D’altronde, non diversamente le cose sarebbero andate per quanto riguarda il continente nord americano nel quale gli asiatici sarebbero arrivati percorrendo la ‘Beringia’ ovvero quella striscia di terra una volta emergente dal mare appunto di Bering ed oggi sott’acqua.

3) E come non ricordare l’avventura patagonica di quel mattoide di Orélie-Antoine Tounens. Mi occupavo, allora, degli imperatori latino americani del diciannovesimo secolo non trascurando quel piccolo gruppo di avventurieri che – per rubare l’espressione a Kipling – avevano in quelle bande cercato di ‘farsi re’ o pressappoco.
Che so?
Fra i primi, Iturbide e Massimiliano d’Asburgo per il Messico e dom Pedro I e dom Pedro II Braganza per il Brasile.
Tra i secondi, William Walker – che, alla ricerca di terre da fare proprie, fallito un primo tentativo nella Bassa California e a Sonora, abortito un secondo in Nicaragua, finì fucilato in Honduras – e in specie  – Antoine de Tounens, il ‘re della Patagonia’.
1860, i vastissimi territori meridionali oggi facenti parte del Cile e dell’Argentina sono o per lo meno appaiono terra di nessuno.
Colà, solo pellirosse.
Un giovane avvocato francese da non molto tempo sbarcato in Cile, il predetto de Tounens, profittando della situazione, proclama la nascita di uno Stato autonomo: l’Araucania.
I locali Mapuche lo riconoscono così come, successivamente, le tribù patagoniche.
Monarca costituzionale – il francese emana una costituzione, batte moneta, crea una bandiera e via dicendo – è quindi e pertanto il ‘re della Patagonia’.
Regno effimero se è vero che viene a cessare nel volgere di un paio d’anni.
Preso per pazzo, rimpatriato, più volte ricomparso tra i ‘suoi’ Mapuche per cercare di nuovamente guidarli, de Tounens, finì i suoi giorni nella natia Aquitania.
Il dimenticatissimo sovrano tornò all’onore delle cronache verso la fine del Novecento, allorquando un gruppo di matti ‘occupò’ una delle isole Minquiers, un arcipelago britannico che si colloca nel canale della Manica.
Con tale azione, intendevano i dessi rivendicare i presunti diritti patagonici sulle isole Falkland, per loro, ovviamente, Malvinas.
Il tutto, nel nome del ‘re della Patagonia’ Orélie-Antoine de Tounens!!!

4) Capita, poi, che interessandomi a Darwin mi imbatta nel mitico capitano Robert Fitzroy.
Questi – molti anni prima di suicidarsi perché nelle vesti di responsabile dell’ufficio meteorologico inglese non gli riusciva di fare previsioni del tempo corrette – al comando del ‘Beagle’, era stato due volte da quelle parti, anche se più propriamente nella Terra
del Fuoco che alcuni puristi non vorrebbero ricomprendere nella Patagonia.
Gli era capitato, nel corso del primo viaggio, di catturare un certo piccolo numero di fuegini che aveva condotto a Londra.
Gli stessi – salvo uno morto all’arrivo nella capitale inglese – che riportò alla base nella successiva impresa, quella alla quale partecipava il precitato Charles Darwin.

5) Infine ma non infine, come non fare riferimento al magnifico ‘In Patagonia’ che Bruce Chatwin propose nel 1977?
Un diario di viaggio  ricchissimo di spunti e divagazioni di ogni tipo nello stile inconfondibile dell’autore.
Fra le altre, ai miei occhi di particolare rilievo, la notizia, l’ipotesi a dire il vero, che riguardava Butch Cassidy.
Che il vecchio capo del ‘Wild Bunch’ non fosse affatto morto Bolivia come narrava la leggenda e come faceva credere il bel film a lui dedicato (‘Butch Cassidy and the Sundance Kid’, di George Roy Hill con gli ottimi Paul Newman e Robert Redford) si sapeva.
La novità chatwiniana stava nel sostenere che avesse vissuto anche in Patagonia.

Varese, 18 novembre 2023

Rasoio elettrico americano!!!

Finita la Seconda Guerra Mondiale, il più anziano del fratelli P** tornò dal campo di prigionia in Texas dove, catturato in Africa, aveva trascorso neanche male gli ultimi due anni abbondanti.
Poco tempo e, diffusasi la notizia, ogni mattina o quasi, qualcuno bussava alla sua porta e gli chiedeva di poter assistere.
Alla rasatura che effettuava con un avveniristico attrezzo: nientemeno che uno specifico apparecchio elettrico a batteria.
Una meraviglia americana che gli era stato permesso di portare via.
Nulla era all’epoca negli Stati Uniti lasciato al caso al fine di mostrare quanto fosse preferibile il loro modo di vivere (arrivavano già le prime commedie nelle quali allegre e bionde padrone di casa usavano tranquillamente elettrodomestici da sogno, appunto).

Varese, 18 novembre 2023

Flash elettorale
da RSI

Via libera alla candidatura di Trump in Colorado (come in precedenza in Minnesota e Michigan)

Un giudice del Colorado ha respinto il tentativo di rimuovere Donald Trump dalle primarie dello Stato sulla base del 14esimo emendamento della Costituzione USA, che vieta di ricoprire cariche pubbliche ai ‘funzionari’ coinvolti in insurrezione o ribellione.
La decisione fa seguito a quelle analoghe prese in Minnesota e in Michigan.
Nella decisione, contenuta in molte pagine, il giudice distrettuale del Colorado Sarah B. Wallace si esprime a favore di Trump rigettando il tentativo di rimuoverlo dalle primarie del suo partito in vista delle presidenziali USA del 2024.
Wallace comunque nota come Trump è “stato impegnato in un’insurrezione” ma nonostante questo non può essere rimosso sulla base del 14esimo emendamento della Costituzione.
La sezione tre infatti fa riferimento all’impossibilità per ‘funzionari’ di ricoprire incarchi pubblichi se sono rimasti coinvolti in una insurrezione. Un’impossibilità, secondo la giudice, che non si applica anche allla carica di presidente degli Stati Uniti che, in altre parole, non può essere considerato come un semplice ‘funzionario’.

Varese, 18 novembre 2023

Record cinematografici

John Cazale, 1935-1978
Cinque film girati
Cinque film candidati all’Oscar

Il Padrino, 1972
La conversazione, 1974
Il Padrino parte seconda, 1974
Quel pomeriggio di un giorno da cani, 1975
Il cacciatore, 1978

Morì prima di poter vedere quest’ultima sua performance.

Varese, 18 novembre 2023

Così andava e va il Mondo

Alexander George Montagu Cadogan, sottosegretario agli affari esteri di Gran Bretagna dal 1938.
Membro autorevole e informato della delegazione inglese alla Conferenza di Yalta, 4/11 febbraio 1945.
“Grandi uomini decidono su temi e argomenti che non conoscono”.
I grandi dei quali parlava erano Josif Stalin, Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt.

Varese, 18 novembre 2023

Elezioni americane
Cosa dice oggi l’Economist
(non che sia la Bibbia)

Il più grande pericolo mondiale del 2024′
è il monito dell’Economist, riferito a Donald Trump e a un suo eventuale ritorno alla Casa Bianca, a meno di un mese dall’avvio delle primarie repubblicane.

Con i sondaggi che vedono l’ex presidente saldamente al comando.
Inseguito a distanza dalla sua ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley (in ascesa) e dal governatore della Florida Ron DeSantis. Tutti e tre i candidati oggi batterebbero Joe Biden.
Un “secondo mandato di Trump sarebbe una svolta ben più dannosa della prima”, avvisa l’autorevole testata britannica, ricordando che il “destino del mondo” nelle presidenziali 2024 dipenderà dalle schede elettorali di “decine di migliaia di elettori solo in una manciata di stati”, quelli in bilico.
“La Cina e i suoi amici – sostiene The Economist nella sua guida annuale World Ahead’ – si rallegrerebbero della prova che la democrazia americana è disfunzionale” e Pechino “potrebbe facilmente sbagliare i calcoli su Taiwan, con conseguenze catastrofiche”.
Inoltre il presidente russo “avrebbe un incentivo a continuare a combattere in Ucraina e a eliminare paesi ex sovietici come la Moldavia o gli Stati baltici”. Ma la “più grande minaccia” che Trump rappresenta “è per il suo stesso Paese”.
L'”autorità morale” degli Stati Uniti diminuirebbe “perché l’America lo avrà votato pur conoscendo il peggio”.
Mentre “perseguirà i suoi nemici”, Trump “farà la guerra a qualsiasi istituzione che si trovi sulla sua strada, compresi i tribunali e il Dipartimento di Giustizia”, mette in guardia l’Economist, ricordando i piani dell’ex presidente per consumare la sua vendetta contro critici ed oppositori. Anche Biden ha lanciato il suo allarme, dopo che il tycoon ha promesso di spazzare via i “parassiti nel Paese” evocando “l’avvelenamento del sangue americano”: una retorica “da Germania nazista”, ha accusato.
Il presidente però è ai minimi nei sondaggi.
E se da un lato può sperare in una archiviazione dell’inchiesta per le carte classificate ritrovate nel garage di casa e in un suo ex ufficio – secondo anticipazioni della Cnn – dall’altra si profila una seconda incriminazione per il figlio Hunter Biden in California, dopo quella in Delaware per il possesso illegale di una pistola: il procuratore speciale David Weiss sta utilizzando un gran giuri’ di Los Angeles per acquisire documenti e possibili testimonianze nelle indagini, che sembrano concentrate sul mancato pagamento delle tasse.
Già convocato James Biden, fratello del presidente e un tempo socio di Hunter.
Le quattro inchieste con 91 capi di imputazione per ora non sembrano invece fermare Trump, contro cui continuano ad uscire indiscrezioni sempre più compromettenti, come l’audio diffuso dalla Cnn in cui afferma che avrebbe voluto raggiungere la folla degli assalitori del Capitol il 6 gennaio 2021.
Ma il tycoon deve guardarsi le spalle dalla Haley, che piace anche ad alcuni big di Wall Street: nei sondaggi è terza in Iowa e seconda in New Hampshire.
E’ lei, secondo un sondaggio di Marquette Law School, che sconfiggerebbe Biden col maggior scarto: 55% a 45% (il margine di Trump e di DeSantis e’ rispettivamente di 4 e 2 punti).
Stesso risultato, anche se con percentuali diverse, nella media dei sondaggi di RealClearPolitics (+4,2%, +1,3% e +0,6%).

Varese, 18 novembre 2023

Oggi 18 novembre 2023 mancano 354 giorni alla apertura dei seggi per la cosiddette Presidenziali americane (5 novembre 2024) e 390 alla effettiva nomina del Capo dello Stato (16 dicembre seguente) ad opera del Collegio Elettorale!

Varese, 18 novembre 2023

Coccodrilli

Ernest Borgnine

Van Cliburn

Nora Ephron

Glenn Ford

Charlton Heston

Jules Dassin

Richard Widmarck

Norman Mailer

Paul Marcinkus

Victor McLaglen

Arthur Miller

Fess Parker

Anthony Quinn

Tony Randall

Robert Rauschenberg

 

Ernest Borgnine
(ritornato al Padre l’8 luglio 2012)

“Pike!”
Finale de ‘Il mucchio selvaggio’.
Sparatoria.
Morti a decine.
Sykes (Edmond O’Brien), Lyle (Warren Oates) e Tector(Ben Johnson) Gorch, l’uno dopo l’altro, fatti fuori un bel numero di messicani a testa, passano a miglior vita.
Ecco che anche Pike (William Holden) viene colpito.
Dutch se ne avvede.
Urla drammaticamente il suo nome.
Poco ancora e, insieme, saranno altrove per sempre.
Non è quella l’unica scena del capolavoro di Peckinpahnella quale traspare il non dichiarato amore di Dutch per il capo.
Prima, infatti, nel mentre, con i compari, Pike si appartava con qualche prostituta, Dutch, sofferente, lo attendeva fuori, seduto per terra.
Massiccio e ingombrante, Ernest Borgnine (era lui, ovviamente, Dutch) è noto per i mille western, per la forza dispiegata, per i ruoli ‘duri’ nei quali eccelleva.
Ma – e va detto oggi nel giorno in cui, novantacinquenne, ci ha lasciato – quel che resta del grande attore che è stato è una particolare, sottesa grazia, la capacità di amare con timidezza, nascondendo l’intensità degli affetti perfino a se stesso.
Lo seguivo dal 1955: all’epoca, il suo ‘Marty, vita di un timido’ (col quale vincerà l’Oscar) fu presentato in prima europea al Cinema Impero di Varese nel corso degli ‘Incontri internazionali del cinema’, manifestazione ideata e realizzata da mio padre Manlio.
Da allora, era nel mio cuore.

Van Cliburn
(ritornato al Padre il 27 febbraio 2013)

Avevano ragioni da vendere Indro Montanelli e Dino Risi nel sostenere che bisogna morire nel giorno giusto, un giorno nel quale altre notizie non sottraggano al defunto gli onori della prima pagina dei quotidiani e dei titoli di tg e gr.
Ecco, Van Cliburn, il grande Van Cliburn, se ne è andato il 27 febbraio nel mentre il mondo seguiva le vicende papali e l’Italia, con l’Europa, le elezioni.
Ricordo il primo Concorso Ciaikovsky per pianoforte: era il 1958, in piena Guerra Fredda, e a Mosca avrebbe dovuto, dovuto!, trionfare un sovietico.
Ma ecco un giovane americano, il ‘nemico’, rifulgere.
Otto minuti di applausi.
I giudici, costernati, vanno da Nikita Krushov e gli fanno presente la situazione.
“E’ il migliore?”, chiede il capintesta. “E allora premiatelo”.
Tornerà, Van Cliburn, a Mosca nel 1962 e su youtube, chi lo voglia, puo’ ascoltare la sua eccezionale (seconda, a mio modo di vedere, solo a quella di Claudio Arraucon Sir Colin Davis) esecuzione del secondo movimento – il piu’ bel secondo movimento mai scritto – del Concerto Imperatore di Beethoven.
Conservo gelosamente il primo trentatre giri registrato da Van Cliburn: immensa classe, diffusa a piene mani.
Sarà a lungo tra i migliori, almeno fino alla morte del padre la cui scomparsa lo trafiggerà.
C’è gente che non dovrebbe morire!

Nora Ephron
(ritornata al Padre il 26 giugno 2012)

Figlia d’arte, come spesso capita agli sceneggiatori hollywoodiani, ma – e non succede praticamente mai – molto, molto migliore sia del padre Henry che della madre Phoebe Wolkind, Nora Ephron, deceduta il 26 giugno a New York per leucemia e a seguito di una decisiva polmonite, lascia davvero un incolmabile vuoto.
Scrittrice di successo, si è illustrata prepotentemente nella sceneggiatura cinematografica non per la rara capacità che aveva di inventare storie quanto, in particolare, per la brillantezza e l’efficacia fuori del comune dei dialoghi.
Riconoscibilissime le sue scintillanti battute, molte delle quali sono direttamente entrate a far parte della storia della commedia americana.
Ottima anche alla regia, ci ha lasciato, per dare solo poche indicazioni, veri capolavori quali almeno ‘Harry ti presento Sally’, diretto sul suo testo da Bob Reiner, ‘Insonnia d’amore’, ‘C’è posta per te’.
Tornando alla scrittrice, impossibile non ricordare ‘Heartburn’ – in seguito soggetto filmico – nel quale narrava da par suo del burrascoso rapporto coniugale avuto con Carl Bernstein, uno dei due giornalisti autori dello scoop a tutti noto col nome ‘Watergate’.
Delizioso, infine, il recente ‘Non mi ricordo più niente’, laddove, contraddicendo il titolo, rammenta con il consueto stile gustosi episodi vissuti e personaggi del tempo che fu.
In primo luogo, la terribile drammaturga e sceneggiatrice Lillian Hellman.
E’ leggendo quelle pagine che ho appreso del rischio che abbiamo corso a proposito proprio di ‘Harry ti presento Sally’.
Ebbene, questo gioiello ha fortemente rischiato di non essere portato a compimento per una particolare situazione.
Siamo negli ultimi Ottanta del trascorso Novecento.
A corto di quattrini, ha la Nostra appena cominciato a scrivere una storia che la madre la informa della morte di uno zio, da tutti ritenuto assai danaroso, del quale è l’erede.
Se così è, si dice Nora, a che serve continuare nella stesura: i soldi sono in arrivo e il problema economico è risolto!
Per nostra fortuna e suo dispetto, le cose non stanno come sembra.
L’eredità c’è, ma è di poche migliaia di dollari che non le consentono, come sperava, di smettere di lavorare.
Obtorto collo, riprende in mano il copione e rapidamente lo conclude.
Benedetta la ristrettezza di mezzi allorquando spinge l’artista all’opera!

Glenn Ford
(ritornato al Padre il 30 agosto 2006)

Vi parleranno di ‘Gilda’ e di Rita Hayworth.
Vi ricorderanno il ‘Dave lo sciccoso’ di ‘Angeli con la pistola’ o il mitico ‘Jubal’ di ‘Vento di terre lontane’.
Esalteranno l’eleganza con la quale, dimentico di Rodolfo Valentino, ha interpretato la seconda, decorativa versione del corrusco e insieme decisamente indigesto romanzo di Vicente Blasco Ibanez ‘I quattro cavalieri dell’Apocalisse’.
Queste e mille altre le memorie che l’annuncio della morte di Glenn Ford susciteranno in chiunque abbia davvero amato il Cinema con la c maiuscola.
Io voglio qui ricordarlo quale appariva nel finale di ‘Quel treno per Yuma’, magnifico e malinconico western in bianco e nero del 1957.
Bandito e predone celebre, catturato quasi per caso in conseguenza di una trascuratezza e per ‘colpa’ di una donna della quale si è invaghito, salendo sul vagone senza opporre resistenza ed anzi, in qualche modo, impedendo ai suoi accoliti di liberarlo, ha in pratica aiutato il povero contadino che i casi della vita hanno eletto a suo angelo custode.
Ha accettato di compiere con lui il viaggio verso la prigione che si colloca appunto a Yuma, in una zona ai confini tra Arizona, California e Messico, e di fargli guadagnare il sudatissimo compenso che, per quanto magro, gli permetterà di sopravvivere malgrado la siccità gli abbia impedito il raccolto.
Al villano che, stupito per l’aiuto ricevuto, gli chiede ragione del suo operare, nel mentre il treno, uscito dalla stazione, comincia a correre e la voce di Frankie Laine, dal nulla, cresce ad invadere lo schermo, in grado come è di mascherare sotto l’innata spavalderia la verità comunque dall’improvvisato policeman intuita, quasi indifferente, replicherà “Altre volte sono fuggito da Yuma!”

Heston, Dassin, Widmark
(all’inizio del mese di aprile 2008)

E’ per via dell’età avanzata che avevano raggiunto, ovviamente, visto che il più giovane – si fa per dire – aveva la bellezza di ottantaquattro anni.
Certo è, però, che negli ultimi giorni il cinema ha pianto ben tre ‘grandi’ di quelli veri.
Nell’ordine, Richard Widmark, Jules Dassin e, ieri, Charlton Heston.
Il biondo e freddo Widmark era quel che si dice un cattivo coi fiocchi e tale si è appalesato ai miei occhi che non avevo più di sei o sette anni.
‘Cielo giallo’, il film che verso la fine dei Quaranta lo vedeva – invariabilmente vestito di nero a segnalarne il ‘carattere’ a fronte del ‘buono’ Gregory Peck – spietato e alla fine soccombente, bravissimo e feroce bandito dalle labbra strette percorse da un sorrisetto sarcastico e amaro.
Anziano, aveva molti anni dopo quasi cercato riscatto in un ruolo diverso e dolente. La pellicola, l’inquietante ‘Il principio del domino’, con Gene Hackman.
Non gli andava bene neppure nei nuovi panni considerato che anche in quella occasione gli toccava tirare le cuoia.
Dassin? Tutti ne ricordano opere stranote quali ‘Topkapi’ o ‘Forza bruta’ o ‘Mai di domenica’.
Io, per avermi inchiodato alla poltrona cinquant’anni fa con un particolare e stranissimo film ricavato da uno straordinario romanzo del greco Nikos Kazantzakis: ‘Colui che deve morire’.
Un bianco e nero crudele percorso da lampi e percosso dai venti.
Una tragedia esemplare sulla via della Salvezza.
Quanto a Charlton Heston, non mi interessa poi molto ricordarne la grinta e la possanza in ‘Ben Hur’.
Forse, troppo facile.
Meglio, visto che era solito fare il ‘buono’, rammentarne un ruolo antipatico: quello del rivale (anche qui) di Gregory Peck in ‘Il grande paese’.
Rude vaccaro, soccombe dopo un terribile scambio di cazzotti e solo allora arriva ad apprezzare il rivale prima del match ritenuto un pusillanime damerino.
Giganti i tre, fra gli ultimi invero di una magnifica generazione.
Alla loro altezza e addirittura un gradino più sopra, tra i superstiti, oramai solo il vecchissimo ‘figlio del venditore di stracci’ (questo il titolo della sua autobiografia) Kirk Douglas.
Sopravvissuto anni orsono perfino a un incidente aviatorio, cerca di dimostrare che non è vero che tutti si debba morire.
Spero riesca, per incamminarmi sulla medesima strada.

Norman Mailer
(ritornato al Padre il 10 novembre 2007)

Non dimentico, non dimenticherò mai le avventure, le angosce, le morti dei componenti la pattuglia in lotta contro i giapponesi in una sperduta isola del Pacifico nel corso della seconda guerra mondiale così come le ha per sempre messe in pagina Norman Mailer nel suo ‘Il nudo e il morto’.
Il fango, la trincea, gli agguati, la paura, la solidarietà univano uomini le cui storie personali erano assolutamente diverse.
I caratteri, le antipatie, addirittura gli odi a volte irragionevolmente insorti, li separavano.
Eroismi, sacrifici, vigliaccherie, tradimenti, amicizia, disprezzo intellettuale o fisico, tutto quanto l’essere umano è capace di esprimere racchiuso in quel microcosmo militare.
Avevo quindici anni e il capolavoro di Mailer, pur facendo seguito a un numero pressoché infinito di letture, era uno dei primi romanzi decisamente ‘per adulti’ che affrontavo.
Oggi, sentendo alla radio della morte dell’autore, sono andato a cercare il vecchio libro nella mia biblioteca.
Edizioni Garzanti, copertina rossa: è’ ancora in ottime condizioni.
Lo leggerò di bel nuovo per celebrare il cotal modo l’ottimo narratore che ci ha appena lasciato.

Paul Marcinkus
(ritornato al Padre il 20 febbraio 2006)
il mio coccodrillo

Fregato…
Chiunque mi racconti un aneddoto, un episodio è per sempre fregato: mi rimane in testa e prima o dopo, in ragione di un qualche improvviso collegamento mentale, ne scriverò.
Così, tornato a galla, per via di Emanuela Orlandi, dell’uomo della Magliana De Pedis (sepolto nientemeno che in Sant’Apollinare), dell’ex moglie del povero Bruno Giordano (testimone difficilmente credibile) e chi più ne ha più ne metta, il cardinale Paul Marcinkus, subito ho pensato a Cesare Lanza e a una nostra oramai lontana conversazione oggetto della quale, alla fine e partendo addirittura da Las Vegas, era stato l’ex responsabile dello Ior.
Fatto è che Cesare – molto ci unisce e di più una insana ma oramai (si invecchia!) controllatissima passione per il gioco – reduce appunto dalla capitale americana dell’azzardo (e non volli sapere se per conseguenza ‘in grana’ o ‘alla frutta’), approdato a Los Angeles e in attesa in quell’aeroporto di un passaggio verso Milano, proprio  Marcinkus si era trovato di fronte.
Allontanato da Roma e dalle antiche incombenze, il cardinale viveva all’epoca da qualche parte (nel Texas? ma non lo giurerei), praticamente in pensione.
Un’occasione da non perdere!
Ed ecco, quindi, Cesare, dopo essersi debitamente presentato, imbastire una conversazione sui più diversi temi partendo dai ricordi di Marcinkus della Las Vegas di non si sa quanti anni prima, di quando, raccontava il prelato, la strada principale, lungi dall’essere quella luminosissima e grande arteria che è, in terra battuta, misurava talmente pochi metri in larghezza da costringere due auto che colà si fossero incrociate a mille manovre.
“Che devo dirti?”, mi chiede oggi Lanza al telefono nel mentre lo sollecito in proposito, “La mia impressione di allora e di adesso è che  Marcinkus fosse quel che si dice un bonaccione che di banca e di conti capisse poco o niente e al quale birbaccioni ben più grandi di lui facevano fare quel che volevano.
Per me, andava ‘assolto per non aver capito i fatti’”.
Mi fido, sia per il fiuto che da anni infiniti caratterizza l’ex direttore del Corriere d’Informazione, sia perché tra giocatori (e Marcinkus, stando a quei ricordi, lo era stato), salvo che a proposito di vincite o perdite al tavolo o alla roulette, per una sorta di complicità che una volta riconosciutisi come tali sorge, ci si dice sempre, magari in un orecchio, la verità.

Victor McLaglen
(Ritornato al Padre il 7 novembre 1959)

Quegli omaccioni o pressappoco alla Victor McLaglen.
L’aria da campagnoli.
Petto in fuori.
Dalla evidente mascella di ferro.
Per il solito, ex pugili.
O gente capace di imitarne gli atteggiamenti.
E avevano una comune caratteristica.
La voce fessa, incrinata.
Particolare.
Sgradevole?
Per quanto mi riguarda, no.
Come avessero incassato colpi alla corde vocali.
E’ questo il forte e sibilante sussurro arrochito che, nella memoria, unisce i battant di una volta che ho avuto ventura via via di incontrare: Leone Jacovacci, Artemio Calzavara, Luigi Musina, Aldo Spoldi, Domenico Bernasconi e, soprattutto, Giancarlo Garbelli.
E mi chiedo come mai, oggi, mentre scrivo, la voce che non ricordi sia quella di Sandro Mazzinghi.
Caro, antico, da poco scomparso, amico mio.

Arthur Miller
(ritornato al Padre il 10 febbraio 2005)

Sarebbe bello, oggi, 10 febbraio 2005, nel momento della sua dipartita, per una volta almeno parlare di Arthur Miller senza dover per forza fare riferimento al rapporto matrimoniale che per un lustro lo legò alla povera Marilyn Monroe.
Lo stesso Miller, d’altra parte, a dimostrazione del fatto che i continui rimandi dei media alla questione lo facevano andare in bestia, un paio di anni orsono, interrogato per la milionesima volta al riguardo da un cronista, per quanto ottantasettenne, aveva cercato di prenderlo a pugni.
Ben altre, infatti, le ragioni per le quali ci si doveva interessare a lui!
Non era egli forse uno dei massimi drammaturghi statunitensi del ventesimo secolo in grado attraverso il suo teatro di lasciare una traccia indelebile capace come era di rappresentare un certo tipo di America come pochissimi altri?
Non era stato uno dei più decisi oppositori al maccartismo?
Non era stato il suo rifiuto a testimoniare davanti alla famigerata Commissione presieduta appunto dal senatore Joseph McCarthy uno dei momenti più significativi ed alti della lotta per la libertà condotta da molti nei primi anni Cinquanta contro la persecuzione portata avanti nei confronti di una infinità di intellettuali messi sotto inchiesta e iscritti nelle cosiddette ‘liste nere’ solo per le loro idee sinistrorse?
Non si doveva a lui e al suo dramma ‘Il crogiolo’, ambientato all’epoca dell’ultimo processo per stregoneria tenutosi nel 1692 a Salem nel Massachusetts, l’espressione ‘Caccia alle streghe’ con la quale sarà per sempre nota quella infelicissima azione politica?
Chi potrà mai dimenticare i veri capo d’opera vergati tra gli anni Quaranta e i Sessanta quali almeno ‘Erano tutti miei figli’, ‘Morte di un commesso viaggiatore’, ‘Uno sguardo dal ponte’ e ‘Dopo la caduta’?
Ma non si può!
Di Marilyn si deve comunque parlare almeno per ricordare come proprio per lei e sperando in qualche modo di aiutarla, nel 1961, Miller avesse scritto il soggetto di uno dei molti capolavori del grande John Huston: ‘Gli spostati’.
Ultimo film per Clark Gable e per la stessa Marilyn, ai quali non portò decisamente fortuna, ‘The Misfits’ meriterebbe una lunga riflessione.
Basti qui ricordare quale potenziale drammatico fino ad allora nascosto seppe nell’occasione esprimere, recitando le battute del marito, la Monroe.

Fess Parker
(ritornato al Padre il 18 marzo 2010)

1955, esce in Italia il film di produzione Disney ‘Le avventure di Davy Crockett’.
Tutto bene: un personaggio interessante, trattato  in modo divertente, ottimi attori (coprotagonista nientemeno che il grande Buddy Ebsen).
C’è, però, un problema.
L’eroe di Alamo è impersonato da un certo Fess Parker (e non avrebbe potuto essere altrimenti visto che negli USA, in tv, proprio Parker aveva spopolato in quel ruolo).
Possibile, ci si chiede, esporre cartelloni e locandine scrivendo FESS senza suscitare l’ilarità del pubblico?
No, e si decide per conseguenza di mutargli nome.
Sarà, da allora, in Italia, FIER Parker.
Che dire se non che per molti, alla fine, quel che resta in mente dell’attore l’altro ieri (18 marzo 2010) scomparso ad ottantacinque anni in California è questo particolare episodio e null’altro?

Anthony Quinn
(ritornato al Padre il 3 giugno 2001)

Questi non sono giorni come tutti gli altri.
Questi sono i giorni della morte di Anthony Quinn.
Se n’è andato un attore, un personaggio straordinario, l’unico in grado di impersonare con impeto travolgente e forza pressoché infinita i personaggi ‘più grandi della vita’ che, man mano, gli venivano affidati a teatro come sullo schermo.
Non tutti lo sanno, ma Quinn non fu solo un attore: fu artista polivalente, pittore e scultore di rara potenza, musicista eclettico, poliglotta e affascinante parlatore.
La sua saga personale ne parla come del padre di un numero incredibile di figli (nessuno sa quanti siano davvero) da lui generati fino in tardissima età.
Per riassumere questo grandissimo personaggio c’è una sola parola adeguata: ‘immortale’.
Fu uomo capace di contenere in un corpo naturalmente scultoreo e, a volte, apparentemente brutale, una grande anima piena di sensibilità.
Chi non lo rammenta, in lacrime, accasciato sulla spiaggia nelle scene finali della ‘Strada’ di Fellini?
Ricordiamolo, quindi, come Zampanò e Zorba, Gauguin e Attila, corsaro e vaquero, e, vecchio, sovrastare uno spaventatissimo (dal confronto con lui e con il suo carisma) Keanu Reeves in ‘Il profumo del mosto selvatico’.
Aveva detto ad una delle sue infinite partner: “Non morirò mai!”.
E io gli avevo creduto.

Tony Randall
(ritornato al Padre il 17 aprile 2004)

Caratterista principe, ‘spalla’ tra le migliori, commediante di classe, brillante e sapido non solo sullo schermo, alla bella età di ottantaquattro anni, l’attore americano Tony Randall se ne è andato non molti giorni orsono.
Sarà bene ricordarlo attraverso un paio di battute – alle quali (si può scommettere) aveva messo mano – pronunciate interpretando al meglio un eccentrico miliardario in ‘Amore ritorna’ e in ‘Il letto racconta’, laddove si misurava con due mostri sacri della commedia hollywoodiana anni Cinquanta/Sessanta quali Doris Day e Rock Hudson.
1) “La gente ricca è odiata e vilipesa.
Cosa c’è scritto sulla Statua della Libertà?
C’è scritto ‘Venite o ricchi’?
No. C’è scritto ‘Venite o poveri’.
Siamo malvisti persino in casa nostra”.
2) “Il guaio con voialtri è che ce l’avete con me perché faccio parte di una minoranza”.
“Ma quale minoranza?”.
“I miliardari.
Voi siete di più, ma non ci vincerete: difenderemo i nostri diritti fino alla morte.
E abbiamo i soldi per farlo!”

Robert Rauschenberg
(ritornato al Padre il 12 maggio 2008)

La pittura, la grande pittura del Novecento – quella che secondo Stefano Zecchi aveva sostituito al ‘bello’ la ricerca del ‘nuovo’ fino a trascurare, non certo nelle sue massime espressioni dipoi infinitamente e ogni volta più stancamente imitate, l’armonia appunto in nome della ‘novità’ – ovunque nel mondo, muore esattamente l’8 aprile del 1973, giorno nel quale l’immenso Pablo Picasso passa a miglior vita.
Ovunque nel mondo, ho scritto, ma, per il vero, non negli Stati Uniti.
Colà – pur assai gravemente ferita il 15 maggio del 1967 causa la morte del pittore americano per elezione Edward Hopper – vive ancora.
Autori di questo miracolo, Jasper Johns, Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Julian Schnabel, perfino la meteora Jean Michel Basquiat e, naturalmente, Robert Rauschenberg.
L’altro ieri, Rauschenberg se ne è andato.
Resteranno per sempre negli occhi e nel cuore di chi ha saputo guardare la sua straordinaria capacità pittorica e l’immensità di molte sue tele davanti alle quali, per parte mia, lungamente, ogni volta mi capiti di incontrarle, sosto incantato!

Varese, 18 novembre 2023

Ritengo opportuno pubblicare quanto a febbraio 2022 scrissi trattando dell’oggi rapidamente dimenticato Boris Johnson perché molti i riferimenti americani allora usati sempre, non soltanto allora, pertinenti.

I ‘soliti’ attacchi a Boris Johnson (non politici, personali, secondo una deplorevole tecnica elaborata e in uso in particolare ad opera dei rappresentanti l’accusa nei confronti dei testimoni ostili nei Tribunali USA) e infine l’antidemocrazia dei sondaggi spacciata per democrazia.

Ai tempi iniziali del primo dei suoi due ‘anomali’ quadrienni alla Casa Bianca (come tutti avranno immediatamente compreso, avendo or ora letto l’utilizzato ‘anomali’, sto parlando di Grover Cleveland, cioè del solo Capo dello Stato americano eletto due volte – 1884 e 1892, risultando sconfitto per Grandi Elettori nel 1888 – sì, ma non consecutivamente, per quanto questa specificità non c’entri), fu attaccato dagli avversari repubblicani e dai media che sostenevano fosse individuo dedito alla frequentazione di donne di strada non raramente ammesse a White House, che avesse almeno un figlio illegittimo, insomma di accertata personale immoralità.
Fra l’altro al quel mentre scapolo – si sposerà più tardi da Presidente e avrà una eccezionale compagna, Frances Folsom, non solo First Lady – il Nostro prese convenientemente di petto la situazione.
Ben conoscendo le biasimevoli tecniche fra l’altro ancora oggi in uso nei Tribunali USA da parte dei pubblici accusatori quando avevano ed hanno a che fare con un difficile testimone della difesa, alla cui denigrazione morale si dedicavano e dedicano per minarne la credibilità), convocò una conferenza stampa e dichiarò che tutto quanto era stato detto e scritto con tale riferimento corrispondeva al vero!
Ma che non vedeva cosa potesse contare, se si fosse guardato, come doveroso, alla attività governativa in atto.
Ecco, le accuse e i conseguenti attacchi al Primo Ministro di Sua Maestà – dimostratisi inutili ed inefficaci a quelli politici – sono sostanzialmente relativi a comportamenti da lui avuti in eventuale violazione delle regole comportamentali sociali anti Covid.
Devo solo qui rilevare che la reazione del Premier che vediamo è nella linea di Cleveland ma non completamente, con qualche riferimento ad un pentimento che rischia di azzopparlo.
Con in fondo una considerazione che viene spacciata dai dominanti sinistri liberal  illiberali massificati e mai individualisti per ‘democratica’ e assolutamente ‘antidemocratica’ è: quella di tenere conto nel giudizio  politico dei sondaggi e del (peraltro, presunto) gradimento popolare che questi evidenzierebbero.
Democrazia infatti vuole che l’eletto governi fino al termine del mandato e a quel punto, nelle urne e quindi ‘nel vero’, sia confermato o bocciato dagli elettori non essendo ad ogni piè sospinto di contro impedito e condizionato.
Quando mai i Grandi hanno tenuto conto giorno per giorno delle rilevazioni sondaggistiche (così come dei dati statistici, quelli economici per primi: “I soli dei quali dobbiamo tenere conto sono quelli manipolati da noi”, disse a tutto questo ciarpame riferendosi Winston Churchill), alla racaille, avendo una ‘visione’, essendo Politici e non miseri politicanti?

Varese, 17 novembre 2023

Usa 2024: – 353, repubblicani, è il momento di Nikki Haley
17 Novembre 2023
del mio vecchio amico
Giampiero Gramaglia
per The Watcher Post

“E’ il momento di Nikki Haley?”, s’interroga, ma in realtà afferma, la Cnn, quando i sondaggi dicono che l’ex governatrice della South Carolina, ed ex ambasciatrice degli Usa all’Onu, ha ormai superato il governatore della Florida Ron DeSantis ed è salita al secondo posto, nel lotto dei candidati alla nomination repubblicana.
Certo, Donald Trump resta primo e lontano, ma si è sempre detto che, quando il gruppo dei rivali si fosse sfoltito e fosse emersa un’alternativa, la partita di sarebbe fatta più serrata. E la Haley ha un vantaggio su Trump in chiave non di primarie ma di elezioni generali: lei non spaventa i moderati, anzi può loro piacere, e non li spinge a votarle contro, come invece accade per il magnate ex presidente.
Proprio la Cnn ha sondato i probabili elettori delle primarie repubblicane del New Hampshire, seconda tappa del calendario repubblicano dopo lo Iowa. In New Hampshire, che non è uno Stato dichiaratamente repubblicano, Trump è in testa, ma con un margine inferiore a quello dei sondaggi a livello nazionale: l’ex presidente è al 42%, con Haley al 20%, l’ex governatore del New Jersey Chris Christie al 14%, il governatore della Florida Ron DeSantis al 9% e Vivek Ramaswamy, imprenditore e guru, all’8%. Nessun altro candidato va oltre il 2%.
Rispetto al sondaggio di settembre della Cnn nel New Hampshire, Haley ha guadagnato otto punti, grazie anche alle sue buone prestazioni nei tre dibattiti repubblicani finora svoltisi. Ramaswamy è in calo di cinque punti, mentre Trump, Christie e DeSantis, che nel New England non ha mai sfondato, sono relativamente stabili.
In un’analisi della Cnn, le chances di Haley di diventare un’alternativa a Trump credibile dipendono dall’andamento delle prime primarie: deve fare bene nello Iowa a metà gennaio, cioè arrivare seconda; vincere nel New Hampshire e poi vincere nel suo Stato, la South Carolina.
A quel punto, arriverebbe lanciata al Super-Martedì di marzo, in coincidenza con l’inizio del processo a Trump per l’insurrezione del 6 gennaio 2021.
Secondo il Financial Times, anche Wall Street guarda a Haley come ‘anti-Trump. L’ex governatrice piace – scrive il giornale – per la “politica estera muscolare”, per la “visione positiva dell’America”, per la “posizione razionale sull’aborto”.
Haley è stata nei giorni scorsi a New York, dove – sottolinea FT – è stata ricevuta “calorosamente” da diversi finanziatori repubblicani di Wall Street, come l’amministratore delegato di BlackRock Larry Fink e l’ex presidente di Goldman Sahs Gary Cohn, e ha incassato il sostegno dell’investitore Stanley Druckenmiller.
Per Axios, l’amministratore delegato di JPMorgan Jamie Dimon ha avuto “conservazioni private” con Haley sullo stato dell’economia globale. Dimon avrebbe apprezzato l’atteggiamento di Haley sull’economia e la sua convinzione che governo e aziende possono lavorare insieme per la crescita. Dimon è uno dei volti più noti di Wall Street e il suo nome è stato fatto in varie occasione come possibile segretario al Tesoro di un’Amministrazione repubblicana.
Tornando al sondaggio della Cnn, esso mostra che Trump, nel New Hampshire, è forte soprattutto fra gli elettori registrati come repubblicani (il 55% è per lui, il 17% per Haley, l’11% per DeSantis), mentre fra gli elettori che non sono registrati per nessuno dei
due partiti ma dicono di volere votare alle primarie repubblicane la Haley (25%), Trump e Christie (entrambi al 24%) sono praticamente alla pari.

Gli elettori non dichiarati sono circa il 43% dei probabili elettori alle primarie repubblicane.

Varese, 17 novembre 2023

Tarzan

È il 9 aprile del 1979 e Dino Risi, uscito da un hotel, è in attesa di un taxi.
Si trova nella ‘Città degli angeli’ per intervenire più tardi alla cerimonia di consegna dei Premi Oscar in programma al Dorothy Chandler Pavilion.
Concorre per il Miglior Film Straniero con il mitico ‘I nuovi mostri’ – coregisti (si tratta di una pellicola a episodi) Mario Monicelli e Ettore Scola – e, per la cronaca, non vincerà.
Arriva una grossa macchina nera dalla quale veramente a fatica, rischiando di cadere, esce un uomo decisamente malconcio, sui settant’anni, si direbbe.
Lo soccorrono a fatica.
“Lo riconosce?” gli chiede lo chasseur che gli è accanto.
“Johnny Weissmuller.
Non lo ricorda?
È molto malato”.
“Me lo ricordo eccome”, si dice, rivedendo con la mente le incredibili acrobazie che “il primo e il più bello dei Tarzan dello schermo”, in precedenza pluricampione olimpico di nuoto detentore di un numero infinito di record mondiali, era stato capace di fare attaccato a una liana lanciando il famoso urlo e battendosi il petto, sua indimenticabile compagna “la deliziosa Maureen O’ Sullivan”, madre di Mia Farrow.

Fu poi in apertura di serata al Pavilion che Dino – che ha scritto nel 2004 di questo incontro nella strana autobiografia ‘I miei mostri’ ma che in merito raccontava da un qualche tempo quando un ‘momento’ riguardante l’età lo intristiva (e m’è occorso d’ascoltarlo al milanese ‘Matarell’ a cena nei giorni nei quali dirigeva con il figlio Claudio il docufilm ‘Rudolf Nureyev alla Scala’ ideato e sceneggiato da mia figlia Alessandra della Porta Rodiani e da me prodotto nelle vesti di presidente di UnicaMenteMusica) – già di non buon umore, dovette incassare un secondo uppercut.
Fu quando il presentatore della cerimonia Johnny Carson, guardando in platea lo schieramento dei presenti, disse:
“Vedo con piacere molte facce nuove su quelle vecchie!”.

“Ridevano”, concludeva con la sua particolare graffiante voce Dino.
“Ridevano, come da copione, alla invero feroce battuta loro diretta le star ‘datate’ già allora ‘plastificate’.
Io guardavo e anche nel ricordo di Tarzan non mi riusciva certamente di imitarli”.

Varese, 17 novembre 2023

C’era una volta l’America
contributo
di Rino Cammilleri
saggista e scrittore
In materia di religioni, semplicemente, ‘la Cassazione’

Sono cresciuto con John Wayne, John Ford e gli eroici marines cinematografici.
L’impero americano si proponeva come giusto, dalla parte del bene e morale.
Oggi è devastato dai giacobini marxisti e offre uno spettacolo indegno.
Il primo presidente nero, eletto solo perché tale, si è dimostrato il peggiore in duecento anni, a dimostrazione che il cervello non bada al colore della pelle.
Da lui in poi è successa una cosa inaudita: i Blm, i Woke, i Cancel Culture e gli Lgbt sono arrivati alle massime cariche. Distruggeranno gli Usa ed esporteranno la desolazione in tutto l’Occidente da loro controllato.
L’industria militare, la loro principale, non bada a partiti ma solo ai soldi.
Da qui il ripristino della Cortina di Ferro.
Eggià, dopo aver disseminato basi militari in tutti i posti – soprattutto in casa degli sconfitti della Seconda Guerra Mondiale – col legittimo motivo di difendere il cosiddetto mondo libero dall’Urss, caduta quest’ultima qualcuno avrebbe potuto chiedersi che senso avesse tenersi ancora in casa arsenali nucleari a controllo americano, che senso avesse la Nato a conduzione americana.
La crisi ucraina ha risolto il problema; anzi, ha permesso la moltiplicazione delle basi. Geniale.
Il cosiddetto mondo libero non è più tale, perciò è palese a tutti che gli americani comandano col bastone e senza carota. Già nelle nostre legislazioni è entrato il divieto liberal di aprire bocca e l’obbligo di sopportare il degrado morale.
E pure economico.
Questa America non mi piace più e, se devo essere chiaro, forse la sua autodistruzione – già in atto – scatenerà cataclismi.
Ma anche un colossale respiro di sollievo.

Varese, 17 novembre 2023

Domande e risposte a proposito del sistema elettorale americano.

Regole, primati, curiosità
(come sempre detto, possibili anzi certe ripetizioni di temi già altrove trattati, ripetizioni che non ho inteso eliminare per consentire la lettura senza rimandi e pertanto più scorrevole)

Brevissima premessa.

Il Partito Democratico è anche detto dell’Asino o dell’Asinello avendo appunto come simbolo il nobile animale in questione.
Il Partito Repubblicano è anche detto dell’Elefante o dell’Elefantino per lo stesso motivo.
Per di più, il repubblicano è altresì chiamato Grand Old Party, da cui GOP, acronimo che si usa sia per indicare il movimento che a proposito di un suo esponente (‘è un GOP’, si dice) o votante.

D: La scelta del Presidente avviene attraverso una elezione ‘diretta’ (in altre parole, i votanti si esprimono direttamente a favore dei candidati)?
R: No, si tratta di una elezione ‘di secondo grado’.
Vengono nominati, Stato per Stato, dei Delegati – denominati ‘Electors’ con l’iniziale maiuscola per distinguerli dagli elettori comuni, o ‘Grandi Elettori’ (mia denominazione) – i quali, in seguito, in sede di Collegio Nazionale, eleggono il Presidente.

D: Come vengono attribuiti i Delegati per le presidenziali?
R: Il candidato che vince per voti popolari in uno Stato (tranne in Maine, dal 1972, e in Nebraska, dal 1996, laddove si procede con un complicato sistema che prevede la suddivisione dello Stato stesso anche in singoli distretti elettorali) ottiene tutti i Delegati ai quali quel determinato Stato ha diritto.
Si applica quindi il ‘Winner take all Method’ (il vincitore si prende tutto).

D: A quanti Delegati ha diritto ciascuno Stato nelle presidenziali?
R: A tanti quanti sono i suoi Congressisti nazionali (Senatori più Rappresentanti e considerato che questi ultimi sono in proporzione al numero degli abitanti, più lo Stato è popolato, maggiore è il numero dei suoi Rappresentanti e, quindi, dei Delegati da eleggere).

D: Quanti sono in totale i Delegati da nominare?
R: Dalle elezioni del 1964, cinquecentotrentotto pari alla somma dei Senatori (cento) più i Rappresentanti (quattrocentotrentacinque) più i tre ai quali ha diritto dal 1961 il District of Columbia.
Per conseguenza, per arrivare a White House bisogna ottenere almeno duecentosettanta ‘Voti elettorali’ pari alla maggioranza assoluta.
Nel caso in cui ciò non avvenisse (fra poco esaminerò l’accaduto nel 1824), la competenza passa alla Camera.

D: Tutti i cittadini maggiorenni (diciotto anni compiuti) hanno diritto al voto?
R: Sì, ma per esercitare tale diritto – come per candidarsi ad una carica pubblica – è necessario che il cittadino si iscriva alle ‘Liste elettorali’.
Non facendolo, dimostra di non volere praticare un potere che, comunque, gli appartiene.
Nell’iscriversi alle predette Liste, gli elettori possono (non è obbligatorio) dichiarare quale sia il loro partito di riferimento la qual cosa sarà di necessario ausilio nelle Primarie ‘chiuse’.

D: Quale fu il primo Presidente a risiedere nella dimora presidenziale (Executive Mansion, non ancora Casa Bianca, considerato che verrà così denominata solo dopo la sua ricostruzione conseguente all’incendio appiccato dagli inglesi all’edificio presidenziale il 24 agosto 1814)?
R: John Adams, nell’anno 1800.

D: Quanti sono stati i Presidenti USA?
R: Joe Biden è conteggiato quale quarantaseiesimo Capo dello Stato americano ma i Presidenti in quanto persone sono stati quarantacinque.
Fatto è che Grover Cleveland, eletto due volte ma non consecutivamente, è incluso nell’elenco sia al ventiduesimo che al ventiquattresimo posto.
Al riguardo, da segnalare che la giovane moglie di Cleveland, Frances Folsom, era così sicura che il marito avrebbe riconquistato la Presidenza, che il 4 marzo 1889, lasciando la Casa Bianca a seguito della precedente sconfitta ad opera di Benjamin Harrison, chiese al maggiordomo di tenere tutto in ordine perché aveva intenzione di tornare di lì a quattro anni, come in verità avvenne.

D: Quella attualmente in vigore e datata 1787 è la prima Costituzione che gli Stati Uniti si siano dati?
R: Ufficialmente.
Quella che altrimenti potrebbe essere così definita – denominata ‘Articoli di Confederazione’ – fu approvata dal Congresso nel novembre dei 1777 e il suo iter di ratifica da parte degli Stati si concluse nel 1781.
Deludente alquanto, si decise di modificarla.
I convenuti per la bisogna a Philadelphia nel 1787, invece, provvidero a vergarne una nuova.

D: Quando entrò in vigore il cosiddetto ‘Bill of Rights’?
R: La Costituzione, per scelta dei costituenti che ritenevano fosse materia di competenza dei singoli Stati, non parla dei diritti individuali che sono invece elencati e garantiti dai primi Dieci Emendamenti (noti appunto come ‘Bill of Rights’) entrati in vigore attraverso la prevista procedura il 15 dicembre 1791.

D: Quanti sono complessivamente gli  Emendamenti costituzionali?
R: Ventisette.

D: Quale movimento politico organizzò la prima Convention nazionale?
R: Il partito Antimassonico nel 1831 allorché scelse William Wirt come proprio candidato alla Casa Bianca nelle presidenziali in programma l’anno dopo.
Gli altri movimenti allora esistenti si adeguarono praticamente subito.

D: Che cosa è una Convention?
R: E’ il momento conclusivo verso il quale tende tutto il sistema dei Caucus e delle Primarie: è il Congresso del partito che sceglie (ma, il più delle volte, non può che ratificare l’esito delle consultazioni interne svoltesi in precedenza) i candidati alla Presidenza, alla vice Presidenza e discute e delibera a proposito del programma elettorale (la cosiddetta ‘platform’).
Notevole il fatto che le predette Primarie e Caucus, venuti in uso parecchio dopo la Convention, nella procedura interna ai partiti intesa a scegliere il candidato a White House, temporalmente, la precedono.

D: Cosa è una ‘brokered Convention’?
R: E’ una Convention ‘aperta’ alla quale nessun candidato si presenta con una maggioranza di Delegati già conquistata.
L’ultima volta nella quale il partito democratico tenne una Convention di tal fatta fu nel 1968 (ottenne la Nomination Hubert Humphrey).
L’ultima volta per il partito repubblicano fu nel 1976 (prevalse Gerald Ford).
A ben vedere, l’uno e l’altro poi a novembre persero.

D: La maggioranza dei Delegati alle Convention da conquistare è sempre stata fissata al cinquanta per cento più uno?
R: Fino alla democratica del 1936 (a partire dalla quale avvenne il cambiamento), la maggioranza occorrente per ottenere la Nomination era dei due terzi.
Non riuscendo, ovviamente, nessuno dei candidati a raggiungerla prima dell’inizio della kermesse, le votazioni si susseguivano a lungo senza esito e la Convention era il classico ‘mercato delle vacche’ nel quale gli accordi e le intese venivano raggiunti e subito traditi.

D: Quale fu la prima Convention ripresa dalla televisione?
R: Nel 1948, una catena televisiva riprese le due Convention che ebbero entrambe luogo a Philadelphia.
La repubblicana a giugno e la democratica a luglio.

D: Quale la prima elezione per prevedere il cui esito si usò il computer?
R: Quella datata 1952 e il computer era della Remington.

D: Che cosa è un Caucus?
R: Nella sostanza, una riunione ristretta degli attivisti locali del partito che lo indice al fine di scegliere i Delegati dello Stato alla Convention.
L’espressione deriverebbe dalla lingua algonchina e avrebbe indicato la riunione dei capi tribù.

D: In vista di quale elezione presidenziale si adottarono per la prima volta le Primarie già usate nel Wisconsin, a livello statale, dal 1903?
R: Di quella del 1912 – la prima che vedeva partecipare tutti gli Stati membri continentali dell’Unione, quarantotto (Alaska e Hawaii si sarebbero aggiunti nel 1959) – che vide contrapporsi tra i repubblicani William Taft, Theodore Roosevelt e Robert La Follette.
Il risultato non fu esaltante visto che, avendo vinto nelle poche Primarie indette (non tutti gli Stati usarono il nuovo sistema) Theodore Roosevelt e ciononostante essendo stato nominato William Taft, Teddy uscì  dal partito, si candidò come terzo e per conseguenza i repubblicani, diviso l’elettorato, persero White House.
(William Taft finì addirittura terzo, il peggior risultato di sempre per un Presidente in cerca di conferme e comunque per un candidato di uno dei due partiti dominanti).

D: Di quanti tipi possono essere le Primarie?
R: Fondamentalmente, con non poche varianti Stato per Stato, di due: chiuse o aperte.
Nelle prime, sono ammessi solamente gli elettori iscritti nelle sopra citate Liste come votanti del partito che le ha indette.
Nelle seconde (proprio per questo, dette aperte), possono votare tutti gli e quindi anche gli indipendenti e i simpatizzanti di altri partiti, sempre purché iscritti alle famose Liste.
Quanto alla conquista dei Delegati, il partito democratico li aggiudica su base proporzionale (tanti voti, tanti Delegati); quello repubblicano utilizza sistemi diversi tra i quali il ‘Winner take all’ assoluto (chi prende più voti popolari in uno Stato che lo adotti ottiene tutti i Delegati in palio), il ‘Winner take all’ relativo (chi vince per voti popolari deve raggiungere il cinquanta per cento più uno per avere tutti i Delegati che altrimenti vengono spartiti proporzionalmente tra i candidati); in alcuni casi divide lo Stato in distretti e distribuisce gli eligendi uno per distretto riservando comunque una quota a chi prevale su tutto il territorio; eccetera.

D: Come si definisce il calendario di Primarie e Caucus?
R: Per quanto nelle tornate elettorali precedenti al 2016 molti Stati abbiano cercato di collocarsi tra i primi per avere maggior peso nella nomina dei Delegati (capitava ed è capitato che la votazione Primaria in Stati anche di notevole portata – la California, per esempio – sia arrivata a giochi fatti e cioè dopo il raggiungimento da parte dei candidati della maggioranza assoluta sottraendo alla consultazione locale buona parte della portata), sostanzialmente, si percorre una strada determinata.
Si inizia ai primi di febbraio dell’anno elettorale e si procede fino ai primi di giugno.
L’ordine degli Stati chiamati al voto è determinato dai partiti.
Nella maggior parte dei casi democratici e repubblicani vanno nello stesso giorno alle urne nel singolo Stato.
Non sempre, però.

D: Perché i ‘Supermartedi’?
R: Se le Primarie e i Caucus non fossero in qualche occasione raggruppati la maratona per la scelta dei Delegati alle Convention non avrebbe fine.
Così, nello stendere i calendari, si è deciso di indire nello stesso giorno, in due o tre occasioni, un diverso numero di consultazioni che si svolgono di martedì (‘Supermartedì’ essendo parecchie le votazioni in giro per tutti gli USA) con riferimento al giorno in cui si vota per la Casa Bianca, appunto il martedì.

D: Quando e perché un Caucus? Quando e perché una Primaria?
R: Sono i partiti a decidere e determinare se votare con un Caucus o con una Primaria e capita che uno Stato decida di cambiare e di passare dall’uno all’altro tipo di consultazione.

D: Quanti Delegati vengono eletti tra Primarie e Caucus in vista delle Convention?
R: Il numero è variabile e, comunque, non è il medesimo per tutti i partiti.

D: Sulla base di quale criterio si decide a proposito del numero di Delegati alle convenzioni eletti in ogni singolo Stato?
R: Maggiore il numero degli abitanti, maggiore il numero dei Delegati.

D: Cosa e chi sono i ‘Superdelegati’?
R: Oltre ai Delegati scelti nei Caucus e nelle Primarie, il partito democratico fa partecipare alla Convention (con diritto di voto e senza obblighi di osservanza di impegni presi con l’elettorato visto che non vengono eletti) un notevole numero di ‘Superdelegati’: dirigenti, Rappresentanti, Senatori, Governatori e chi più ne ha più ne metta.
La faccenda è oggetto di contestazione da parte di alcune frange del partito e degli elettori comuni.
Nel GOP il fenomeno è molto limitato.

D: Un solo candidato a White House si vide affiancare da due diversi aspiranti alla Vice Presidenza.
Chi?
R: William Jennings Bryan, nel 1896.
Aveva ottenuto la Nomination dai democratici ed anche dai populisti ed entrambi i partiti gli collegarono un candidato Vice.

D: Come si definisce gergalmente il candidato alla Vice Presidenza?
R: Running Mate.

D: Quale è, tradizionalmente, il primo Caucus in calendario?
R: Quello dello Iowa.

D: Quale Primaria, tradizionalmente, inaugura la campagna presidenziale?
R: Quella del New Hampshire.

D: Quale fu il primo candidato cattolico alla Presidenza?
R: Alfred Smith, nel 1928, democratico fu rovinosamente sconfitto da Herbert Hoover perché a causa della sua appartenenza religiosa (un ‘papista’) inaccettabile in molti Stati del Sud usualmente votanti democratico ma assolutamente e integralmente protestanti.
Cattolico e democratico era altresì John Kerry, battuto nel 2004, non certamente per gli stessi motivi.

D: Quale fu il primo Presidente cattolico?
R: John Kennedy, eletto per i democratici nel 1960.
Al fine di evitare che la questione religiosa finisse col determinare, chiese ed ottenne che il tema non fosse tra quelli in discussione.
Il secondo, eletto nel 2020, è Joe Biden.

D: Un cattolico ha mai fatto parte del ticket repubblicano?
R: Due volte e in entrambi i casi quale candidato alla vice Presidenza.
Nel 1964, con Barry Goldwater, William Miller, e nel 2012, con Mitt Romney, Paul Ryan.
Per inciso e senza che vi sia un riferimento, in tutte e due le occasioni il GOP ha perso.

D: Quale fu il primo Presidente democratico?
R: Andrew Jackson, per quanto non esplicitamente, vincitore nel 1828.
In effetti, il partito democratico nasce a seguito dell’esito della campagna elettorale (sopra accennata) del 1824 che vede la nomina ad opera della Camera dei Rappresentanti di John Quincy Adams (nel caso in cui nessun candidato conquisti la maggioranza assoluta degli ‘Electors’ la decisione spetta appunto alla Camera che deve scegliere tra i primi tre classificati che abbiano riportato suffragi votando per Delegazioni e valendo il suffragio di ciascuno Stato uno, a prescindere) che viene preferito a Jackson benché questi abbia ricevuto un maggior numero di voti popolari e abbia riportato un numero più consistente di Delegati.
E’ in conseguenza di ciò che il partito al quale sia J.Q.Adams che Jackson appartenevano – il Democratico/Repubblicano – si spacca e una delle due anime darà vita ai democratici.

D: Quale fu il primo candidato repubblicano?
R: John Fremont, nel 1856.
D’altra parte, il partito repubblicano era nato solo nel 1854, avendo come prima istanza l’abolizione della schiavitù che invece i democratici intendevano mantenere.

D: Quale fu il primo Presidente repubblicano?
R: Abraham Lincoln, eletto nel 1860.

D: Quale fu il primo Presidente a morire in carica per cause naturali?
R: William Harrison, nel 1841 a seguito di una polmonite.
Dopo di lui, Zachary Taylor nel 1850, Warren Harding nel 1923 e Franklin Delano Roosevelt nel 1945.

D: Quale fu il primo Vice Presidente a subentrare mortis causa a White House?
R: John Tyler, nel 1841.
Succeduto il 4 aprile del 1841, resta il Vicario che ha occupato la Casa Bianca per più tempo, mancandogli solo un mese – si entrava in carica il 4 marzo – a fare l’en plein.

D: Quanti e quali i Vice in grado di proporsi autonomamente subito dopo avere esercitato appunto la vice Presidenza e di vincere?
R: Quattro soltanto: John Adams nel 1796, Thomas Jefferson nel 1800, Martin Van Buren nel 1836 e Bush padre nel 1988.
Richard Nixon arrivò anch’egli alla Casa Bianca, ma al secondo tentativo.
Sconfitto da Kennedy nel 1960, si impose nel 1968.
Ha invece fallito nell’intento Al Gore nel 2000.
Walter Mondale, vice di Jimmy Carter, fu sconfitto nel 1984 quattro anni dopo avere lasciato l’incarico.
L’attuale Capo dello Stato Joe Biden ha ottenuto l’agognata Nomination (era all’ennesimo tentativo) non in vista delle votazione seguenti il proprio mandato di Vice ma di quelle di quattro ani dopo (non 2016, ma 2020).

D: Quale fu il primo Presidente ad essere assassinato?
R: Abraham Lincoln, nel 1865.
Dopo di lui, uccisi anche James Garfield nel 1881, William McKinley nel 1901 e John Kennedy nel 1963.

D: Quale il primo Presidente nero?
R: Barack Obama, eletto nel 2008 e in carica per due successivi quadrienni.

D: ‘Maverick’, cosa vuol dire?
R: Viene gergalmente definito in cotal modo il candidato, l’uomo politico non legato (o solo in piccola parte) a un partito o a una ideologia.
Deriva dal verbo ‘To maverick: vagare, vagabondare’ e come sostantivo indicava il vitello o il torello privi di marchio e pertanto senza padrone.

D: Cosa si intende per ‘Maledizione dell’anno zero’?
R: Dal 1840 e fino al 1960, tutti i Presidenti eletti o riconfermati in un anno con finale zero morirono in carica: William Harrison vittorioso appunto nel 1840, Abraham Lincoln eletto nel 1860, James Garfieldnominato nel 1880, William McKinley di nuovo vincitore nel 1900, Warren Harding in carica dopo le elezioni del 1920, Franklin Delano Roosevelt per la terza volta preferito nel 1940 e John Kennedy trionfatore nel 1960.
Vincente nel 1980, Ronald Reagan subì un attentato l’anno seguente rimanendo ferito per fortuna non gravemente.

D: Quanti e quali i Presidenti in cerca di un secondo mandato sconfitti dagli sfidanti?
R: Undici e precisamente John Adams nel 1800, John Quincy Adams nel 1828, Martin Van Buren nel 1840, Grover Cleveland (che poi rivinse nel 1892) nel 1888, Benjamin Harrison nel 1892, William Taft nel 1912, Herbert Hoover nel 1932, Gerald Ford nel 1976, Jimmy Carter nel 1980, George Herbert Bush nel 1992, Donald Trump nel 2020.
Da notare che, a parte Grover Cleveland (peraltro, in grado di tornare in sella quattro anni dopo) e Jimmy Carter, a partire dal 1856 – prima il partito non esisteva – i Capi dello Stato non rinnovati sono tutti repubblicani.

D: Quale fu il primo Presidente ad essere sottoposto ad Impeachment?
R: Andrew Johnson, nel 1868.
Il successore di Lincoln se la cavò per il rotto della cuffia.

D: Quale fu l’unico Presidente che si dimise?
R: Richard Nixon, nel 1974 a seguito dello scandalo Watergate.

D: Quale fu il primo Vice Presidente succeduto mortis causa alla Casa Bianca che si ripresentò autonomamente subito dopo la conclusione del mandato esercitato in luogo del predecessore?
R: Theodore Roosevelt, nel 1904.
In precedenza i subentrati John Tyler, Millard Fillmore e Chester Arthur non avevano riproposto la candidatura al termine del quadriennio da loro iniziato come vice Presidenti (Fillmore lo fece quattro anni dopo).

D: Quale fu la Presidenza più corta?
R: Quella di William Harrison, durata dal 4 marzo al 4 aprile 1841.

D: Quale fu la Presidenza più lunga?
R: Quella di Franklin Delano Roosevelt, in carica dal 4 marzo 1933 al 12 aprile 1945.
Il record non potrà mai essere battuto visto che nel 1951 fu approvato un emendamento costituzionale che impone il limite massimo di due mandati (anche se non consecutivi).
Per la precisione, la norma in questione parla di un massimo ‘di due elezioni’ a prescindere quindi dal fatto che effettivamente l’eletto resti in carica per totali otto anni (pari a duemilanovecentoventidue giorni).

D: Quale fu il primo Presidente figlio di un altro precedente Capo dello Stato?
R: John Quincy Adams, eletto nel 1824 e figlio del secondo Presidente John Adams.
Il secondo fu George Walker Bush.
Benjamin Harrison era invece nipote di William Harrison.

D: Quali Presidenti sono arrivati alla Casa Bianca al secondo o terzo tentativo perché in precedenza sconfitti?
R: John Adams, eletto nel 1796, era stato battuto (ma era previsto dato che il Padre della Patria ‘doveva’ essere eletto) da George Washington sia nel 1788/1789 che nel 1792; Andrew Jackson, superato da J. Q. Adams nel 1824, lo sconfisse nel 1828; William Harrison, perse le elezioni del 1836 contro Martin Van Buren, si prese la rivincita nel 1840; Richard Nixon, sconfitto da Kennedy nel 1960, fu eletto nel 1968.
Altri, tra i quali Joe Biden, erano stati sconfitti nel tentativo di ottenere la Nomination, non nel confronto finale.

D: Quale ‘terzo candidato’, esponente di movimento politico diverso da democratici e repubblicani, ottenne il maggior numero di voti e Delegati nelle elezioni per la Presidenza?
R: Theodore Roosevelt, fuoriuscito dai repubblicani, nel 1912.

D: Quale è l’unico Presidente eletto benché avesse ottenuto sia meno voti popolari che Delegati rispetto ad uno dei suoi rivali?
R: John Quincy Adams, nel 1824 fu battuto da Andrew Jackson che, però, non riuscì a raggiungere il numero di ‘Electors’ necessari ad ottenere l’investitura.
La Camera dei Rappresentanti, chiamata a decidere secondo quanto disposto dal XII emendamento, si pronunciò per Adams.

D: Cosa si intende con l’espressione ‘Presidente di minoranza’?
R: E’ tale l’eletto che abbia riportato a livello nazionale meno voti popolari rispetto al rivale ma che abbia prevalso per il numero maggiore dei ‘Grandi Elettori’ conquistati (è accaduto nel 1824, nel 1876, nel 1888, nel 2000 e nel 2016).
E’ altresì così definito il candidato che vince in una corsa a tre o più competitori dove la somma dei voti popolari degli sconfitti è superiore alla sua.
Per chiarire il concetto: nel 1860, il partito democratico presentò due aspiranti (Alfred Douglas e John Breckinridge).
La somma dei suffragi ricevuti dai due era superiore a quella di Lincoln che però vinse.
Ancora, nel 1912 – quasi a compensazione del precedente narrato – i voti catturati da William Taft, Presidente repubblicano in cerca di conferma, e da Teddy Roosevelt (che era uscito dal GOP) sommati furono molti di più rispetto  a quelli di Woodrow  Wilson che comunque si insediò a White House.

D: Un solo candidato alla Casa Bianca vi arrivò dopo essere stato in precedenza sconfitto quale aspirante alla vice Presidenza.
Chi?
R: Franklin Delano Roosevelt, eletto nel 1932 e battuto come vice di James Cox dodici anni prima, nel 1920.

D: Un unico Presidente entrò in carica senza essere stato eletto né come Capo dello Stato né come vice.
Chi?
R: Gerald Ford, subentrato a Nixon dopo le sue dimissioni, era in precedenza succeduto a Spiro Agnew nel mandato vicario con la prescritta approvazione del Congresso (la norma, innovativa rispetto al passato quando in assenza del Vice perché approdato alla Executive Mansion in luogo del Presidente deceduto, a propria volta morto, in un solo caso volontariamente rinunciatario, il Paese restava senza Vice fino alle successive votazioni, era contenuta in un Emendamento del 1967) a seguito delle dimissioni dello stesso Agnew.

D: Quale è stato il candidato più giovane alla Presidenza?
R: William Jennings Bryan, nel 1896 aveva trentasei anni.

D: Quale è stato il candidato di un partito nazionale più anziano alla Casa Bianca?
R: Joe Biden, nel 2020, avviato ai settantotto anni.

D: Quale è stato il più giovane Presidente eletto?
R: John Fitzgerald Kennedy, che nel novembre del 1960, aveva poco più di quarantatre anni e cinque mesi.

D: Quale è stato il più giovane Presidente in carica?
R: Theodore Roosevelt, che non aveva ancora compiuto quarantatre anni allorché subentrò a William McKinley il 14 settembre 1901.

D: Quale è stato il più vecchio Presidente in carica?
R: E’ Joe Biden, nato il 20 novembre del 1942 e fra poco ottantenne.

D: Quale è stato il Vice Presidente più giovane eletto?
R: John Breckinridge, nel 1856.
Aveva trentasei anni da poco compiuti quando entrò in carica il 4 marzo 1857.

D: Cosa si intende, a chi si fa riferimento parlando di ‘candidato perenne’ (‘Perennial Candidate’)?
R: In cotal modo viene chiamato un individuo pronto a candidarsi sempre e comunque, più spesso a livello locale, per tutte le cariche, col risultato, risaputo, di vedersi sbattere in faccia le porte in ogni occasione.
Una figura in fin dei conti patetica.
Si sono dati e si danno, peraltro, casi di ‘perennità’ a livello nazionale, il più famoso dei quali riguarda Eugene McCarthy, una vera ‘colomba’, nel gergo anni Sessanta.
Dapprima Rappresentante e poi Senatore per i dem, McCarthy si candidò una prima volta alla Nomination nel 1968.
Lunga e dura la sua battaglia nel corso di Primarie e Caucus in specie contro Robert Kennedy che lo sconfisse di poco in California nel giorno stesso in cui fu colpito a morte.
Di lì in poi, la forza elettorale del Nostro sbiadì e la Convention del partito gli preferì il Vice in carica Hubert Humphrey (poi battuto da Nixon).
La sconfitta subita non fu assorbita da McCarthy che, cambiando più volte appartenenza e non ottenendo altro che bocciature, si ripropose per White House la bellezza di altre cinque volte!!!

D: Due donne, prima di Hillary Clinton, hanno fatto parte di un ticket presidenziale sia pure non in prima fila.
Di chi si tratta?
R: Di Geraldine Ferraro, in corsa per la Vice Presidenza per i democratici con Walter Mondale, nel 1984 e di Sarah Palin, Vice in pectore di John McCain per i repubblicani nel 2008.
Tutte e due, sconfitte.

D: Quale la prima Signora eletta invece alla carica di Vice che sta esercitando?
R: Kamala Harris, già Senatrice della California, compresa nel ticket vincente democratico nel 2020.

D: Quale la prima donna ad ottenere la Nomination da parte di uno dei due partiti egemoni?
R: Hillary Rodham Clinton, democratica, nel 2016, dopo che nel 2008 era stata sconfitta nelle Primarie da Barack Obama..
Va qui precisato che molte altre Signore si sono in precedenza proposte (addirittura nell’Ottocento, quando il gentil sesso non aveva diritto di voto: Victoria Woodhull era in corsa nel 1872!) ma tutte facenti capo a partiti minori senza concrete possibilità di elezione.

D: Quale la prima donna eletta susseguentemente in tutte e due le camere?
R: Margaret Chase Smith, del Maine, fu, tra la fine degli anni Quaranta del Novecento e i primi Settanta, prima alla Camera dei Rappresentanti e poi al Senato in rappresentanza del suo Stato.

D: Quale la prima donna arrivata al ballottaggio in una Convention in corsa per ottenere la Nomination in uno dei due partiti maggiori?
R: La citata Margaret Chase Smith, tra i possibili nominati alla convenzione repubblicana del 1964, sconfitta infine da Barry Goldwater.

D: Quale la prima donna nera eletta alla Camera?
R: Shirley Anita Chisholm, nel 1968.

D: Un Vice Presidente in funzione uccise in duello un avversario politico che ne aveva ostacolato in precedenza l’ascesa alla massima carica (e non fu quello il loro unico motivo di contrasto).
Chi era?
R: Aaron Burr, vice di Jefferson dal 1801, che ferì a morte Alexander Hamilton nel 1804.

D: Un solo Presidente è stato eletto (anche) in un anno dispari.
Chi?
R: George Washington, in occasione della sua prima nomina, in una tornata elettorale iniziata nel 1788 che finì nel 1789.
Fino al 1848, infatti, il voto era spalmato in un periodo di oltre un mese, in ogni occasione, salvo la or ora citata, comprendente il mese di novembre dell’anno bisestile.
Per inciso, la data fissata per l’Insediamento del Presidente – che entra in carica l’anno successivo a quello delle elezioni – è il 20 gennaio a partire dal 1937.
Prima, dal 1793 al 1933, si giurava e si entrava in carica il 4 marzo, giorno della promulgazione nel 1789 della Costituzione.

D: Quale è stato il candidato di un partito minore ma nazionale e in qualche modo significante più volte in corsa per la Casa Bianca?
R: Eugene Debs, socialista, nel 1904, nel 1908, nel 1912 e nel 1920 (in questo ultimo caso, mentre era recluso in galera).

D: Oltre Debs, quali altri candidati, appartenenti però a partiti nazionali non minori nelle loro rispettive epoche, sono stati sconfitti in più occasioni?
R: George Clinton, nel 1792 e nel 1808; C.C.Pinckney, nel 1800, nel 1804 e nel 1808; Henry Clay, nel 1824, nel 1832 e nel 1844; William Jennings Bryan, nel 1896, nel 1900 e nel 1908; Thomas Dewey, nel 1944 e nel 1948; Adlai Stevenson (omonimo e nipote di un Vice Presidente dell’Ottocento), nel 1952 e nel 1956.

D: In una sola occasione due candidati ottennero il medesimo numero di Delegati. Chi erano e quando?
R: Nelle elezioni del 1800, vigente un meccanismo elettorale diverso (non era previsto il ticket che fu introdotto nel 1804) Thomas Jefferson e Aaron Burr conquistarono  settantatre Voti elettorali a testa.
La Camera dei Rappresentanti, come prescritto, si pronunciò in merito e al trentaseiesimo scrutinio scelse Jefferson.

D: Ci sono stati candidati presidenziali comunisti?
R: Sì, il relativamente più importante (anche perché appoggiato nel 1932 da molti intellettuali di larga fama) fu William Zebulon Foster.

D: Quanti sono i candidati alla Presidenza?
R: Impossibile una risposta precisa.
Per quanto i partiti maggiori siano due da moltissimo tempo (il primo confronto diretto risale al 1856), benché ovviamente terzi incomodi abbiano rarissimamente e del tutto parzialmente voce in capitolo, i candidati sono un numero incredibile.
L’enorme maggioranza di questi signori, al massimo, è in corsa nello Stato di appartenenza.
Peraltro, il Libertarian Party – che cerca da qualche tempo di accreditarsi come terzo partito nazionale – oggi si propone in tutti i cinquanta Stati.

D: Quanti e quali sono gli Stati fondatori dell’Unione?
R: Sono tredici (tanti quante le strisce nella bandiera americana) e precisamente: Connecticut, Delaware, Georgia, Maryland, Massachusetts, New Hampshire, New Jersey, New York, North Carolina, Pennsylvania, Rhode Island, South Carolina, Virginia.

D: In quale anno è stato istituito il District of Columbia?
R: Nel 1790.

D: In quale ordine sono entrati nell’Unione i restanti trentasette Stati?
R: 1791 Vermont, 1792 Kentucky, 1796 Tennessee, 1803 Ohio, 1812 Louisiana, 1816 Indiana, 1817 Mississippi, 1818 Illinois, 1819 Alabama, 1820 Maine e Missouri, 1836 Arkansas, 1837 Michigan, 1845 Florida e Texas, 1846 Iowa, 1848 Wisconsin, 1850 California, 1858 Minnesota, 1859 Oregon, 1861 Kansas, 1863 West Virginia, 1864 Nevada, 1867 Nebraska, 1876 Colorado, 1889 Montana, North Dakota, South Dakota e Washington, 1890 Idaho e Wyoming, 1896 Utah, 1907 Oklahoma, 1912 Arizona e New Mexico, 1959 Alaska e Hawaii.

D: Chi per primo parlò di Spoils System?
R: L’espressione trae origine da una frase pronunciata da William L. Marcy, sostenitore di Andrew Jackson, che per giustificare la pratica messa in atto dal Presidente di premiare i propri amici con incarichi pubblici sottratti ai rivali politici, disse: ‘Non vedo niente di male nel principio che le spoglie dell’avversario appartengano al vincitore’.
Per la storia, però, già Thomas Jefferson aveva applicato tale pratica per così dire ‘ante litteram’.

D: Quale Presidente fece la prima ‘nomina di mezzanotte’?
R: John Adams, il quale – secondo leggenda ma in verità prima dato che Marshall risulta ufficialmente ‘Chief’ dal 31 gennaio di quell’anno – la sera del 3 marzo 1801 (ultimo giorno del suo mandato) nominò Presidente della Corte Suprema il proprio collega di partito John Marshall, un davvero grande giurista, che restò in carica fino al 1835 anno della morte.

D: Da quando il partito democratico ha per emblema l’Asino?
R: Dal 1828, allorché Andrew Jackson, candidato alla Casa Bianca, fu definito appunto un Asino dagli avversari.

D: Da quando i repubblicani hanno per simbolo un Elefante?
R: Il pachiderma fu ‘inventato’ come emblema del GOP (Grand Old Party, così venne denominato il partito tra gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento) dal cartoonist Thomas Nast e apparve per la prima volta su Harper’sWeeckly il 7 novembre del 1874.

D: Quale partito vide entrambi i suoi candidati eletti a White House morire in carica?
R: Il Whig: William Harrison, eletto nel 1840 e deceduto nel 1841, e Zachary Taylor, eletto nel 1848 e morto nel 1850.
Fra l’altro, i whig, nel loro programma, chiedevano che non fosse possibile essere eletti una seconda volta.
Ad evitare che ciò succedesse, i loro massimi esponenti morirono in corso di mandato.

D: Quali Presidenti hanno vinto pur avendo ricevuto meno voti popolari a livello nazionale del rivale sconfitto?
R: John Quincy Adams, 1824; Rutheford Hayes, 1876; Benjamin Harrison, 1888; George Walker Bush, 2000, Donald Trump nel 2016.
J. Q. A. a parte, gli altri sono tutti repubblicani e han no ovviamente prevalso su avversari democratici.
La cosa è possibile in ragione del fatto che i ‘Grandi Elettori’ vengono assegnati Stato per Stato, guardando al voto popolare locale e non a quello nazionale.

D: Quanti vice Presidenti ha avuto Franklin Delano Roosevelt?
R: Tre e precisamente John Garner nei primi due mandati, Henry Wallace nel terzo e Harry Truman nei tre mesi scarsi nei quali, prima di morire, governò, nel quarto.

D: Quale Presidente ha nominato il primo Segretario di stato donna?
R: Bill Clinton che scelse Madeleine Albright nel 1997.

D: Quale Presidente ha nominato il primo Segretario di Stato nero?
R: George Walker Bush che chiamò nel quadriennio 2001/2005 Colin Powell.
Nel successivo mandato, Bush affidò la medesima carica a Condoleezza Rice, primo Segretario di Stato donna e nera.

D: Quale il primo candidato nero in grado di affermarsi almeno in una Primaria?
R: Il democratico Jesse Jackson nel 1984 (si ripropose con esito migliore poi quattro anni dopo).

D: Quale la prima donna capace di vincere almeno una Primaria?
R: Hillary Rodham Clinton nel 2008.

D: Quale il primo candidato nero capace di conquistare la Nomination?
R: Il Senatore democratico dell’Illinois Barack Obama nel 2008.

D: Quale il primo candidato ufficiale a White House di origini ebraiche?
R: Barry Goldwater, repubblicano e Senatore dell’Arizona, travolto da Lyndon Johnson nel 1984.

D: Quali i Presidenti scolpiti nella pietra da Gutzon Borglum sul Monte Rushmore negli anni Trenta del Novecento?
R: George Washington, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt.

D: Quanti, a partire dal confronto del 1856 (il partito repubblicano fu fondato nel 1854 e si presentava quindi nel citato anno per la prima volta), gli scontri per la Presidenza tra repubblicani e democratici?
R: Quarantadue a tutto il 2020.
In ventiquattro occasioni ha vinto il repubblicano, in diciotto il democratico.
Gli eletti repubblicani (ai quali si aggiungono quali successori il controverso Andrew Johnson – in ticket col repubblicano Lincoln ma in verità democratico – Chester Arthur e Gerald Ford) sono stati diciassette, quelli democratici undici.

D: Chi fu il primo Presidente ‘davvero’ americano?
R: Martin Van Buren il quale, nato nel 1782, fu in effetti il primo inquilino di White House ad essere venuto al mondo dopo la Dichiarazione di Indipendenza degli USA.

D: Davvero la Dichiarazione di Indipendenza è datata 4 luglio 1776?
R: No.
In quella data fu reso noto il testo già approvato due giorni prima, dal Secondo Congresso Continentale.
E’ ciò tanto vero che in una lettera alla moglie Abigail Smith John Adams scrisse ‘Questo 2 luglio resterà nella storia?.

D: Ci sono stati Presidenti scapoli?
R: Due, ma mentre il primo, James Buchanan, rimase tale, il secondo, Grover Cleveland, si sposò nel 1886 con una cerimonia del tutto privata.

D: Molti, come si è visto, i Presidenti morti in carica, ma quanti quelli rimasti vedovi?
R: Due ed entrambi si risposarono in corso di mandato: John Tyler e Woodrow Wilson.

D: Quale la prima ‘vera’ First Lady, anche se l’espressione fu usata la prima volta in occasione dei funerali della vedova di James Madison, Dolley Todd, addirittura nel 1849?
R: Julia Gardiner, seconda moglie del predetto Tyler.
Più giovane del marito di trent’anni, colta e abituata alla vita di società, seppe muoversi con personalità e dare una sua impronta alla fino allora grigia vita presidenziale.
La stampa parlò di lei – ed era appunto la prima volta che ciò accadeva a proposito di una consorte del capo dello Stato – come della ‘Presidentessa’.

D: Quale il primo Presidente coinvolto in scandali pressoché definibili ‘rosa’?
R: Grover Cleveland che fu accusato nel corso della campagna elettorale del 1884 di essere un donnaiolo e di avere anche un figlio illegittimo.
Il futuro Capo di Stato fece una cosa che nessun altro dopo di lui ha più ripetuto a fronte di accuse che riguardassero i rapporti con il gentil sesso: ammise tutto chiedendo se e come questo potesse avere a che fare con le sue qualità politico amministrative e lo scandalo si sgonfiò.
Poco dopo, in carica e prima del precitato matrimonio, accusato di fare entrare e uscire un po’ troppe ‘donnine’ da White House, pubblicamente disse ‘Gli americani sanno di non avere eletto un eunuco’.

D: Quali i colori dei due partiti principali?
R: Rosso per i repubblicani e blu per i democratici, ragione per la quale gli Stati che usualmente votano per i primi sono chiamati ‘Red States’ e quelli che si esprimono per i secondi ‘Blue States’.
Nella notte dello spoglio, per conseguenza, in televisione, gli Stati che vengono assegnati ai GOP si colorano di rosso e quelli ai democratici di blu.

D: Cosa si intende per ‘Swing States’?
R: Sono in cotal modo denominati gli Stati che non votano costantemente per lo stesso partito ma che di volta in volta variano trascorrendo da un iniziale viola al colore definitivo.
I due più importanti sono l’Ohio e la Florida.
L’Ohio ha da questo punto di vista una storia particolare perché dal 1964 in poi e fino al 2020 quando si è espresso per Trump e non per Biden, ha sempre votato per il candidato poi risultato vincente a livello nazionale.

D: Quanti sono di solito i votanti?
R: La risposta fino al 2016 era: intorno al cinquanta/cinquantacinque per cento degli aventi diritto.
In rarissime occasioni – così nel 1960 per Kennedy/Nixon – hanno superato ma non di molto il sessanta per cento.
Ove si guardi al passato, negli anni Ottanta dell’Ottocento in specie, la partecipazione al voto era percentualmente molto maggiore.
Peraltro, all’epoca, gli aventi diritto erano di meno non essendo per esempio ammesse alle urne le donne alle quali la possibilità venne riconosciuta attraverso un emendamento solo nel 1920.
In merito, da ricordare che nell’allora territorio (non ancora Stato) del Wyoming al sesso debole il diritto in questione fu già concesso nel 1869.
Nel 2020, stante la feroce contrapposizione tra i due candidati, il numero dei votanti è salito enormemente arrivando al sessantasei e sette per cento, record dal 1900.

D: Chi fu il primo Vice Presidente?
R: John Adams, poi successore di Washington.

D: Quali i requisiti richiesti per poter legittimamente aspirare alla Presidenza?
R: Essere cittadini degli USA dalla nascita, essere stati residenti negli USA per almeno quattordici anni, avere almeno trentacinque anni d’età.

D: Perché si vota ‘il primo martedì dopo il primo lunedì’ di novembre?
R: Così, come già detto, solo dal 1848 (vinse Zachary Taylor) perché in precedenza l’accesso ai seggi era spalmato su almeno trenta giorni, ogni volta (tranne la prima allorché si votò dal 15 dicembre 1788 al 10 gennaio 1789, un anni dispari!) comprendendo novembre, perché, essendo la domenica giorno del Signore appunto di domenica non si può votare.
Dovendo poi lasciare agli Elettori il tempo per spostarsi dove sono i seggi (il giorno di lunedì), ecco che si vota di martedì.
Non semplicemente il primo martedì perché potrebbe cadere il giorno 1 che è Ognissanti e quindi…

D: Il Presidente viene davvero eletto ‘il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre’ dell’anno elettorale?
R: No. Quel giorno vengono in effetti eletti i già citati ‘Grandi Elettori’ (anche denominati ‘Delegati’) i quali, ‘il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre”, riuniti nel ‘Collegio Elettorale’ (l’organo costituzionale a tal fine costituito) eleggono il Presidente.

D:  Quali le sequenze a White House dal 1856?
Ove si escludano in quanto assolutamente anomale – e irripetibili – le quattro elezioni di seguito di Franklin Delano Roosevelt (l’unico che, prima della approvazione del XXII Emendamento che limita a due le possibili elezioni si sia proposto appunto in più di due occasioni) e quella successiva di Harry Truman, quando uno dei due partiti che si confrontano per la Presidenza dal 1856 ha vinto più di due volte di fila?
R: Per cominciare, il repubblicano si è imposto consecutivamente dal 1860 al 1880 compreso per un totale di sei mandati l’uno dopo l’altro (Lincoln, Lincoln, Grant, Grant, Hayes, Garfield gli eletti).
Ancora il partito dell’Elefante dal 1896 al 1908 incluso per complessivi quattro quadrienni di seguito (McKinley, McKinley, Theodore Roosevelt, Taft i vincitori).
Di nuovo il GOP tra il 1920 e il 1928 per tre termini (Harding, Coolidge, Hoover gli eletti).
Ancora e ancora i repubblicani dal 1980 al 1988 con tre mandati (Reagan, Reagan, George Herbert Bush).

D: Esistono controlli sulla salute fisica e mentale dei candidati?
R: Non ufficialmente.
Nella tornata elettorale del 1972, il Running Mate scelto dal democratico George McGovern era il Senatore Thomas Eagleton.
Solo dopo la sua Nomination si scoprì che era stato sottoposto a cure psichiatriche.
Fu sostituito, ma nessuno vieta di pensare che situazioni analoghe o peggiori possano nuovamente capitare.

D: Quanto dura una campagna elettorale?
R: Con l’andare del tempo, la campagna elettorale – ove si comprendano le dichiarazioni di discesa in campo, i confronti tv interni ai partiti, i Caucus, le Primarie, le Convention e lo scontro finale – è arrivata a durare circa due anni.
E si pensi che per tutto questo periodo i candidati devono necessariamente godere di ottima salute, costretti come sono ad essere costantemente in viaggio e sempre pronti alla bisogna.

D: Quale l’ultima volta nella quale un candidato terzo rispetto ai due dei partiti maggiori ha avuto un notevole riscontro alle urne?
D: Se si guarda agli Stati conquistati, nel 1968 George Wallace, indipendente, ne catturò cinque.
Se si guarda agli ‘Electors’ ottenuti, ancora nel 1968 il citato Wallace (quarantasei, quarantacinque sul campo e uno in sede di Collegio presidenziale).
Se si guarda alla percentuale del voto popolare a livello nazionale, Ross Perot nel 1992, che arrivò al diciannove per cento dei suffragi senza peraltro conquistare un solo Stato.

D: In quale occasione i due componenti il ticket di uno dei partiti maggiori erano entrambi Governatori in carica?
R: Nel 1948 il GOP propose il duo Thomas Dewey/Earl Warren.
Il primo era Governatore del New York.
Il secondo della California.

D: Quando sono iniziati i dibattiti televisivi a livello di contendenti a White House (perché in anni precedenti Adlai Stevenson e Estes Kefauver si erano confrontati in un dibattito interno ai democratici)?
R: Nel 1960 e il primo (in verità, i primi quattro ma nell’immaginario collettivo ne è rimasto solo uno) vide confrontarsi faccia a faccia John Kennedy e Richard Nixon.
Non sempre utilizzati nelle successive elezioni, sono da alcuni decenni il piatto forte della campagna elettorale.
Occorre peraltro distinguere tra i dibattiti interni ai partiti – che vedono scontrarsi i vari candidati alle Nomination e seguono le regole interne – e quelli finali riservati ai due nominati.
Anche i candidati Vice hanno un loro momento specifico.
Questi ultimi confronti per così dire ufficiali sono attentamente regolati, sono determinati da un apposito comitato e hanno un loro calendario.
Un terzo, un esponente nominato cioè da un altro partito o indipendente, è ammesso solo se i sondaggi nazionali lo danno almeno al quindici per cento delle intenzioni di voto.
L’ultimo non democratico né repubblicano ad intervenire in quanto rientrante nel richiesto requisito fu Ross Perot nel 1992.

D: Si parla sempre dei ‘primi cento giorni’ di un eventuale governo.
Come nasce questa espressione?
R: Nel 1935, in vista delle elezioni dell’anno successivo, l’ex Governatore della Louisiana e all’epoca Senatore democratico Huey Long, non contento dell’azione governativa di F.D. Roosevelt che pure aveva appoggiato nel 1932, pubblicò un libello intitolato appunto ‘I miei primi (cento) giorni alla Casa Bianca’.
Intendeva sfidare il Capo dello Stato in carica ed esponeva il suo programma relativamente alle cose da fare subito, appena in carica.
Long fu ucciso per questioni private e la sfida non ebbe luogo, ma, come si vede, quella sua frase ebbe ed ha successo.

D: Da quando si usano i sondaggi nelle presidenziali?
R: I sondaggi tesi a prevedere l’esito del voto novembrino sono in uso dal 1936.
Oggi, e non da oggi, si utilizzano ad ogni pie’ sospinto per l’intera durata della campagna ed ancora prima.
Non che abbiano dato esiti eccezionali, per carità.
Nel 1948 e nel 2016, hanno completamente sbagliato la previsione.

D: La nomina di uno o più giudici della Corte Suprema può influire sulle elezioni presidenziali?
R: E’ buona norma – rispettata molto a fatica – che nell’anno elettorale il Presidente in scadenza di mandato non nomini giudici della Corte Suprema demandando al successore la scelta.
Una prevalenza liberal piuttosto che conservatrice nella Corte comporta conseguenze a breve ma, soprattutto, a lungo termine attraverso sentenze che possono indirizzare il Paese in una piuttosto che nell’altra direzione.
E’ questa la ragione per la quale anche il fatto che il nuovo capo dello Stato debba fare (quando uno dei componenti l’alto consesso sia deceduto o si sia dimesso) o si preveda faccia (se uno o più giudici sia o siano malati o abbiano annunciato l’intenzione di lasciare) tale nomina influisce sul voto dei più avveduti.
Si rammenta che i giudici di cui si parla sono in carica a vita o sino alle possibili dimissioni non avendo il loro mandato termine alcuno.
Ciò detto, davvero eccezionale la situazione che ha permesso a Donald Trump nel corso del suo unico mandato di nominarne (ottenendo poi la ratifica del Senato a maggioranza repubblicana) addirittura tre membri tutti su posizioni conservatrici la qual cosa ha poi portato a una storica sentenza dell’alto consesso sul controverso tema dell’aborto.
Sentenza contestata dai liberal e dai politicamente corretti perché cancella il deliberato del 1973 e riserva in materia la regolamentazione ai singoli Stati.

D: Come è formato e come si elegge il Congresso?
R: La Camera dei Rappresentanti conta per legge quattrocentotrentacinque membri (divisi nei singoli Stati proporzionalmente al numero degli abitanti) e si rinnova totalmente ogni due anni.
Il Senato conta cento membri ma questo in ragione del fatto che ogni Stato ha diritto a due Senatori (non importa il numero degli abitanti) e oggi gli Stati sono cinquanta.
I Senatori restano in carica sei anni e vengono eletti per un terzo ogni biennio.
Le votazioni hanno luogo nello stesso giorno di quelle presidenziali quando coincidono e comunque, quando non coincidenti, nel primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre a metà del mandato del capo dello Stato.
Per questo, vengono chiamate ‘Mid Term Elections’ (‘elezioni di medio termine’).

D: Cosa si intende con l’espressione ‘Presidente di minoranza?
R: 1968, George Wallace esce dal partito democratico, si presenta come indipendente, vince in cinque Stati del suo Sud raccogliendo la bellezza di quarantacinque Grandi Elettori (risulteranno quarantasei perché in sede di collegio elettorale uno dei Delegati di Nixon lo voterà), viene appoggiato da quasi dieci milioni di elettori.
I due candidati principali Richard Nixon e Hubert Humphrey, in termini di voti popolari – non di Delegati visto che il repubblicano prevale per trecentouno a centonovantuno – arrivano spalla a spalla (entrambi sopra i trentuno milioni di suffragi ma con il primo comunque in vantaggio).
Per conseguenza, Nixon sarà un ‘Presidente di minoranza’ essendogli avversi più Elettori di quanti gli risultino favorevoli.
Non che fosse accadimento nuovo o raro.
In precedenza, ‘Presidenti di minoranza’, nel senso ora detto, erano stati John Quincy Adams in una elezione davvero particolare, James Polk, Zachary Taylor, James Buchanan, Abraham Lincoln nella tornata del 1860, Benjamin Harrison, Grover Cleveland nel 1892, Woodrow Wilson in entrambe le occasioni (1912 e 1916) ed Harry Truman.
Un caso simile a quello del 1968 sopra illustrato si ha poi nel 1992, anno nel quale Bill Clinton strappa lo scranno a George Herbert Bush.
La differenza consiste nel fatto che il terzo candidato Ross Perot, pur raccogliendo il diciannove per cento dei voti popolari, pari a oltre diciannove milioni di suffragi, non conquista neppure uno Stato.
Non incide, pertanto, in termini di Grandi Elettori.
Noto, infine, il risultato delle elezioni del 2000 con George Walker Bush in carica per quanto votato da un numero inferiore di persone a livello nazionale e notissimo quello appena ricordato del 2016.
Tutto quanto illustrato, dipende dal sistema elettorale che, brutalmente semplificando, fa arrivare a White House non chi prevalga in termini di suffragi ma chi conquisti Stato per Stato il maggior numero di Elettori.

Varese, 16 novembre 2023

Rally round the flag effect

È così denominato il particolare fenomeno studiato dal political scienist John Mueller che nei momenti di necessità da tutti percepita porta larga parte della popolazione a riunirsi come a difesa sotto la e attorno alla bandiera, sostenendo a man salva il Capo dello Stato o l’uomo politico di turno.
Due gli esempi preclari, entrambi riguardanti i Bush:
– Guerra del Golfo, George Herbert Bush arriva all’ ottantanove per cento dei consensi
– 11 settembre 2001, George Walker Bush arriva al massimo di sempre, il novanta per cento.
Si tratta di un afflato che in quanto tale può essere momentaneo: il vecchio Bush perse l’anno successivo la Casa Bianca.

Varese, 16 novembre 2023

Gli Oscar 1963, incursione

Quando il Barone Cefalù fu battuto da Atticus Finch, il Padre assolutamente perfetto

8 aprile 1963, Santa Monica.
Cerimonia per la consegna degli Oscar.
Tra i candidati come ‘miglior attore protagonista’, Marcello Mastroianni, strepitoso e memorabile nel ruolo di don Ferdinando Cefalù in ‘Divorzio all’italiana’.
Capita purtroppo che i contendenti siano davvero eccezionali per capacità personali.
Capita purtroppo che tutti e quattro interpretino pellicole (come quella di Pietro Germi, del resto) che hanno lasciato ampia traccia nella storia del Cinema.
Nell’ordine:
Burt Lancaster per ‘L’uomo di Alcatraz’
Jack Lemmon per ‘I giorni del vino e delle rose’
Peter O’Toole per ‘Lawrence d’Arabia’
Gregory Peck per ‘Il buio oltre la siepe’.
Incredibile!
Vince Peck.
Grande attore, indossa, nel film ricavato dal bellissimo romanzo scritto da Harper Lee, i panni di Atticus Finch.
È Atticus il padre che tutti vorrebbero avere o avere avuto.
È Atticus uomo, nelle sue debolezze ed ansietà, nelle sue incerte certezze, nella sua assoluta consapevolezza e nella dignità che lo caratterizza, è Atticus uomo ‘perfetto’.
È Atticus Finch semplicemente imbattibile.
Dovrà quell’anno Mastroianni ‘accontentarsi’ del Golden Globe, premio (già catturato perché consegnato prima dell’Oscar) di prestigio che oculatamente distingue le pellicole per genere.
Vincerà colà invero nella categoria di ‘miglior attore in un film commedia o musicale’.
Sarà il Nostro altre due volte invano nella cinquina.

Varese, 16 novembre 2023

A proposito di William Taft: “Come sta il cavallo?”

William Taft era un tipo pesante.
Fisicamente, intendo.
Centoquaranta e più chili?
Chissà?
Da sempre – per dire – e quindi ben prima di essere alla Casa Bianca, sapendo che capienti quanto necessario non ne avrebbe trovate, viaggiava portandosi dietro una adeguata poltrona.
Leggenda vuole – messa in giro la voce dalle malelingue? – che una volta (anni dopo il fatto che vado a narrare) occorsero sei vigorosi giovanotti per tirarlo fuori dalla vasca da bagno della augusta dimora.
Governatore delle Filippine agli esordi del Novecento, in vista della creazione della ideata futura capitale estiva del Paese a Baguio, avendo deciso di visitare l’impervia scelta collocazione a millecinquecento metri di altitudine, lontana da Manila  e collegata solo da un sentiero che zigzagava sui bordi sabbiosi di un canyon, vi arrivò avventurosamente.
Entusiasta della compiuta impresa, riferendo al Governo di Teddy Roosevelt, diede inizio al narrare scrivendo:
“Ho retto bene il viaggio.
Ho cavalcato per quaranta chilometri…”
“Come sta il cavallo?” chiese per tutta risposta, con qualche crudeltà e affondando il coltello nella risaputa piaga, l’allora Ministro alla Guerra dipoi Segretario di Stato e Nobel per la Pace Elihu Root.

Varese, 16 novembre 2023

Breve storia del Messico
rapporti con gli Stati Uniti d’America inclusi

Gli Extados Unidos Mexicanos sono una Repubblica Presidenziale Federale composta da trentadue Stati, uno dei quali è la Capitale Ciudad de Mexico.
Occupano per la gran parte il meridione dell’America Settentrionale a Sud dei confinanti Stati Uniti e per una decisamente minore consistenza il Nord di quella Centrale.
Essendo lo spagnolo la lingua massimamente parlata, sono altresì componenti l’America Latina.
Contano su all’incirca centotrenta milioni di abitanti.

La ben più che bimillenaria storia del Paese trova nel periodo che va dalla Dichiarazione di Indipendenza dalla colonizzatrice Spagna alla fine della Rivoluzione – dal 1810 (1) al 1928 (2), se si determina questa seconda data con riferimento alla morte di Alvaro Obregon – la massima espressione, a mio parere uno dei ‘momenti’ appunto storici più significativi e interessanti per quanti confronti ovunque e nel tempo si vogliano e possano fare.

La trattazione che segue si articola soprattutto (non sarebbe possibile, soltanto) con riferimento a personaggi il cui agire ha dato impulso e nerbo vitale alla Nazione.

È attitudine dello scrivente ripetere nell’ambito delle singole raffigurazioni regole, episodi nonché trattare di istituzioni e normative altrove – a volte addirittura in due o più successivi interventi – già proposti.
Così accade (e non ha inteso intervenire) per consentire al lettore di seguire e comprendere in ogni circostanza il dettato senza dover cercare altrove i riferimenti necessari, indispensabili.

(1)
Il ‘Grito di Dolores’.
Lungi dall’essere un grido di dolore, come verrebbe istintivo tradurre, è a Dolores, località che si colloca nello Stato di Guanajuato, che il 16 settembre del 1810 il curato (e massone?!) don Miguel Hidalgo, radunato al suono delle campane il popolo, pronunciò un sermone nel quale invitava e incitava i parrocchiani a ribellarsi alla autorità del Viceré di Spagna.
È considerato questo il momento iniziale della Guerra di Indipendenza messicana, lotta che troverà compimento il 27 settembre del 1821 con la firma del Trattato delle Tre Garanzie.

(2)
Impossibilitato per via del disposto costituzionale a succedere a se stesso, trascorso pertanto un quadriennio al fianco del successore da lui designato Plutarco Elias Calles, Alvaro Obregon – capo della ‘Dinastia di Sonora (con i due, la formava, nato nello stesso Stato con capitale Hermosillo, Adolfo de la Huerta) – rieletto Presidente da meno di venti giorni, fu assassinato il 17 luglio 1928 da un ‘Cristero’ che intendeva così vendicare i torti feroci e le uccisioni subiti dai Cristiani (a) in quegli anni ad opera dei rivoluzionari.

(a)
Leggenda vuole, che il primo a predicare ed operare in Messico nel nome di Gesù sia stato nientemeno che l’Apostolo Tommaso detto Didimo, del resto noto per le storicamente certificate opere di proselitismo messe in atto per ogni altrove.

Per dare un’idea del vivere a quei tempi.

Un giorno, Pancho Villa chiese al celebre giornalista americano John Reed (che seguiva da vicino gli eventi della Rivoluzione Messicana così come, più tardi, avrebbe fatto con quella Russa) notizie a proposito dell’andamento della guerra negli Stati Uniti.
Quando Reed gli rispose che nel suo Paese non era in corso alcun conflitto, il rivoluzionario del Nord, stupefatto, esclamò:
“Niente guerra?
Ma allora come passate il tempo?”

Geografia e lingua nel Continente America.

Detto che a fine Settecento (e anche dopo), negli Stati Uniti il tedesco era talmente diffuso che si pensò di renderlo ufficiale al pari dell’inglese nella stesura dei documenti (se non addirittura quale idioma alternativo), iniziativa non approvata dalla Camera per lo scarto di un solo voto, per di più, leggenda vuole, espresso proprio da un germanico altresì germanofono d’origine familiare.
Imperdonabile che milioni e milioni di persone, guardando al Messico, ad andar bene, geograficamente, lo collochino in America Centrale.
Non concepiscano appartenga invece pressoché totalmente alla parte settentrionale del Nuovo Mondo.
Li confonda in questo la loquela colà parlata e la sovrapposizione alla realtà della collocazione del concetto storico linguistico da quella derivante di ‘America Latina’.
(A ben guardare, oltre allo spagnolo e al portoghese, non poche – anche se non identificate in cotal modo – le aree geografiche, principalmente nel Nord Continente – Quebec canadese e oramai in quasi insignificante parte in Louisiana – nelle quali si usava ed usa il francese, ovviamente lingua latina anch’esso).
Storicamente, la loquela solo con molta attenzione definibile in questo ambito ‘iberica’ era parlata nel Continente Meridionale (isola olandese, il Suriname, esclusa; isola ufficialmente francofona, la Guyana della Caienna, altrettanto).
In quello Centrale (Belize formalmente non compreso essendo l’inglese l’idioma indicato).
Per una grande estensione di terre – Florida a questo tema eccependo perché comprata dall’Unione nel 1819 trattando direttamente con Madrid – prima facenti luogo come colonie alla Spagna e poi al decolonizzato Messico.
Cui appartenevano il Texas (capace di liberarsi autonomamente nel 1836) e le vastissime estensioni che, diventate secondo le prescritte procedure Territori dell’Unione a seguito della vittoriosa Guerra Stati Uniti Messico (scoppiata nel 1846 e conclusa con il Trattato di Guadalupe Hidalgo firmato il 2 febbraio 1848), successivamente – mano mano anche perdendo l’ispanico a favore della lingua d’Albione – divennero Stati USA quali Colorado, New Mexico, Arizona (ultimo tra questi nel 1912), Wyoming, Utah, Nevada e, ovviamente, California.
Andando indietro nel tempo, per anni, nelle attuali Isole Vergini Americane, si parlò anche danese essendo quelle, con la Groenlandia, parte dell’impero coloniale di Copenhagen nel Nuovo Mondo.

Che il continente americano, in particolare nella parte settentrionale e nei Caraibi (non dimenticando peraltro la meridionale Guyana Francese che, conseguenza della sconfitta navale della flotta napoleonica di Trafalgar, passerà fuggevolmente al Brasile), fu in buona misura colonizzato dai Francesi.
Non solo, come tutti ricordano, in Canada, infine ceduto ai Britannici dopo la Guerra dei Sette Anni.
Quanto in un vastissimo territorio (addirittura due milioni e centoquarantamila chilometri quadrati!) steso sostanzialmente lungo le rive del Mississippi partendo dal Golfo del Messico per arrivare ai Grandi Laghi e alle Montagne Rocciose.
Denominata tale Regione Louisiana (come poi il molto più territorialmente limitato Stato USA) in onore del re Luigi XIV, era nel 1803 teorica (in verità, le molte tribù pellerossa che l’abitavano nulla sapevano in proposito ritenendosi ed essendo del tutto autonome) proprietà di Parigi, laddove governava Napoleone.
Avevano i non da molto nati Stati Uniti a quei tempi particolare interesse al porto di Nouvelle Orleans, loro assai utile commercialmente parlando.
Intenzionato ad acquistare appunto quella che sarebbe poi diventata New Orleans, il Presidente Thomas Jefferson (che in Francia era in precedenti momenti stato  quale Ambasciatore) inviò a Parigi, perché si dedicasse all’impresa insieme al già colà operante in merito Robert Livingston, il futuro Capo dello Stato James Monroe.
Non facile la conclusione della trattativa che era avversata per varie ragioni sia da una fazione degli Statunitensi che dei Francesi.
Determinante, infine ed ovviamente, il volere di Napoleone Bonaparte, al momento in altre faccende, europee, affaccendato e bisognoso di rimpinguare le casse statali.
Fu così che agli Americani (come si diceva, interessati esclusivamente al porto di Nouvelle Orleans e intenzionati a spendere fino a dieci milioni di dollari per averlo), fu offerta la possibilità di acquistare il pre indicato immenso territorio a pochi centesimi l’acro, per quindici milioni in totale.
Il conseguente Trattato (‘Louisiana Purchase’ in inglese e ‘Vente de la Louisiane’ in francese) fu firmato il 30 aprile 1803 nella capitale sulla Senna.
Per rendere l’idea, il territorio darà successivamente origine in toto o parzialmente a un davvero notevole numero di Stati USA: Louisiana, ovviamente, Arkansas, Oklahoma, Missouri, Kansas, Iowa, Nebraska, South Dakota, Colorado, North Dakota, Wyoming, Montana e Minnesota.

Aggiunto quanto agli Stati Uniti, guardando all’America nel complesso, che non va trascurato poi il travagliato rapporto tra il Corso e Haiti.
Era difatti nell’isola – terra di colonia – scoppiata nel declinare del Settecento una rivolta armata guidata da François Dominique Toussaint Louverture.
Tra alti e bassi, affermazioni e sconfitte, tradimenti (Toussaint fu imprigionato con un inganno e morì nelle prigioni francesi) e malattie (il laggiù inviato Generale Charles Leclerc, cognato di Napoleone avendone sposato la sorella Paolina, andò all’altro mondo con non pochi dei suoi uomini per una epidemia di febbre gialla), l’isola segnerà infine una dura sconfitta per Napoleone visto che arriverà – secondo Paese del Nuovo Mondo dopo gli Stati Uniti – all’indipendenza, ufficialmente riconosciuta dall’ex madre patria dall’1 gennaio 1804.

Resta, quanto al rapporto Napoleone/Nuovo Mondo e particolarmente agli USA, una vera ‘chicca’.
Uno dei suoi fratelli minori, Girolamo, aveva sposato in prime nozze (fatte poi annullare dall’Imperatore) Elisabetta Patterson, figlia di un commerciante di Baltimora, Maryland.
I due avevano avuto un figlio, il cui nipote, Carlo Giuseppe Bonaparte (ovviamente, Charles Joseph), sarà uomo politico di peso negli USA fino ad occupare tra il 1906 e il 1909 il ruolo di Ministro della Giustizia nel secondo Governo di ‘Teddy’ Roosevelt.
Va questo personaggio ricordato in quanto nel 1908 ebbe ad istituire il BOI (‘Bureau of Investigation’) che diventerà il celeberrimo FBI (‘Federal Bureau of Investigation’).
Ecco dimostrato pertanto un davvero particolare rapporto tra Napoleone Bonaparte e l’FBI!

Teotihuacan e Tenochtitlan.

Attenti a non confondere – i due toponimi sono molto simili: Teothiuacan e Tenochtitlan.
Non solo sono località diverse ma fanno addirittura riferimento a due civiltà differenti.
La prima è quanto resta di una città che arrivò ad avere  ben più di centomila abitanti e si colloca a circa quaranta chilometri a Nord-Est da Città del Messico.
Si tratta di un sito archeologico di grande importanza che propone pregevoli piramidi e notevoli architetture espressione di una civiltà in qualche modo ignota fiorita tra il primo secolo avanti Cristo e il sesto dopo.
Tenochtitlan, invece, è il nome dell’ex capitale dell’Impero Azteco.
Fondata nel 1325, fu distrutta nel 1521 dagli Spagnoli e sulle sue rovine venne costruita Città del Messico.
Resta della città molto popolata e grandemente organizzata che fu decisamente poco.
Una chiara dimostrazione della spietatezza dei Conquistadores e della ignoranza assoluta e becera che ha caratterizzato quasi sempre le azioni da loro messe in atto per assoggettare popoli non poche volte più civili e in qualche caso pacifici se non, specie al confronto (frecce e lance contro le armi da fuoco), praticamente inermi.

Antonio López de Santa Ana.

La storia del Messico, dagli anni Dieci dell’Ottocento all’estremo declinare dei Venti del secolo successivo?
La più interessante in assoluto!
Mille i protagonisti di un lungo periodo costellato da lotte indipendentiste, colpi di Stato, invasioni, guerre contro i francesi e gli americani, dittature, rivoluzioni, ovviamente molte uccisioni illustri e morti ammazzati a non finire.
Talmente usuale combattere che Pancho Villa, scoprendo durante un’intervista datata 1916 che negli States non c’erano guerre in atto, se ne uscì con un meravigliato ‘ma cosa fate tutto il giorno?’ rivolto all’interlocutore yankee.
Fra i protagonisti di maggior peso del quarantennio che intercorre tra la seconda metà degli anni Dieci e quella dei Cinquanta dell’Ottocento di rilevo assoluto Antonio López de Santa Ana, definito ‘Re non incoronato’ dagli storici.
Presidente undici volte (quasi sempre per un tempo limitato), comandante delle truppe messicane, prima vittorioso ad Alamo e poi sconfitto a San Jacinto (corre il 1836) nel fallito tentativo di impedire la secessione del Texas, capace (perdendo una gamba che farà seppellire con gli onori militari) di liberare Vera Cruz nella Guerra dei Pasticcini contro gli invasori francesi (nel 1839), eroico, strenuo, nello sfortunato conflitto con gli Stati Uniti concluso nel 1848, in esilio dipoi a Cuba, negli USA, in Colombia e nell’isola allora colonia danese di Saint Thomas (non lo voleva nessuno permanentemente), coinvolto in affari se non loschi poco chiari, introduttore negli Stati Uniti del chewing-gum, estimatore e propagandista della lotta tra i galli, il Nostro illustrò di sé il Paese latino americano in quella che altri commentatori chiameranno correttamente ‘The Age of Santa Ana’.
Del generale dubitò peraltro molto Benito Juarez che – desiderava intervenire, il buon Antonio – lo tenne a distanza negli anni dell’avventura messicana, tragicamente conclusa, di Massimiliano d’Asburgo, fucilato al Queretaro nel 1867.
Rientrerà López nell’amata Patria solo nel 1874, approfittando di una amnistia, per morire ottantaduenne due anni dopo.
Con Agustín Iturbide, il citato Benito Juarez, Porfirio Diaz e i protagonisti della Rivoluzione che infiamma il Paese dal 1910 ben oltre il limite ufficiale del 1917 (Alvaro Obregon sarà assassinato addirittura nel 1928), Santa Ana si staglia assolutamente nell’Olimpo messicano.
Chapeau!

Alamo e San Jacinto, nel 1836.

Le due eroiche battaglie che permisero al Texas di rendersi indipendente dal Messico.
Autonomo che fu, lo Stato della Stella Solitaria e i confinanti USA a lungo trattarono una possibile adesione dello stesso all’Unione.
Furono infine due – uno per parte, ovviamente – gli uomini politici che arrivarono a determinare i termini del Trattato di annessione che – una volta concluso, sia pure forzatamente, l’iter procedurale nel 1845 – permise al ‘Gigante’ (come lo chiamerà Edna Ferber) di entrare a far parte degli ‘States’.
Erano il texano di adozione Isaac Van Zandt e il virginiano – all’epoca Segretario di Stato a Washington – Abel Parker Upshur.
Che dire se non che tale indubbio successo non portò loro fortuna?
Upshur, difatti, morì nel febbraio dello stesso 1845 ucciso dalla esplosione di un cannone mentre era a bordo di una nave militare in crociera sul Potomac.
Van Zandt andò all’altro mondo non molto dopo – nell’ottobre del 1847 – a causa della febbre gialla che lo stroncò a Houston.

Messico 1862: la mancata applicazione della ‘Dottrina Monroe’ con varie correlate annotazioni.

La cosiddetta ‘Dottrina Monroe’ – invero, ideata e vergata da John Quincy Adams, all’epoca Segretario di Stato del quinto Presidente USA dal quale prende impropriamente nome – ‘Dottrina’ che, semplificando brutalmente, esplicita e in qualche modo codifica che “l’America è degli Americani” e che i Paesi europei faranno bene a non intervenire in affari che non devono più riguardarli, nasce e viene ‘codificata’ (meglio, proclamata) nel 1823, esattamente il 2 dicembre.
Nel momento storicamente più ‘giusto’.
Si erano allora già resi indipendenti dal giogo coloniale del vecchio continente quasi tutti gli Stati Latinoamericani, a cominciare da quelli dominati dalla Spagna.
Staccandosi per esempio dalla madrepatria e proclamandosi impero sotto la guida di dom Pedro di Braganza, figlio del Re del Portogallo, il Brasile.
Ora, come fu mai possibile che in una situazione tanto bene esplicitata e nota, nel 1862, la Francia di Napoleone III invadesse il Messico, repubblica sovrana e indipendente governata da Benito Juarez, senza che gli Stati Uniti intervenissero?
Pres Vera Cruz – principale porto atlantico messicano e luogo in qualche modo naturale dal quale cominciare una operazione di tal fatta – per la storia, i Feancesi, superate alcune avversità, conquistarono Puebla e infine la capitale Città del Messico nel successivo 1863, tra maggio e giugno.
Ebbene, non era forse nel contempo in corso la terribile ‘Guerra di Secessione’?
Avrebbe mai potuto in quel bailamme Abraham Lincoln interessarsi concretamente della questione messicana?
Ecco la ragione per la quale nell’occasione la citata ‘Dottrina’ non ebbe applicazione.
Certo è, peraltro, che sulla successiva decisione di Napoleone III di ritirare le truppe dal Paese latinoamericano nel 1866 qualche influenza -inferiore comunque alla necessità di averle disponibili in Europa dati i contrasti con la Prussia – ebbe il fatto che gli Stati Uniti, ora non più percorsi, travagliati dal conflitto interno, cominciavano a guardare di mal’occhio la loro permanenza in quelle terre.

annotazioni
1) la Francia era nella circostanza al suo terzo intervento armato ufficiale in terra americana.
Il primo aveva avuto luogo ad Haiti ai tempi di Toussaint L’Ouvertur..
Una spedizione comandata dal Generale Charles Leclerc che laggiù venne a morte a causa della febbre gialla lasciando vedova la sorella di Napoleone Paolina, successivamente Principessa Borghese.
In secondo all’epoca della ‘Guerra dei Pasticcini’, tra il 1838 e il 1839.
Guerra che vide il ‘solito’ sbarco a Vera Cruz e però la sconfitta dei Galletti ad opera del Generale Antonio López de Santa Ana (sì, lo stesso che aveva vinto ad Alamo e perso a San Jacinto dovendo lasciare libero il Texas nel 1836).
Nel corso della battaglia conclusiva, una cannonata tranciò di netto una gamba al predetto Santa Ana che, naturalmente dipoi, la seppellì con i dovuti (a suo parere) onori militari.
Certo, motivazioni economiche di largo peso portarono Napoleone III a invadere il Messico, ma anche l’idea di vendicare lo smacco subito nel 1839.
2) il regno di Massimiliano  d’Asburgo – fu infatti il fratello minore di Francesco Giuseppe ad accettare su proposta di una delegazione che lo venne a cercare a Miramare e col beneplacito di Napoleone III il trono messicano sul quale restò praticamente fino alla morte al Queretaro il 19 giugno 1867 (una fucilazione che molti cercarono di impedire ma che Benito Juarez volle per dire a tutti che il Messico era e doveva essere indipendente e sovrano) – è ufficialmente definito ‘Secondo Impero Messicano’ con riferimento (quasi ne fosse una continuazione) al ‘Primo’, quello che aveva visto regnare brevissimamente – pochi mesi tra il 1822 e il 1823 – Agostino I, ovvero Agustin de Iturbide y Aramburu.
Per asseverare tale continuità, Massimiliano adottò e nominò erede al trono imperiale il nipote di Iturbide, Agustin de Iturbide y Green.

3) Agustin de Iturbide, nel periodo (non lungo, invero) dell’esilio, approdò a Livorno vivendo poi a Polpenazze del Garda brevemente.
Colà scrisse ‘El Manifiesto de Liorna’ (Liorna è il nome spagnolo della città portuale toscana).
Si tratta di un lungo e articolato documento che racconta della vita del primo Imperatore del Messico moderno e soprattutto degli ideali che lo hanno guidato.
Una copia insanguinata di tale trattato fu trovata sul cadavere di Agustin, fucilato immediatamente dopo essere sbarcato sulle coste messicane convinto di poter avere ancora voce in capitolo nelle vicende del suo Paese.

La ‘fatal Novara’.

Per gli Austriaci la battaglia di Novara del 22/23 marzo 1849 era finita bene.
Per celebrare la vittoria, nel 1850 ribattezzarono con questo nome una nave della loro Marina la cui storia va assolutamente raccontata.
In primo luogo, perché, salpando da Trieste il 30 aprile del successivo 1857, quel legno circumnavigò la Terra.
Accadimento di tale preventivamente riconosciuta importanza scientifica (molti gli studiosi delle diverse discipline interessate imbarcati e importantissimi poi i riscontri) che Napoleone III, per quanto fosse in armi contro l’Impero Austroungarico, dette alle navi francesi che l’avessero incontrata per mare l’ordine di non tirarle neppure una cannonata.
In secondo luogo, perché anni dopo, esattamente nel 1864, modificata, portò l’Arciduca Massimiliano d’Asburgo (con la consorte) in Messico laddove sarebbe stato nominato Imperatore.
In terza battuta, perché sarà ancora la Novara a riportare a Trieste il corpo di Massimiliano che era stato fucilato da Benito Juarez al Queretaro nel 1867.
È in ragione di questo ultimo luttuoso accadimento – non con riferimento come molti pensano alla indicata sconfitta dei Piemontesi – che Giosuè Carducci in ‘Miramar’ scriverà della ‘fatal Novara’!

Porfirio Diaz, laddove esercita il potere e inopinatamente apre a Madero.

La parabola storica del generale Porfirio Diaz, Presidente del Messico dal 1876 al 1880 e poi, ininterrottamente, dal 1884 al 1911, è una delle più significative tra quante riguardano i diversi leader del continente latino americano.
Meticcio (nel mentre Benito Juarez era un indiano zapoteco ‘completo’, il Nostro era un ‘quasi’ mixteco) di umili origini, il futuro Presidente era nato a Oaxaca nel 1830.
Abile e deciso combattente, si distinse nelle guerre che insanguinarono il suo Paese a far luogo dagli anni Cinquanta e in particolare nella lotta contro i Francesi e l’imperatore Massimiliano d’Asburgo.
Preso il potere nel 1876 lo esercitò a man salva potendo contare sullo sfinimento dei compatrioti, praticamente in armi da sessant’anni e desiderosi di un periodo di pace.

Ottimamente considerato da osservatori internazionali per il vero alquanto superficiali, Diaz fu a lungo ritenuto “il leader migliore che una nazione arretrata possa avere”.
Di lui, altresì, si diceva:
“Da una palude ha ricavato un giardino, ha trasformato dei predoni in contadini e la bancarotta in un bilancio attivo”.
Di se stesso e del suo metodo poteva tranquillamente affermare:
“Il sangue che ho versato era sangue cattivo, quello che ho risparmiato era sangue buono” e con riguardo all’incredibile durata del suo ‘regno’, dire: “Un Presidente in carica da trenta e più anni? Qualcuno troverà che non sia molto democratico. Sarà anche vero, ma queste sono le necessità del mestiere!”

Il lungo periodo che lo vide in sella esercitando il potere con durezza e brutalità, fu noto, con riferimento allo stato apparente del Paese, come ‘Pax porfiriana’ e, pensando alle cosiddette ‘conquiste’ sociali, civili ed economiche, come ‘Porfirismo’.
Il principio della fine, alquanto incredibilmente, in una intervista che l’oramai anziano capo dello Stato concesse al giornalista americano James Creelman (suo fervente ammiratore) nel mese di marzo del 1908.
Per ragioni di buon vicinato con gli Stati Uniti, nell’occasione, don Porfirio annunciò che in vista delle presidenziali fissate al 1910 avrebbe acconsentito ad affrontare un candidato dell’opposizione davvero alternativo.
Pensava, in vero, di non dover temere alcunché ma si sbagliava perché, lette le sue parole, ecco proporsi un piccolo, timido avvocato liberale, fra l’altro spiritista e omeopata convinto, di nome Francisco Madero.
Come risolvere il problema e vincere a redini basse se non sbattendo in prigione il rivale impedendogli così di fare campagna?
E qui, a bocce apparentemente ferme, nuovamente assiso sullo scranno che pensa ‘debba’ essere sempre suo, un secondo, gravissimo errore: la scarcerazione di Madero che adesso non gli fa più paura.
E’ un attimo: breve esilio dell’avvocatino negli Stati Uniti ed ecco ‘el Plan de San Luis Potosì’, piattaforma programmatica nella quale Madero spiega quale sarà il ‘suo’ Messico una volta scacciato il dittatore.
E’ l’ora della rivoluzione che incendierà il Paese per un’infinità di anni.
Fuggito in Francia dopo le dimissioni rassegnate nel maggio del 1911, don Porfirio seguirà da lontano i sanguinosissimi avvenimenti e morirà a Parigi il 2 luglio 1915.

Francisco Madero siede accanto a Democrazia!

Il 7 giugno del 1911, dopo quattro giorni di viaggio, accolto da una folla osannante (e, del resto, ogni tappa del suo trasferimento verso la capitale aveva visto accorrere migliaia di donne e di uomini in delirio che lo acclamavano), Francisco Madero arrivò a Città del Messico.
Una settimana prima il vecchio dittatore Porfirio Diaz si era imbarcato a Vera Cruz, diretto in Francia e all’esilio dorato di Parigi, sul piroscafo tedesco Ypiranga.
La rivoluzione aveva vinto o, almeno, così sembrava.
A dire il vero – pessimo auspicio – la giornata era cominciata molto, molto male.
All’alba, un fortissimo terremoto aveva squassato la città provocando rovine e lutti.
Ciò malgrado, tanta era la speranza, centomila persone si accalcarono entusiasticamente intorno al liberatore, urlanti e felici.
Ad uno dei manifestanti, che aveva appena gridato a squarciagola
“Viva Madero! Viva ‘democracia’!”,
fu chiesto cosa mai fosse la democrazia e quegli rispose:
“Non lo so, senor, credo che sia la bella signora che sta accanto al dottor Madero”.

Pancho Villa, attore altresì.

“Ho tre grandi vizi: i buoni cavalli, i galli robusti, le belle donne”, così confessava agli amici e ai numerosissimi giornalisti che seguivano le sue imprese Pancho Villa, e, almeno per quel che riguarda le donne, dimostrò fino in fondo quanto le amasse arrivando a sposarne in chiesa addirittura settantacinque (“Poverine, ci tengono tanto”, spiegò a un

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