The Science of Where Magazine incontra Sourabh Gupta del think tank Institute for China-America Studies (ICAS)
La Cina e gli Stati Uniti stanno cercando di trovare una via di moderazione nei loro rapporti. Perché il dialogo tra le due grandi potenze globali è decisivo?
La Cina e gli Stati Uniti sono molto interconnessi dal punto di vista economico, eppure una grande guerra sotto la soglia nucleare tra queste due potenze non è più impensabile. Pertanto, il dialogo – e preferibilmente la coesistenza pacifica – tra Pechino e Washington non è solo un’opzione, ma un imperativo. In poche parole, questo è il motivo per cui il dialogo tra le due potenze è decisivo.
Gli Stati Uniti e la Cina sono colossi economici che rappresentano oltre il 40% del PIL mondiale. Nonostante gli sforzi di Washington per ‘disaccoppiarsi selettivamente’, i due Paesi rimangono profondamente legati tra loro e alle loro regioni grazie ai fitti collegamenti commerciali e tecnologici trans-pacifici. Qualsiasi guerra tra questi due colossi – per quanto limitata possa essere – avrà conseguenze economiche devastanti. E dato che Taiwan sarà probabilmente il teatro di tale scontro, anche il numero di vittime di una gara aeronavale per catturare, o in alternativa negare la cattura, dell’isola autogovernata potrebbe essere devastante. Per questo motivo, entrambe le parti sono consapevoli del proprio interesse in questa via di minor conflitto, per evitare che la sconfitta in una guerra potenzialmente catastrofica porti all’espulsione del Partito Comunista dal potere di Pechino o, in alternativa, all’espulsione degli Stati Uniti dal loro ruolo sistematicamente preminente, dal punto di vista geopolitico, nell’Asia-Pacifico.
Su quali aree strategiche possono esserci maggiori aree di convergenza?
È probabile che vi sia una maggiore convergenza di interessi tra Cina e Stati Uniti su questioni transnazionali, come il cambiamento climatico, data la natura trasversale di tali sfide. L’amministrazione Biden è stata esplicita a questo proposito, sollecitando una cooperazione ‘su richiesta’ su questo fronte, anche se si impegna in una ‘competizione estrema’ con la Cina. Pechino, pur esprimendo disappunto per la strategia di Washington di compartimentare la cooperazione in aree di sua scelta, non ha tuttavia disdegnato di impegnarsi seriamente sul cambiamento climatico – anche se in sordina.
Al di là delle sfide transnazionali, Stati Uniti e Cina condividono anche un interesse convergente nell’elaborazione di un quadro strategico globale per stabilizzare le loro relazioni. Anche in questo caso, l’amministrazione Biden ha apertamente parlato di porre dei ‘guardrail’ per garantire che i legami bilaterali non sfocino in un conflitto. Sebbene non sia soddisfatta dell’inquadramento di Washington dei legami complessivi attraverso la lente della competizione strategica, Pechino ha ricambiato lo sforzo di collocare i legami all’interno di un quadro politico stabile. I principi alla base del Comunicato di Shanghai e dell’accordo sui ‘Principi fondamentali’ di Nixon-Brezhnev dei primi anni Settanta forniscono una base utile per elaborare un quadro strategico nuovo e globale di stabilizzazione dei legami in questa ‘nuova normalità’ dei rapporti tra i due Paesi. Non è assiomatico che, poiché l’era precedente dei legami bilaterali si è conclusa, le due parti siano ora destinate a soccombere a un conflitto inesorabile.
Come si muove il mondo multipolare all’ombra di questa grande competizione?
Non troppo bene, per non dire altro. Sia il Nord che il Sud del mondo sono più preoccupati di proteggere i loro privilegi e interessi più ristretti che di unirsi per riformare consensualmente l’architettura del sistema incentrato sulle Nazioni Unite. Che si tratti della salute pubblica globale, del cambiamento climatico, del sistema monetario e finanziario internazionale, dell’architettura dello sviluppo internazionale o del regime di scambi scientifici e tecnologici, le fratture tra le due parti, simili a blocchi, sembrano approfondirsi su molti di questi fronti, nonostante le proteste di entrambe.
Ciò è dovuto in gran parte all’approccio di Stati Uniti e Cina. Sin dalla fine della Guerra Fredda, l’obiettivo degli Stati Uniti è stato quello di creare un sistema guidato da loro stessi, a volte insieme a diversi alleati e partner e a volte unilateralmente. La ricostruzione di un ordine internazionale incentrato sulle Nazioni Unite è stata una considerazione decisamente secondaria. Con la metastatizzazione della ‘sfida cinese’, la tendenza di Washington è stata quella di riunire un gruppo di nazioni occidentali (per lo più) che costituiscono una minoranza dei membri dell’ONU e, attraverso di loro, cercare di perpetuare la propria leadership globale. Per quanto riguarda la Cina (e il Sud globale, più in generale), pur cercando una maggiore voce e influenza per plasmare i risultati internazionali, ha difficoltà ad andare al di là della retorica banale e ad offrire idee o soluzioni concrete per quanto riguarda la riforma dell’architettura del sistema incentrato sulle Nazioni Unite. La disponibilità della Cina a sborsare ingenti somme di denaro non è sufficiente.
In un certo senso, l’ordine multipolare sembra oggi trovarsi di fronte a un dilemma non dissimile dalla “trappola Kindleberger” degli anni Trenta. Le grandi potenze in carica sembrano incapaci (o non disposte) a sottoscrivere i requisiti del sistema e confondono gli interessi dei loro piccoli gruppi ‘affini’ come un (falso) sostituto per assolvere alle loro responsabilità globali. Le grandi potenze in ascesa, d’altro canto, sono ancora ripiegate su loro stesse e incapaci di compensare questa carenza nella fornitura di beni pubblici globali.
(Original text)
China and the US are trying to find a path of least conflict. Why is dialogue between the two major global powers decisive?
China and the United States are very intertwined economically, yet a major war that is waged beneath the nuclear threshold between these two powers is no longer unthinkable anymore. As such, dialogue – and preferably peaceful coexistence – between these two powers is not just an option; it is an imperative. In a nutshell, this is the reason why dialogue between them is decisive.
The United States and China are economic behemoths, constituting more than 40 per cent of global GDP. Despite Washington’s effort to ‘selectively decouple’, the two countries remain deeply intertwined furthermore to each other and to their regions by way of dense trans-Pacific trade and technology linkages. Any war between these two behemoths – howsoever limited that war may be – will have devastating economic consequences. And given that Taiwan is likely to be the theater for such a clash, the body count from an air-sea contest to capture, or alternatively deny the capture, of the self-governing island could also be devastatingly high. As such, both sides understand their abiding interest in this path of least conflict – lest defeat in a potentially catastrophic war lead either to the eviction of the Communist Party from the portals of power in Beijing or, alternatively, the eviction of the United States from its systemically preeminent role, geopolitically, in the Asia-Pacific.
On which strategic areas can there be greater areas of convergence?
There is likely to be a greater convergence of interest between China and the United States on transnational issues, such as climate change, given the cross-cutting nature of such challenges. The Biden administration has been explicit in this regard, soliciting ‘on demand’ cooperation on this front – even as it engages in ‘extreme competition’ with China. Beijing, while expressing displeasure at Washington’s strategy of compartmentalizing cooperation in areas of the latter’s choosing, has nevertheless not been averse to engaging earnestly on this climate change front – albeit quietly.
Beyond transnational challenges, the United States and China also share a converging interest in drawing up an overarching strategic framework to stabilize their relationship. Again, the Biden administration has openly spoken about placing ‘guardrails’ to ensure that bilateral ties do not veer into conflict. While unhappy with Washington’s framing of overall ties through the lens of strategic competition, Beijing has reciprocated the effort to situate ties within a steadying political framework. The principles that underlain the Shanghai Communique as well the Nixon-Brezhnev ‘Basic Principles’ agreement of the early-1970s provide a useful basis to draw up a new and overarching strategic framework to stabilize ties in this ‘new normal’ era of Sino-American ties. It is not axiomatic that because the earlier era of bilateral ties has drawn to a close, the two sides are now fated to succumb to inexorable conflict.
How is the multipolar world moving in the shadow of this great competition?
Not too well, to say the least. Both the Global North and the Global South are more concerned with protecting their narrower privileges and interests than coming together to consensually reform the architecture of the United Nations-centered system. Be it with regard to global public health, climate change, the international monetary and financial system, the international development architecture or the regime of science and technology exchanges, the bloc-like fissures between the two sides appear to be deepening on many of these fronts – despite protestations to the contrary by both.
In no small part, this is due to the approaches of the United States and China. Ever since the end of the Cold War, the goal of the United States has been to establish a system led by itself, sometimes together with several allies and partners and sometimes unilaterally on its own. Rebuilding a UN-centered international order has been a decidedly secondary consideration. As the ‘China challenge’ has metastasized, Washington’s tendency has been to convene a ‘like-minded’ group of (mostly) Western nations that constitute a minority of the UN’s membership and, working through them, seek to perpetuate its global leadership. As for China (and the Global South, more generally), while it seeks greater voice and influence to shape international outcomes, it has difficulty moving beyond boilerplate rhetoric and offering concrete ideas or solutions with regard to reforming the architecture of the United Nations-centered system. China’s readiness to disburse large sums of money is not enough.
In a sense, the multipolar order today seems to be facing a dilemma not unlike the ‘Kindleberger trap’ of the 1930s. The incumbent great powers seem unable (or unwilling) to underwrite the system’s requirements and conflate the interests of their ‘like-minded’ small groups as a (false) substitute for discharging their global responsibilities. The major rising power/s, on the other hand, are yet inward-looking and incapable of making up for this deficiency in the provision of global public goods.
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