(Marzia Giglioli per The Global Eye)
Incontro Biden – Xi, solo una ‘operazione cosmetica’. I guardrail tra Washington e Pechino per riportare i rapporti entro direzioni controllabili. I grandi temi restano linee rosse. Intervista a Francesco Radicioni, esperto di problemi asiatici e corrispondente dalla Cina
L’ incontro di oggi tra Biden e Xi si tiene in uno dei momenti di massima tensione internazionale con la guerra in Ucraina che ha divaricato ancora di più le posizioni tra Washington e Pechino e la guerra di Gaza che non vede ‘presente’ in modo evidente la Cina ma che vede gli USA al centro di un difficile confronto globale con alcuni attori nascosti tra le quinte. Entrambi i leader sanno quanto sia vicino il rischio di un allargamento del conflitto e vogliono assolutamente evitarlo.
Pechino si scaglia contro l’egemonia globale degli USA e si propone come paladina di un diverso ordine internazionale. Mentre Biden vede nella Cina la principale sfida agli Stati Uniti sulla scena mondiale. Un’antitesi insormontabile. Due blocchi senza alcuna complessità possibile.
Il faccia a faccia tra i due leader del mondo era sembrato agli osservatori addirittura improponibile.
Ora si guarda a questo imcontro ma con quali spiragli verosimili per una ripresa del dialogo?
Ne abbiamo parlato con un esperto analista di problemi asiatici e corrispondente per molti anni a Pechino: Francesco Radicioni.
Possiamo individuare segnali di disgelo nel difficile rapporto tra le due potenze mondiali, Stati Uniti e Cina, o almeno una de-radicalizzazione delle rispettive posizioni?
Entrambi hanno un obiettivo determinato ed è quello di essere ‘attrattivi’. Entrambi non potranno consentire all’altro di essere leader del mondo e questo li separa ineluttabilmente. In questo momento è impossibile individuare segnali di disgelo. Dall’incontro usciranno solo ‘azioni cosmetiche’. Al massimo possiamo attenderci che vengano riaperti nuovamente i canali di comunicazione militare dopo la rottura intervenuta dopo il viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan. Forse potrebbe esserci qualche piccolo passo avanti sui problemi ambientali, ma sui grandi temi rimarranno le differenze.
Quindi cosa attenderci davvero? E a cosa serve un incontro in questo momento se esistono così tante divaricazioni?
L’incontro serve a costruire dei guardrail, serve a riportare i rapporti entro direzioni controllabili per evitare che le relazioni vadano fuori controllo. Non c’e una soluzione. Il blocco sulle tecnologie resterà, è iniziato con Trump ed è peggiorato: anzi, è diventato meglio strutturato. Rimangono gli stessi dazi di Trump. La Cina ha fatto molta lobby per toglierli ma non saranno tolti. Taiwan rimane un ‘dossier esistenziale’ per entrambi.
Per gli Usa signifca levare alla Cina l’accesso al Pacifico. Per la Cina significa il superamento del secolo dell’umiliazione.
Sulle due guerre vi sono tensioni evidenti e un’assenza della Cina sul Medio Oriente ancora da decifrare
Sul tema delle due guerre bisogna partire da come la Cina percepisce se stessa. Pechino non può abbandonare Putin. Con Gaza invece si è raggiunto un paradosso. Ora con gli ebrei non c’è più empatia il che sembrava fino a poco tempo fa impossibile. La geopolitica li ha spinti verso gli arabi con l’obiettivo di inserirsi nel Sud globale.
Ma un incontro deve aver comunque un significato
È il tentativo di mettere alcune cose a posto. Si apre in America un anno elettorale. Si vedranno delle ‘bastonate terribili’ verso la Cina. L’incontro era necessario che avvenisse adesso, all’inizio della lunghissima campagna per il voto. I toni si accenderanno ed è bene mettere dei paletti. E’ alto il rischio che si arrivi a un incidente che nessuno vuole. Spegnere i toni. Ci sono scenari troppo pericolosi. Tutta la regione intorno alla Cina è ad altissimo rischio di incidente: basti pensare alla Corea o al Myanmar, dove è in corso una guerra civile. L’area è di estrema importanza per la Cina perché le offre, attraverso una serie di pipeline, di gasdotti e di strade, il collegamento diretto tra una regione povera in arricchimento e il Golfo del Bengala. Per la Cina è fondamentale.
Ma sul fronte degli Usa stanno arrivando segnali e alcune ‘voci’ che sembrano elementi introduttivi verso un possibile dialogo con Pechino. Bill Gates ha detto che l’ascesa della Cina è una risorsa storica.
Uno degli appuntamenti da guardare è il prossimo incontro di Xi con il gotha economico-finanziario USA. Pechino sta cercando di influenzare il mondo del business e provare a piegare la politica attraverso il business e Wall Street. Lo ha fatto con Apple, con Elon Musk, con Bill Gates e lo ha fatto per altri versi con Kissinger. In atto c’è uno scontro economico-finanziario. E’ un gioco di scacchi ma con nessun cambiamento di posizione. L’America vuole dettare le regole, per la Cina tutta la colpa è americana. Inoltre, tutti i temi importanti sono linee rosse e Taiwan è la più rossa di tutte.
Ma si può guardare a spazi di possibili intese?
Solo su questioni commerciali. Pechino e Washington potranno riaprire canali di collegamento diretto su alcuni temi economici. Creare delle situazioni dentro le quali i temi di scontro siano gestibili ed evitare problemi che possano provocare incidenti e nuove guerre.
Quale ruolo possono assumere altri Paesi nell’ area orientale in questo scontro scontro perpetuo tra posizioni antitetiche ?
La Cina sta strizzando l’occhio al Sud del mondo, a partire dal Sud a lei piu vicino, il Sud-Est asiatico e l’ASEAN. La verità è che questi Paesi non vogliono archiviare la globalizzazione. Anche quelli più poveri come la Cambogia e il Laos. Da parte sua, Pechino continua a mandare messaggi, fino dai tempi di Davos, e cioè che la globalizzaione – scandisce – mantenga l’aggettivo ‘economica’. Un’idea molto diversa dal significato occidentale che aveva una forte connotazione, oltreché economica, anche di democrazia. La verità è che i Paesi dell’ASEAN non vogliono dover scegliere da che parte stare con una forte resistenza alla logica dei blocchi. Da un punto di vista economico sono molto dipendenti dalla Cina. La Thailandia prima del Covid registrava 40 milioni di turisti, un quarto dei quali dalla Cina, il che significa un 30% del PIL del Paese. Ci sono, inoltre, altre componenti asiatiche importanti come la Corea del Sud e il Giappone, che sono alleati USA e hanno forti rapporti in termini di sicurezza con gli Stati Uniti. Non vogliono scegliere e hanno soprattutto paura perché una guerra nella regione significherebbe interrompere una crescita economica che oggi si aggira tra il 5 e l’8%. Si guarda ad una competizione gestibile tra USA e Cina. Molte imprese occidentali escono dalla Cina e atterrano nel Sud-Est asiatico. Per intenderci: una guerra su Taiwan sarebbe devastante.
Si può guardare al BRICS come a un futuro forte polo antitetico?
Bisogna prima intendersi su che cosa significa BRICS. L’ipotesi che possa diventare un aggregatore vero di interessi direi di no. I Paesi che lo compongono sono troppo diversi tra loro. Molto di più rispetto al G7 e alla stessa NATO che hanno componenti in grado di unirli. I BRICS ‘si fanno la guerra’. Come Cina e India, come Egitto ed Etiopia che hanno un contenzioso sul Nilo, come l’Iran e l ‘Arabia Saudita. È davvero improbabile che diventi un anti-G7 o un anti-NATO. Altra cosa è l’idea molto retorica, ma in politica anche la retorica conta, e cioè dire ‘vogliamo avere più peso’. È un messaggio che risuona bene in questi Paesi e che rafforza il messaggio anticoloniale. Cina e Russia si rendono conto che questo è un tema che, all’interno delle opinioni pubbliche occidentali, può scavare e dividere. E’ quello che sta accadendo a Gaza dove la piazza araba non si è infiammata, mentre le manifestazioni più evidenti ci sono state invece in Occidente.
(riproduzione autorizzata citando le fonti – The Global Eye e The Science of Where Magazine)