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Varese, 18 febbraio 2024
DeWitt Clinton, nulla a che fare con Bill ma un politico di vaglia
Non è che essere stati Sindaco di New York porti bene quanto a successive candidature alla Presidenza.
Perfino quanto all’ottenimento della Nomination.
L’abbiamo verificato con Rudolph Giuliani (nel 2008) nonché nel 2020, seguendo la certamente poco brillante avventura di Bill de Blasio.
Un repubblicano il primo, un democratico il secondo.
A dimostrazione del fatto che non si tratti di una questione partitica.
Unica (e lontana nel tempo) relativa difformità, peraltro non ottimizzata, quella rappresentata da DeWitt Clinton.
Fra i massimi esponenti Democratico Repubblicani, il Nostro era indubbiamente affezionato alla carica di Major della futura Grande Mela che ricoprì tre volte dopo essere stato Senatore e prima di arrivare al Governatorato ad Albany.
Ebbene, nel 1812, opposto al Presidente in cerca di un secondo mandato Padre della Patria e Fondatore James Madison, anch’egli Democratico Repubblicano, fu vicino alla vittoria.
Gli sarebbe bastato, infatti, conquistare nella circostanza la Pennsylvania (si dice così ma in termini di suffragi popolari restò lontano) e i suoi venticinque Elettori per vincere.
Da segnalare e sottolineare il fatto, davvero particolare, che nella circostanza fu appoggiato anche dal Partito Federalista che, declinante, non aveva proposto un proprio candidato e che per conseguenza egli venga a volte ricordato erroneamente appunto come aderente al movimento di John Adams.
Fu quel Clinton – nipote di George, a sua volta Vice sia con Jefferson che con Madison e assolutamente come lui non apparentato con Bill (del resto, questi, alla nascita, William Jefferson Blythe III) – quanto ai destini politici nazionali dei Sindaci nuovaiorchesi, quindi, l’eccezione (relativa, relativa) che conferma la regola.
Varese, 16 febbraio 2024
Tra Biden e Trump i rischi del dopo elezioni
di Mauro della Porta Raffo
(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 16 febbraio 2024)
Cosa succede se il 5 novembre Donald Trump sconfigge Joe Biden il quale resta comunque in carica fino a mezzogiorno del 20 gennaio seguente per settantacinque giorni e più?
Dalla seconda elezione presidenziale datata 1792, fino alla votazione del 1932 compresa, l’Insediamento del Presidente USA eletto ha avuto luogo il 4 di marzo dell’anno seguente. Si ricordava in questo modo l’entrata in vigore della Carta Costituzionale datata 4 marzo 1789.
Il periodo nel quale si aveva sostanzialmente la coesistenza di due Capi dello Stato – quello comunque in carica e l’eletto, ovviamente nel caso in cui fossero di due diversi schieramenti e non solo, inoltre, come più volte accaduto, invisi a dir poco l’uno all’altro – era molto lungo.
Troppo, si decise, ragione per la quale dalla tornata elettorale del 1936, con un apposito Emendamento, il Ventesimo, la cerimonia fu anticipata al mezzogiorno del 20 gennaio dell’anno dispari successivo.
Sono comunque settantacinque giorni e mezzo, non poco.
Troppo, se il Presidente ancora in carica per quanto defenestrato e l’eletto siano ai ferri non corti, cortissimi come oggi Joe Biden e Donald Trump, dovesse il secondo spodestare il primo.
Esiste un sistema – che ha già fatto acqua in precedenti non altrettanto conflittuali occasioni – che prevede il passaggio di consegne sostanzialmente governato da due commissioni che concordino lo svolgimento delle procedure, auspicabilmente, col miglior possibile fairplay.
Un orizzonte preoccupante con ogni probabilità quello che ci aspetta visto che nessuno dei due contendenti sembra poter avere nel caso un atteggiamento simile a quello di James Buchanan che accolse con estrema cortesia Abraham Lincoln dicendogli che si augurava fosse altrettanto contento il repubblicano di entrare nella stanza ovale quanto lui di lasciarla.
O come uscì di scena quel gran gentiluomo che fu George Herbert Bush, facendo trovare sulla scrivania a Bill Clinton che lo aveva battuto una lettera così composta:
“Caro Bill, proprio adesso, entrando in questo ufficio, ho provato la stessa sensazione di meraviglia e rispetto che avevo vissuto quattro anni fa.
So che la sentirai anche tu.
Ti auguro di essere felice qui. Io non ho mai sofferto quella solitudine che altri presidenti hanno descritto.
Verranno momenti difficili, resi ancor più difficili dalle critiche che percepirai come sleali.
Non sono bravo a dare consigli; ma non lasciare che queste critiche ti scoraggino o che ti spingano fuori strada.
Quando leggerai questa mia nota tu sarai il nostro Presidente.
Ti auguro il meglio.
Auguro il meglio alla tua famiglia.
Il tuo successo adesso è il successo del nostro Paese.
Faccio il tifo per te.
Buona fortuna.
George”.
Varese, 16 febbraio 2024
Edgar Hoover diventa capo del Federal Bureau of Investigation
Van Cliburn a Mosca e nel giorno dell’addio.
(Considero l’avventura moscovita del grande pianista una importante dimostrazione – quale ripeterà sulla scacchiera Bobby Fischer nel 1971/72 – dell’Individualismo americano capace di opporsi e prevalere sulla ferrea organizzazione burocratico politica del Comunismo in Russia e nei Paesi del Patto di Varsavia imperante!).
Avevano ragioni da vendere Indro Montanelli e Dino Risi nel sostenere che bisogna morire nel giorno giusto, un giorno nel quale altre notizie non sottraggano al defunto gli onori della prima pagina dei quotidiani e dei titoli di tg e gr.
Ecco, Van Cliburn, il grande Van Cliburn, se ne è andato il 27 febbraio 2013 nel mentre il mondo seguiva le vicende papali e l’Italia, con l’Europa, le elezioni.
Ricordo il primo Concorso Ciaikovsky per pianoforte: era il 1958, in piena Guerra Fredda, e a Mosca avrebbe dovuto, dovuto!, trionfare un sovietico.
Ma ecco un giovane americano, il ‘nemico’, rifulgere.
Otto minuti di applausi.
I giudici, costernati, vanno da Nikita Krushov e gli fanno presente la situazione.
“E’ il migliore?”, chiede il capintesta. “E allora premiatelo”.
Tornerà, Van Cliburn, a Mosca nel 1962 e chi lo voglia, può ascoltare la sua eccezionale (seconda, a mio modo di vedere, solo a quella di Claudio Arrau con Sir Colin Davis) esecuzione – dirttore Kirill Kondrashin – del Secondo Movimento – “il più bel Secondo Movimento mai scritto”, ebbi a vergare – del ‘Concerto Imperatore’ di Beethoven.
Conservo gelosamente il primo trentatre giri registrato da Van Cliburn: immensa classe, diffusa a piene mani.
Sarà a lungo tra i migliori, almeno fino alla morte del padre la cui scomparsa lo trafiggerà.
C’è gente che non dovrebbe mai morire.
Varese, 15 febbraio 2024
John Quincy Adams, abbandonato da Dio
di Mauro della Porta Raffo
(Lo ritrae nei primi Quaranta dell’Ottocento la prima fotografia rinvenuta di un Presidente degli Stati Uniti)
John Quincy Adams, già Segretario di Stato e vero estensore della Dottrina Monroe, antischiavista eponimo, sedette alla Executive Mansion – il solo eletto dalla Camera dei Rappresentanti – tra il 4 marzo 1825 e il 4 marzo 1829, ultimo esponente della ‘aristocrazia’ alla quale si deve l’idea stessa e la creazione dell’Unione..
Al riguardo:
“Al pari di Mosè e di una schiera di riformatori ed idealisti, John Quincy Adams aveva sognato, con la sua interpretazione del pensiero divino quale si manifesta nella Natura, di stringere ‘un patto con Dio’ e di rigenerare in tal modo l’Umanità.
Sapeva di essere stato al patto, anche fin troppo, per quello che lo riguardava.
E invece, quando si era venuti alla prova, Dio lo aveva abbandonato e aveva reso possibile il trionfo di Jackson che, per Adams era la materializzazione del ‘principio del male’… Che impersonava il ‘principio della pubblica ladreria’…”
Henry Adams
Varese, 14 febbraio 2024
Si vota a Washington ma ovviamente l’Europa è interessata
Generoso Chiaradonna
per il Corriere del Ticino
“Molte forme di governo sono state sperimentate e saranno sperimentate in questo mondo di peccato e di dolore.
Nessuno ha la pretesa che la democrazia sia perfetta o onnisciente.
Infatti, è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo a eccezione di tutte le altre forme che sono state sperimentate di volta in volta”.
È una frase storica di Winston Churchill pronunciata nel Parlamento inglese nel giugno del 1947 per dire che tutto sommato non ci sono scelte migliori. Le macerie della Seconda guerra mondiale erano ancora ben visibili in Europa come pure era viva la memoria per forme di governo dispotiche (fascismo e nazionalsocialismo) che avevano portato a quella distruzione
La democrazia a differenza delle dittature ha i suoi riti che si ripetono generalmente ogni quadriennio.
I cittadini vengono chiamati alle urne, come si dice, per scegliere i loro rappresentanti in Parlamento o addirittura chi li governerà per i quattro anni successivi.
Il voto però è la mera forma della democrazia.
Per dire, si vota nella Russia di Putin e nel Venezuela dei Maduro che non possono essere annoverate tra le democrazie liberali.
Si votava anche nell’Iraq di Saddam Hussein o nella Germania Est che era sì comunista, ma si definiva democratica almeno nel nome.
La sostanza ci dice che il grado di democrazia e libertà di un Paese non si misura solo dal fatto di poter apporre una crocetta su una scheda o da quanti corrano ad apporla.
La libera espressione del voto dovrebbe essere il compimento di un lungo percorso frutto di una società civile ben organizzata con i famosi corpi intermedi (le associazioni di categoria, i partiti politici, i sindacati) che ha accesso a un sistema scolastico e formativo – a tutti i livelli – degno di questo nome e soprattutto che può contare su magistratura e stampa indipendenti, sul rispetto delle libertà individuali oltre a un sistema di sicurezza sociale che non lasci indietro nessuno.
Senza queste premesse nessuna elezione può dirsi democratica, nemmeno se alle urne andasse a votare il 100% degli aventi diritti.
Nel corso dei prossimi dodici mesi è stato stimato che la metà della popolazione mondiale – circa quattro miliardi di persone – saranno chiamati a eleggere i propri rappresentanti.
Si voterà negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Iran, India, Indonesia, Messico, Corea del Sud e in Europa per il rinnovo del Parlamento dell’Unione europea, per citare quelle più emblematiche.
Ma le elezioni più importanti e che potrebbero condizionare il futuro del cosiddetto mondo libero, per usare un termine tornato in auge, sono le presidenziali statunitensi.
Quelle europee, molto mediatizzate almeno da questa parte di quella che fu la Cortina di ferro, oltre a misurare il grado di populismo vero o presunto di questo o quell’altro Paese, contano molto meno di quanto si crede.
Il Parlamento europeo è un legislatore sui generis, tanto è vero che vi vengono elette spesso figure di secondo piano delle rispettive scene politiche nazionali.
Gli eurodeputati, inoltre, possono solo dire sì o no a proposte che vengono dalla Commissione europea, un esecutivo ancora più vago che dipende dal Consiglio europeo ovvero dai singoli governi nazionali.
Insomma, una democrazia rappresentativa debole quella delle istituzioni europee volute così dai fondatori e che dovrebbero servire almeno a stemperare le tensioni che ogni tanto montano in seno alla stessa Unione.
La guerra in Ucraina è una di queste tensioni.
Ma è agli Stati Uniti che si guarderà con attenzione verso la fine di quest’anno. Lì due quasi ottuagenari, l’uscente Joe Biden e l’ex presidente Donald Trump, replicheranno quasi sicuramente lo scontro di quattro anni fa.
Oltre ad avere due proposte per l’economia opposte – incentivi pubblici per sostenere la transizione energetica e tecnologica da una parte e tagli fiscali dall’altra – è il conflitto russo-ucraino a separarli e che allontanerà ancora di più le due sponde dell’Atlantico in caso di vittoria di Trump con il rischio concreto che sarà l’Europa, quella dalle istituzioni deboli, a pagare le conseguenze non solo geopolitiche di una eventuale sconfitta militare ucraina.
Varese, 14 febbraio 2024
George Wallace, “Segregazionista?”, “Altroché!”, oppure, “Quando mai?”
Quante mai volte George Wallace ha cambiato opinione e posizione a proposito del segregazionismo?
Sconfitto per il Governatorato dell’Alabama quando per qualche verso liberal.
Eletto a valanga quando passato al razzismo più becero.
Rieletto, infine, pentito e di bel nuovo liberale.
Non sapremo forse mai chi fosse e cosa davvero pensasse Wallace.
Sappiamo invece che nelle cosiddette presidenziali del 1968, proponendosi come ‘terzo’ contro Richard Nixon e Hubert Humphrey, seppe conquistare tutti e cinque gli Stati del ‘profondo Sud’ e un bel mucchietto di delegati.
Dopo quello conseguito da Teddy Roosevelt nel 1912, il miglior risultato di tutto in Novecento di un aspirante alla Casa Bianca non espresso dai due partiti dominanti.
Ci riprovò quattro anni dopo, questa volta nelle primarie democratiche, ma un attentato lo costrinse sulla sedia a rotelle.
Non fu, alla fine, neppure questo a fermarlo a livello nazionale.
No, è che il suo momento e quello dei segregazionisti in genere era passato.
E pertanto, si riciclò!
Varese, 13 febbraio 2024
Charles Evans Hughes, tutto, non la Presidenza!
Ok, lo ricordate.
Nel 1912 – quasi volessero restituire ai democratici un antico favore (dividendosi, nel 1860, avevano gli Asinelli favorito la vittoria di Abraham Lincoln) – i repubblicani si spaccarono e, per quanto i voti popolari raccolti da Teddy Roosevelt e William Taft messi insieme fossero parecchi di più, proprio il democratico Woodrow Wilson aveva conquistato White House.
Forti della presunta consistenza del loro elettorato e dei precedenti, i GOP nel successivo 1916 erano molto ottimisti.
Contavano di defenestrare non si dice facilmente Wilson, ma insomma…
Si spiega così il notevole numero di pretendenti alla Nomination.
Tra gli altri, l’autorevole Senatore del New York Elihu Root, il suo collega del Massachusetts John Weeks e il Giudice della Corte Suprema Charles Evans Hughes.
Alla fine, nella Convention tenuta in quel di Chicago dal 7 al 10 giugno, fu Hughes il prescelto.
Oltre al prestigio derivante dalla carica, oltre al fatto di essere stato Governatore del New York, lo fece emergere l’essere uomo moderato e, in quanto fuori dai giochi partitici, non attaccabile per posizioni politiche prese.
Con lui a completare il ticket che tutti ipotizzavano vincente Charles Fairbanks.
Ora, il capocordata Hughes resta il solo Giudice della Corte Suprema (alla cui Presidenza dipoi arriverà nel 1930 avendo altresì ricoperto nel frattempo la Segreteria di Stato) che si sia mai candidato per la Casa Bianca per uno dei partiti maggiori mentre il suo Running Mate Fairbanks è l’ultimo ex Vice Presidente (lo era stato con Theodore Roosevelt dal 4 marzo 1905 al 4 marzo 1909) ad essersi riproposto per il medesimo incarico.
Un’accoppiata negli intenti imbattibile e, verrebbe da dire per questo, sconfitta!
Varese, 12 febbraio 2024
Victoria Woodhull, 1872, una Signora in competizione per White House? Meraviglia!
La prima candidatura alla Casa Bianca di una donna si perde nella notte dei tempi, risalendo addirittura al 1872.
Accadimento straordinario in specie ove si pensi che all’epoca – e fino al 1920 (anche se in alcune realtà statali così non era, tanto che nel 1916 ben dodici Stati del MidWest lo consentivano e dieci tra questi assegnarono – per questo? – i loro Elettori – con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni visto che loro compito è nominare il Presidente – a Woodrow Wilson praticamente confermandolo in carica) – negli Stati Uniti le donne non avevano il Diritto di Voto federalmente parlando.
La Signora che ebbe, appunto per prima e in quella situazione non certamente facile per il sesso debole, l’ardire di proporsi fu Victoria Woodhull, nata in Ohio nel 1838 (la quale cosa porta a dire che se anche fosse stata eletta non avrebbe potuto essere insediata perché non ancora trentacinquenne al momento della consultazione e quindi non potendo contare su uno dei tre requisiti – l’età minima – imposti ai candidati dalla Costituzione) .
Con lei nel ticket – altro primato assoluto – un afroamericano, il grande attivista nero Frederick Douglass.
Ebbero, i due, nella circostanza, il sostegno dell’Equal Rights Party, formazione politica ovviamente del tutto minoritaria.
Woodhull – che si ripresenterà altre due volte, nel 1884 e nel 1892 – non arrivò indenne alla General Election (5 novembre) perché fu arrestata qualche giorno prima per questioni peraltro non riguardanti la candidatura.
Ovviamente – per quanto le notizie in merito siano scarsissime – non ebbe nei seggi seguito elettorale particolare alcuno.
Varese, 11 febbraio 2024
J. Strom Thurmond
L’America litiga sulla memoria di Biden e c’è chi pensa di destituirlo
da RSI app
Il rapporto del procuratore speciale Robert Hur che non ha raccomandato alcuna incriminazione contro Joe Biden per la sua gestione di documenti classificati, ma ha definito “povera” la memoria del presidente USA è diventato – come era prevedibile – un caso politico in America.
All’indomani della pubblicazione, alcuni esponenti repubblicani hanno chiesto che si esplori la procedura, prevista dal 25mo emendamento della Costituzione, per sostituire il presidente in caso di morte, destituzione, dimissioni o incapacità. Un emendamento che venne introdotto dopo l’assassinio di John Kennedy e che era stato evocato anche dai democratici durante la presidenza Trump.
Ma dall’entourage presidenziale si replica che il capo dello Stato è perfettamente in grado di guidare il Paese e i commenti del procuratore sono gratuiti e inappropriati. Il portavoce dell’ufficio legale della Casa Bianca, Ian Sams, si è presentato ai giornalisti durante il consueto briefing quotidiano e ha definito “fuori dai limiti” in particolare il commento secondo cui Biden non ricorderebbe l’anno della morte del figlio (avvenuta nel 2015, dopo una lunga battaglia contro il cancro al cervello).
Biden, ha ricordato Sams, ha risposto per due giorni alle domande del procuratore, l’8 e il 9 ottobre. Nelle stesse ore si occupava di organizzare la risposta USA agli attacchi di Hamas contro Israele del 7 ottobre.
Il rapporto stilato dall’ ex procuratore del Maryland ha chiuso quindici mesi di inchiesta sulla gestione da parte del presidente di alcuni file durante la transizione dopo la fine della presidenza Trump, ma ha chiaramente aperto un caso politico destinato probabilmente a durare fino alle elezioni di novembre. Nella polemica è intervenuta anche la vicepresidente Kamala Harris, secondo cui le affermazioni di Hur sono “gratuite” e “politicamente motivate”.
Hur ha detto che il presidente ha sbagliato nel portarsi a casa un documento riservato condividendone alcuni contenuti con uno dei suoi speechwriter, ma che non vi erano indicazioni di un comportamento penalmente rilevante.
La Casa Bianca ha fatto intanto sapere che una nuova procedura garantirà che durante le transizioni tra presidenze non si ripetano casi del genere.
Varese, 9 febbraio 2024
Trump vince (praticamente senza rivali) il Caucus del Nevada e i quattro delegati delle Isole Vergini
da RSI
Donald Trump ha vinto i caucus del Nevada, aggiungendo altri 26 delegati nella sua marcia apparentemente inarrestabile verso la nomina presidenziale del Partito repubblicano statunitense.
L’ex presidente era l’unico grande candidato nello Stato sudoccidentale e – secondo risultati non definitivi – ha ampiamente superato l’uomo d’affari del Texas Ryan Binkley. A metà conteggio aveva oltre il 99% dei suffragi.
Il Nevada – in virtù di una controversia fra Stato e partito che ha generato un doppione – aveva tenuto martedì delle primarie repubblicane, che Nikki Haley non è riuscita a vincere.
Gli elettori hanno espresso la maggioranza dei voti contrassegnando “nessuno di questi candidati”, considerata una preferenza per Trump, che non partecipava.
L’ex presidente ha fatto suoi anche i 4 delegati assegnati dalle Isole Vergini, un territorio non incorporato negli Stati Uniti ma che dispone di un (piccolo) peso nella designazione dei candidati. Il traguardo dei 1’215 delegati per ottenere la nomination è ancora lontano per Trump, ma le indicazioni emerse fin qui sono chiare. Il prossimo appuntamento sarà il 24 in South Carolina, dove Haley è stata governatrice, e poi a cavallo fra febbraio e inizio marzo si andrà ancora in Michigan, Missouri e Idaho, prima del Super Tuesday del 5 marzo, con 874 delegati in palio.
Varese, 9 febbraio 2024
Warren Harding, “non fatelo parlare!”
Facile denigrare Warren Harding, padre di figli illegittimi, particolarmente dedito all’azzardo, certamente non molto acculturato, politicamente assai poco scrupoloso, impelagato anche da Presidente in speculazioni discutibili, criticato aspramente da non pochi tra gli esponenti della politica e della cultura americana, attorniato a White House da collaboratori personali da lui scelti che ne combinavano di tutti i colori intrallazzando, cedendo alla corruzione e chi più ne ha più ne metta…
Ebbene, quest’uomo, proprio quest’uomo, designato alla Convention repubblicana, a novembre del 1920, esattamente il 2, (bella e storicamente importante la fotografia nella quale la moglie Florence Mabel King Harding viene nella circostanza immortalata nel seggio elettorale, prima First Lady ad esprimere il da pochissimo tempo concesso Diritto di Voto alle donne) vinse alla grande la corsa per la Casa Bianca seppellendo il rivale democratico James Fox sia in termini di voti che di Delegati Nazionali.
Ebbene, quest’uomo, proprio quest’uomo (un autorevole Senatore del suo partito, chiese ai vertici di tenerlo a casa durante la campagna perché se avesse anche solo parlato avrebbe senza dubbio messo in pericolo l’elezione!) chiamò dipoi a far parte del suo Governo alcune tra le migliori personalità dell’epoca che con entusiasmo lavorarono al suo seguito.
Basti qui citare Herbert Hoover, Charles Evans Hughes e Andrew Mellon.
Ebbene, quest’uomo, proprio quest’uomo, fu pianto dalla nazione intera allorquando, in giro per gli Stati Uniti per una serie di conferenze che avrebbero dovuto convincere i critici della sua innocenza quanto agli scandali che avevano coinvolto uomini a lui vicinissimi, colpito e debilitato da una polmonite, a causa di un infarto o per apoplessia, passò a miglior vita.
Era il 2 agosto del 1923 e si trovava a San Francisco.
Incredibile il fatto che il successore, il suo vice Calvin Coolidge, fosse persona di ben differente moralità, di indiscutibile onestà, di saldi principi.
Varese, 8 febbraio 2024
Nelson Rockfeller, nel DNA la sconfitta
È nel 1968, nel corso di quello che resterà il suo terzo ed ultimo tentativo di ottenere dal partito repubblicano la Nomination che Nelson Rockefeller, esponente dell’ala interna liberal, più volte Governatore dello Stato di New York, può contare tra i propri collaboratori, per quanto attiene alla politica estera, su un relativamente giovane e brillante studioso di origini tedesche di nome Henry Kissinger.
La considerazione umana per l’impegno ideale che, come sempre del resto, mette nell’opera Nelson sarà oggetto di elogio e di ammirazione da parte del futuro Segretario di Stato che nello svolgimento del ricordato impegno più volte, schierato come era, ebbe a sostenere che il rivale e poi investito della designazione Richard Nixon “non era certamente persona adatta ad esercitare il potere esecutivo da White House” salvo poi essere chiamato dal redivivo (era stato battuto da John Kennedy otto anni prima il Californiano e poi nel 1962 perfino per il Governatorato di Sacramento) già Vice dì Eisenhower dapprima ad essergli Consigliere personale e in seguito a guidare con lui i predetti esteri.
Torneranno i due – in molte circostanze, pressoché incredibili gli accadimenti che si susseguono – a collaborare allorquando, subentrato al dimissionario Nixon Gerald Ford, restando al fianco dell’omahaiano un Kissinger fortunatamente non coinvolto nel Watergate, fu, a sorpresa, in effetti, il nuovaiorchese Rockefeller ad essere nominato Vice Presidente.
Era peraltro il fallimento nel DNA dell’erede dell’impero del petrolio fondato dal nonno John – fra l’altro tra i massimi filantropi di sempre – visto che l’incarico fu obbligatoriamente breve e non gli dette l’agio necessario ad illustrarsi essendo vicine le elezioni del 1976 e che – delusione ultima – nel corso della Convention repubblicana a questo fine operante non venne confermato nel ticket, laddove fu sostituito da Bob Dole.
Resta il Nostro (va sottolineato perché a fatica si ricorda perfino che la procedura determinata dall’apposito Emendamento datato 1967 era stata prima applicata solo con Ford da parte di Nixon per sostituire il dimissionario Spiro Agnew) il secondo ed ultimo Vicario arrivato a ricoprire l’incarico a seguito di nomina presidenziale dopo la ratifica dei due rami del Congresso.
Sarà Nelson Rockefeller da considerare tra i davvero pochi uomini politici arrivati a morte per le infinite amarezze derivanti dalle sconfitte subite?
Probabilmente, anche se da questo punto di vista, nessuno ha sofferto più di Lyndon Johnson, obbligato dall’andamento della Guerra del Vietnam a non riproporsi – ancora nel 1968 qui incombente – dovendo quindi interrompere il cammino riformatore unico ed eccezionale intrapreso sul fronte interno in tema di diritti civili, di salvaguardia delle minoranze e di aiuti ai più bisognosi.
Certamente al Texano, il cuore, lasciata la Presidenza, si spezzò.
Varese, 7 febbraio 2024
Primarie repubblicane in Nevada: vince “nessuno di questi candidati”!
da RSI app
L’opzione “nessuno di questi candidati” ha vinto le primarie repubblicane simboliche del Nevada, un risultato imbarazzante per Nikki Haley, che era l’unica candidata di rilievo sulla scheda elettorale.
L’ex ambasciatrice USA alle Nazioni Unite ha infatti scelto di partecipare alle elezioni primarie statali di martedì invece che ai caucus presidenziali del partito, l’unica competizione nello Stato che assegna i delegati per la nomination. Donald Trump, invece, è l’unico candidato di spicco a partecipare ai caucus di giovedì e, di conseguenza con ogni probabilità conquisterà i delegati repubblicani dello Stato.
Del resto, grazie a una strana legge elettorale del Nevada, martedì sono stati più gli elettori che hanno votato per “nessuno di questi candidati” che quelli che hanno votato per la Haley, la quale aveva detto in precedenza che si sarebbe “concentrata sugli Stati equi” e non ha fatto campagna nello Stato occidentale nelle settimane precedenti i caucus. La comunicazione della sua campagna elettorale ha liquidato i risultati delle primarie con un riferimento alla famosa industria dei casinò del Nevada.
“Anche Donald Trump sa che quando si gioca alle macchinette “penny slot” il banco vince”, ha dichiarato la portavoce Olivia Perez-Cubas. “Non ci siamo preoccupati di giocare a un gioco truccato per Trump. Andiamo avanti a tutta forza in South Carolina e non solo”. Inoltre, la campagna di Haley contesta la tassa di 55’000 dollari che il Partito repubblicano del Nevada ha preteso dai candidati per partecipare ai caucus.
“Non abbiamo speso un centesimo né un grammo di energia per il Nevada. Abbiamo deciso fin dall’inizio che non avremmo pagato 55’000 dollari a un’entità legata a Trump per partecipare a un processo che è truccato per favorire quest’ultimo”, ha dichiarato ai giornalisti la responsabile della campagna di Haley, Betsy Ankney. “Il Nevada non è e non è stato un nostro obiettivo”.
Martedì si sono svolte anche le primarie democratiche, vinte facilmente dal presidente Joe Biden contro la scrittrice Marianne Williamson e una manciata di sfidanti meno noti. Benché previsto, il deputato Dean Phillips del Minnesota non era sulla scheda elettorale. Biden ha ottenuto il 90% delle preferenze con il 64% dei voti scrutinati, mentre la Williamson è al 2,5%.
Varese, 7 febbraio 2024
Earl e Huey Long, pazzi (o almeno strambi) alla Casa Bianca?
Tempo fa, negli Stati Uniti, ebbe un qualche successo un libro di Anthony Summers (già autore di una buonissima e documentata biografia di J. Edgar Hoover, per lunghissimi anni direttore del FBI) dedicato a Richard Nixon.
Il presidente del Watergate – ma, non dimentichiamolo, anche dell’apertura alla Cina e di altri grandi successi in politica internazionale – veniva presentato da Summers come un folle, capace di mettere in pericolo la sicurezza nazionale e di picchiare più volte la moglie perché schiavo di potenti psicofarmaci che assumeva per combattere ansietà, insonnia ed altri sintomi nevrotici.
A fronte di tali ‘rivelazioni’ (in molti casi non provate e per altri versi già note), viene da chiedersi se in un sistema quale quello che regola la vita politica americana sia davvero possibile che un pazzo o, comunque, uno squilibrato arrivi alla Casa Bianca.
Guardando alla storia più recente delle elezioni presidenziali USA, è nel 1972 che teoricamente si corse, in questo senso, il pericolo più concreto.
Allora, infatti, George McGovern, candidato per i democratici alla White House, scelse come suo partner il senatore Thomas E. Eagleton che risultò essere stato per lungo tempo in cura da uno psichiatra per gravi turbe mentali.
Se il caso – un vero e proprio ‘scheletro nell’armadio’ – non fosse venuto alla luce e se McGovern avesse prevalso, Eagleton si sarebbe venuto a trovare molto vicino (‘ad un battito di cuore’, come si usa dire) al potere diventando il vice presidente.
Naturalmente, il senatore, sia pure con qualche incredibile titubanza, fu sostituito e nel ticket democratico prese il suo posto Sargent Shriver.
Se, al di là della corsa alla presidenza, si fa riferimento, invece, all’intera politica USA, in molti casi, veri e propri folli hanno raggiunto cariche di grande responsabilità.
Particolarmente significative, a questo proposito, le storie di due fratelli della Louisiana, Huey – ‘The Kingfish’, come era soprannominato – e Earl Long, la cui avventura terrena fu immortalata da Hollywood (il primo è protagonista dell’ottima pellicola di Robert Rossen ‘Tutti gli uomini del re’, premiata con tre Oscar, tratta dall’omonimo romanzo, che vinse il Pulitzer, di Robert Penn Warren; il secondo, del meno riuscito ‘Scandalo Blaze’, con Paul Newman).
Giunto al governatorato del suo Stato nel 1928, Huey, autodidatta, fluviale ed abilissimo oratore, intrallazzatore e allo stesso tempo capace di realizzare per i suoi concittadini opere pubbliche di grande rilievo, divenuto in seguito senatore degli Stati Uniti, dopo avere appoggiato F. D. Roosevelt nella campagna contro Herbert Hoover, nel 1935 e in vista delle presidenziali fissate all’anno successivo, pensò seriamente ad una propria candidatura e pubblicò un libello intitolato ‘I miei primi cento giorni alla Casa Bianca’.
In quelle pagine, ipotizzava, per far fronte alla Depressione, un azzeramento di tutte le proprietà private e la ridistribuzione in parti uguali a tutti i cittadini dei capitali.
La sua corsa verso White House (Roosevelt ebbe a temerne l’impeto) fu fermata dai colpi di pistola di un medico di campagna che, uccidendolo, intendeva vendicare vecchi torti subiti dalla sua famiglia.
Earl Long – a propria volta, anni dopo governatore della Louisiana – pazzo come un cavallo, fu rinchiuso per ordine del locale parlamento in un ospedale psichiatrico dello Stato.
Forte della sua carica, ritornò libero destituendo i medici di quel manicomio che, formalmente, risultavano alla sue dipendenze.
Più volte confermato ed altrettante volte contestato, alla fine, si candidò alla Camera del Rappresentanti nazionale.
Eletto trionfalmente contro tutte le aspettative, morì subito dopo.
In conclusione, nulla nel meccanismo elettorale americano si oppone a che un demagogo o un folle arrivino ai vertici del potere.
Varese, 6 febbraio 2024
Thomas Dewey, ovvero perdere dopo avere creduto di vincere
Originario del Michigan, figlio di un portalettere, baritono di belle speranze, laureato in legge, arrivato nella Grande Mela, Thomas E. Dewey, entrato in politica con il Grand Old Party, si mise in luce quale grande persecutore del crimine organizzato e della malavita e a soli quarant’anni fu trionfalmente eletto Governatore dello Stato di New York.
Nel 1944, un partito repubblicano in cerca di un avversario credibile per Franklin Delano Roosevelt, che chiedeva agli Americani un quarto mandato, gli conferì la Nomination.
Dewey perse (come ci si aspettava), ma riuscì a ridurre notevolmente la maggioranza del Presidente del New Deal sia in termine di voti popolari che di Elettori (con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni essendo loro specifico compito eleggere in Presidente), la qual cosa gli procurò una seconda candidatura quattro anni dopo.
I sondaggi lo indicavano come il netto favorito, ma Harry Truman – per nulla intenzionato a lasciare White House – non si arrese e gli contese ogni singolo voto fino all’ultimo.
La notte dello scrutinio fu una delle più drammatiche della storia politica americana.
Tutti (democratici compresi) si aspettavano una vera e propria valanga di suffragi a favore di Dewey e i primi risultati sembrarono largamente confermare le previsioni tanto che non pochi quotidiani (celebre la fotografia del giorno dopo nella quale, allegrissimo, Truman mostra il Chicago Daily Tribune che ‘toppa’ la notizia), ignari degli esiti del voto negli Stati dell’Ovest e dovendo comunque ‘chiudere’, nelle prime edizioni mattutine successive uscirono con il titolo a nove colonne ‘Dewey batte Truman’.
Così non fu e il povero Thomas, vincitore delle Presidenziali fino a mezzanotte, già un paio di ore dopo, scoperto che il West non era con lui, seppe che alla Casa Bianca sarebbe rimasto il suo rivale.
Non domo, contando comunque tra i GOP (tra i molti nemici) ancora un seguito, nel 1952 dette un notevole contributo alla investitura del Generale Dwight Eisenhower, poi vincente su democratico Adlai Stevenson.
Pare ritenesse che il neo Presidente sarebbe rimasto in carica per un solo mandato la quale cosa gli avrebbe dato un’ultima chance nel 1956.
Così non andò.
Resterà da allora e fino in fondo un importante risorsa non solo per i repubblicani, visto che anche Lyndon Johnson lo tenne in considerazione.
Da ultimo, in due differenti occasioni, rifiutò la nomina a Presidente della Corte Suprema.
Varese, 5 febbraio 2024
Rutherford Hayes, il Compromesso del 1877 e la ‘Reconstruction Era’
Finita la Guerra di Secessione, per non pochi anni e per periodi diversi, gli Stati Confederati e loro politicamente vicini vissero un momento storico particolare, sotto tutela, occupati militarmente, controllati e guidati anche e soprattutto nelle loro articolazioni politiche.
Il periodo è conosciuto come ‘Era della Ricostruzione’ (‘Reconstruction Era’) ovviamente intesa come Ricostruzione del Sud o degli Stati Ribelli.
Iniziato nel 1863 a conflitto civile ancora in pieno corso, ebbe variamente localmente termine e definitivamente il 31 marzo 1877, allorquando il neo eletto e da poco insediato Presidente repubblicano Rutherford Hayes (Whig, prima di aderire al neonato futuro Grand Old Party già nel 1854 e buon Governatore del suo Ohio) diede seguito alle concordate condizioni concesse al riguardo ai democratici in specie sudisti nel cosiddetto ‘Compromesso del 1877’ che gli attribuiva, superando le contestazioni conseguenti al decisamente controverso (da vincitore designato si chiedeva se fosse giusto che dipoi governasse) risultato elettorale del novembre 1876, lo scranno presidenziale.
Coinvolti Tennessee, Arkansas, North Carolina, Alabama, Florida, Louisiana, South Carolina, Virginia, Mississippi, Texas e Georgia.
Giunto a termine il periodo predetto, in breve, gli Stati indicati, tornati ai governi locali i democratici (‘Redeemers’), quanto ai diritti civili delle minoranze, virarono dallo schiavismo (impossibile da riproporre) ad un segregazionismo sempre più articolato che durò – non dovunque, beninteso – addirittura fino agli anni Settanta del trascorso Novecento ove si tenga conto della candidatura dal relativamente ottimo esito di George Wallace nel 1988.
Fu Hayes – come consente il sistema elettorale USA e come dopo accaduto nel 1888, con Benjamin Harrison, nel 2000 con George Walker Bush e nel 2016 con Donald Trump, incredibilmente sempre a danno dei democratici – il primo Capo dello Stato risultato infine vincente (il citato Compromesso del 1877 lo portò a superare l’Asinello di un solo suffragio nel Collegio grazie anche agli Elettori, con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni, della Florida la qual cosa fu richiamata da me nel 2000 quando, incertissimo il risultato e sotto esame i ricorsi di Al Gore avversi alla vittoria del secondo Bush, contrastando quanto da tutti veniva affermato – essere quella la prima volta di una esacerbata diatriba relativa alla attribuzione dei Delegati Nazionali dello Stato con capitale Tallahassee, avevo eccepito), per quanto sconfitto sul piano del voto popolare dato che il contendente democratico Samuel Tilden aveva preso circa duecentocinquantamila voti in più.
Convinto sostenitore del mandato unico, Hayes non si ripropose nel 1880.
Varese, 4 febbraio 2024
La stra annunciata, plebiscitaria (attenzione però: fortissimo il calo dei votanti) vittoria di Joe Biden nelle Primarie democratiche del South Carolina e’ la prima di una lunga serie dato che nel campo dell’Asino nessuno seriamente si oppone.
Se davvero dopo il loro (repubblicano) South Carolina in calendario il 24 una Nikki Haley sconfitta in casa (ha esercitato due mandati da Governatore laggiù) si ritirasse, ci troveremmo a giochi fatti molto molto prima del solito.
Noia all’orizzonte.
Varese, 3 febbraio 2024
Il Cinema e la Televisione Americana di ambiente giudiziario portano a chiedersi “Conta la verità dei fatti o il discredito dei testimoni nei Tribunali americani è la regola?”
Ottimo caratterista cinematografico hollywoodiano, Burgess Meredith va ricordato in particolare per tre differenti ruoli.
In ‘Rocky’ è il manager di Sylvester Stallone.
In ‘L’assoluzione’ è il vecchio, scorbutico Monsignore che si scontra con il Cardinale e finisce in pratica al confino.
In ‘Tempesta su Washington’ è il testimone che dovrebbe incastrare il candidato Segretario di Stato interpretato da Henry Fonda e ne viene travolto nel controinterrogatorio.
E’ tale ultima (non certo in ordine di tempo, risalendo la pellicola al 1962) apparizione che, ai fini di questo intervento, prendo in considerazione.
Sommersi come siamo, ai nostri giorni ed oramai da anni ed anni, da telefilm americani di ambiente giudiziario nei quali è uso comune da parte sia dell’accusa che delle difese di attaccare imputato o testimoni su piani tutt’affatto diversi rispetto al tema in questione – tanto che, spesso se non sempre non conta la sostanza dovendoci, noi spettatori e le giurie, confrontare con l’apparenza o con fatti e circostanze che nulla hanno a che fare con la verità, almeno quella processuale – abbiamo adottato un consimile meccanismo usandolo, anche se non soprattutto e di nuovo come negli USA, in politica laddove pure non si guarda alle idee ma, se questo serve per opporvisi, alla moralità o meno della persona che le espone.
Nel predetto ‘Tempesta su Washington’ (e l’ho accennato), il candidato alla Segreteria di Stato Henry Fonda, designato ovviamente dal Presidente, affronta l’esame della Commissione senatoriale che deve indicare all’alto consesso se approvare o meno la sua nomina.
Siamo in epoca appena post Maccartista e contano, moltissimo, eventuali precedenti compromissioni di chiunque aspiri a pubblici incarichi (in specie, al Ministero degli Esteri) con il Marxismo.
Nel corso del dibattito, ecco apparire un ex allievo dell’aspirante Ministro che, dichiarandosi a propria volta un oramai antico e pentito comunista, lo addita pubblicamente come tale.
Nel susseguente controinterrogatorio, Fonda, trascurando assolutamente il tema di fondo, attacca Meredith su singoli particolari della prestata deposizione dimostrando che ha mentito, che so?, abbellendo il proprio passato e dimenticandone i più oscuri momenti, come, tra l’altro, la circostanza di essere stato a lungo in cura per problemi mentali.
Alla fine, sarà lo stesso teste a dire che non vale più la pena di ritornare ai fatti, “Tanto, oramai, chi mi crederebbe?”.
E’ contro questo perverso meccanismo che ci si deve muovere (e non lo si fa).
Non è infatti la sostanza a dover sempre prevalere?
Non è forse la verità che dobbiamo cercare?
Anche se e quando il portatore di essa sia persona di per sé discutibile?
Nella pellicola, non fosse per la morte improvvisa del Presidente e per la decisione del successore di soprassedere, un mentitore l’avrebbe avuta vinta nel mentre, comunque, un pover’uomo onesto e umile esce dall’agone moralmente rovinato
Iniquità contro la quale ci si deve battere in tutti i campi (e non lo si fa, ripetiamo), giustizia e politica in primis!
Varese, 2 febbraio 2024
Cul de sac
Gli Americani sono davvero in un cul de sac elettoralmente parlando.
Un serio sondaggio condotto il 31 gennaio da Quinnipiac University quanto all’operato di Joe Biden conclude negativamente in generale (41 per cento i favorevoli contro il 55 contrari) e come segue a proposito sui seguenti singoli temi:
– Invasione russa dell’Ucraina, il 47 per cento approva e il 46 disapprova
– Economia, il 42 consente e il 55 giudica negativamente
– Politica estera, il 37 è favorevole e il 57 contrario
– Questione Israele/Hamas, il 34 è d’accordo e il 55 no
– Quanto al confine con il Messico, il 28 per cento approva mentre il 63 disapprova
Ciononostante il Presidente in carica risulta in vantaggio nei confronti di Donald Trump per 50 a 44.
Evidentemente, un candidato giudicato alla prova dei fatti negativamente prevale comunque.
Lo stesso sondaggio afferma che Nikki Haley prevarrebbe invece sul Capo dello Stato ora in carica per 47 a 42 ma il sistema elettorale che porta alla Nomination le è avverso impedendole il confronto.
Varese, 2 febbraio 2024
Nevada
Il prossimo 6 febbraio, nello Stato con capitale Carson City, sono in calendario le Primarie repubblicane alle quali è iscritta è in competizione Nikki Haley.
Due giorni dopo, l’8, sempre in Nevada, si terranno i Caucus GOP, in corsa Donald Trump.
Fatto sta che una legge impone l’’effettuazione delle Primarie ma il partito, restando ancorato alle tradizioni, ha deciso comunque per i Caucus.
Teoricamente, i ventisei delegati ai quali lo Stato ha diritto saranno tutti conquistati dal tycoon mentre con buona probabilità l’ex Governatrice farà ricorso.
Un notevole guazzabuglio.
Varese, 1 febbraio 2024
La schiavitù negli Stati Uniti fino alla fondazione del partito repubblicano (1854) e le determinazioni in materia di schiavitù durante e dopo la Guerra di Secessione
Tra il 1777 e il 1804, gli Stati a nord del Maryland degli appena nati ‘States’ decretarono l’abolizione della schiavitù.
Ben pochi, relativamente, in quelle bande, gli schiavi.
Infinitamente più numerosi, naturalmente, nel Sud, laddove la mano d’opera servile era ritenuta (ed era, considerando l’organizzazione del lavoro) indispensabile nelle piantagioni.
Non trascurabili di certo anche se non decisive le iniziative e le intraprese dettate dall’idea abolizionista.
Si pensi alla American Colonization Society, fondata nel 1817, che si proponeva di riportare gli africani nel loro continente, nell’attuale Liberia.
All’attività di William Lloyd Garrison, direttore del ‘Liberator’.
All’American Anti-Slavery Society, costituita nel 1833.
Grande, in una temperie di quella fatta e nel mentre uomini di valore (primo fra tutti, l’ex presidente e dipoi rappresentante John Quincy Adams che vergò già nel 1839 una proposta di legge abolizionista) si battevano per la giusta causa, l’impatto emotivo suscitato dalla pubblicazione nel 1852 de ‘La capanna dello zio Tom’, di Harriett Beecher Stowe.
Qualcuno, inoltre, pensò all’organizzazione di una rete clandestina che provvedesse all’espatrio degli schiavi.
Altri arrivarono perfino ad effettuare attacchi armati.
Più importante, da ultimo e però, il fatto che nel 1854 fosse fondato il partito repubblicano il cui primo fine politico era quello abolizionista.
Di seguito, l’indicazione dei due/tre provvedimenti che determinarono la fine dello schiavismo e, in qualche modo senza che nessuno potesse prevederlo, la conseguente nascita del segregazionismo.
1863, Decreto di emancipazione degli schiavi ad opera del presidente Abraham Lincoln (emanato il 22 settembre 1862, entrò in vigore l’1 gennaio 1863)
1865, adozione del XIII Emendamento alla Costituzione la cui entrata in vigore è stata dichiarata il 18 dicembre appunto 1865.
1868, 9 luglio, approvazione del XIV Emendamento che pur riguardando in particolare il diritto di cittadinanza e i diritti civili è per moltissimi versi importantissimo nei confronti del processo che andiamo illustrando.
Varese, 30 gennaio 2024
Daniel Webster e i ‘Padri pellegrini’.
Daniel Webster, molte volte ai vertici della vita politica americana dagli anni Venti dell’Ottocento alla dipartita (1852) e sempre respinto nei tentativi di arrivare alla Casa Bianca, va ricordato per le eccezionali qualità oratorie e per una immortale definizione.
A quarant’anni, era considerato il miglior avvocato in circolazione nel Paese la qual cosa ne fece di conseguenza il più pagato.
Eletto sia nell’una che nell’altra Camera, fu protagonista di accesi dibattiti.
Memorabili in primo luogo i suoi interventi al Senato contro le tesi abrogazioniste sostenute in particolare da Robert Hayne, tesi che ritenevano possibile da parte di uno o più Stati il giudicare incostituzionale, appunto abrogandola, una qualsiasi legge federale non gradita.
La sua seconda perorazione sul tema è considerata “il più famoso discorso mai pronunciato al congresso”.
Webster, nel merito, sosteneva che la Costituzione non era un patto tra gli Stati ma con la popolazione, che l’interpretazione della Carta spettava alla Corte Suprema, che l’Unione era nata per essere sempiterna, che l’abrogazione sarebbe stata considerata un tradimento.
Resta altresì memorabile il discorso che tenne nel 1820 in occasione della commemorazione del secondo centenario dello sbarco dei coloni del ‘Mayflower’ che battezzò ‘Padri Pellegrini’, espressione da allora sempre e in ogni caso usata.
Le sue aspirazioni presidenziali furono vanificate soprattutto nella campagna elettorale del 1836.
Nella fattispecie, il partito whig ritenne opportuno presentare la bellezza di tre diversi candidati, uno dei quali il Nostro.
La speranza invano coltivata era quella che nessuno dei pretendenti in lizza ottenesse la maggioranza assoluta dei delegati (come era accaduto nel 1824) e che la scelta dell’inquilino di White House spettasse per conseguenza alla Camera dei Rappresentanti.
Purtroppo per i Whig, sia pure per il rotto della cuffia, il Vice Presidente uscente Martin Van Buren, democratico, prevalse anche in voti elettorali e si insediò.
Presidenza a parte, Webster fu Segretario di Stato in due differenti periodi.
Dapprima, scelto da William Harrison e confermato dal successore John Tyler, tra il 1841 e il 1843.
Quindi, chiamato da Millard Fillmore, dal 1850 alla morte, nell’ottobre del 1852.
Varese, 29 gennaio 2024
Gli Scacchi negli Stati Uniti
di Leonardo Tomassoni
Benjamin Franklin, fra le tante cose che fece nella vita, trovò anche il tempo di dedicarsi in modo appassionato agli scacchi.
Nella sua autobiografia racconta che già dal 1733, ben prima quindi della conquista dell’Indipendenza da parte delle colonie inglesi, aveva cominciato a giocare a scacchi con un suo conoscente col quale si dedicava anche allo studio della lingua italiana.
Temendo però di sottrarre troppo tempo a questo impegno aveva accettato di continuare a fare nuove partite solo a condizione che il vincitore potesse imporre al perdente degli esercizi nello studio dell’italiano da effettuarsi prima della partita successiva.
Fu una brillante idea che gli permise di continuare ad applicarsi nello studio e nel contempo di non abbandonare quello che considerava un piacevole hobby intellettuale.
Pubblicò anche un saggio nel 1786, ‘Morals of chess’, in cui paragonava gli scacchi alla vita, mostrando come potessero aiutare a rinforzare alcune doti fondamentali quali la prudenza prima di prendere una decisione, la circospezione nell’esaminare tutto il quadro della realtà con cui ci si deve confrontare e l’attenzione nel fare le cose senza mai avere fretta.
Un’altra storia, mai ben chiarita nei suoi contorni un po’ leggendari, riguarda un episodio della Guerra d’Indipendenza Americana.
Il mattino del 26 Dicembre 1776, dopo un’avventurosa traversata del fiume Delaware, in quel momento ghiacciato, avvenuta nella notte del 25 dicembre, George Washington, nei pressi della città di Trenton, sconfisse pesantemente alcune forze tedesche dell’Assia, che combattevano per la Gran Bretagna.
Pare che nella serata che precedette lo scontro il Comandante del reggimento di fanteria che avrebbe dovuto fronteggiare le truppe dei ribelli americani, il Colonnello Johann Rall, fosse stato informato da una spia, attraverso un biglietto, di quanto si stava preparando.
Ma il colonnello Rall era in quel momento talmente immerso in una partita a scacchi che, cacciatosi il biglietto in un taschino, non si diede la pena di leggerlo. Quando venne rinvenuto morto al termine della battaglia il biglietto era ancora in una tasca della giubba.
Da quel momento le vittorie di Washington dilagarono.
Una partita a scacchi determinò forse l’esito di quella battaglia, della guerra e dell’intera storia americana.
In epoca più recente, nel 1857, a New York, si tenne il 1° Congresso Americano di Scacchi.
In quell’occasione venne anche organizzato un torneo tra i migliori giocatori statunitensi presenti al Congresso.
Vincitore assoluto fu Paul Morphy.
Forte di questa schiacciante vittoria Morphy venne in Europa per sfidare Howard Staunton che veniva considerato in quel periodo il più forte giocatore del mondo. Staunton, forse intimorito dai successi del più giovane rivale, si rifiutò di incontrarlo, dicendo che non aveva tempo per gli scacchi dato che stava scrivendo un libro su Shakespeare, che non ebbe comunque una gran fortuna.
Morphy rimase in Europa quasi un anno.
Incontrò i più quotati giocatori europei dell’epoca.
Vinse con tutti.
In particolare va ricordato il suo macth con Adolf Anderssen che era stato in grado di vincere anche con Staunton e che ancora oggi è ricordato per una sua famosa partita con Lionel Kieseritzky, talmente bella da passare alla storia degli scacchi come ‘L’immortale’.
Anderssen sacrificò infatti la Donna, le due Torri e un Alfiere, dando poi scacco matto con i tre pezzi minori che gli erano rimasti, due Cavalli e un Alfiere. Quando Morphy tornò in America nel 1859 era ormai universalmente riconosciuto come il Campione del Mondo.
Ma nel maggio di quell’anno, durante una festa in suo onore presso la Columbia University, il Colonnello Mead, che aveva organizzato l’evento, lo presentò come un “giocatore professionista”, cosa per lui intollerabile dato che aveva sempre sostenuto che gli scacchi erano solo un’attività ludica.
Gli scacchisti, soprattutto di elevate capacità, venivano considerati allora, in un’America puritana e perbenista, alla stregua di giocatori d’azzardo.
Tanto che Morphy venne rifiutato come possibile marito da una giovane della sua città proprio perché era uno scacchista.
Decise allora, non ostante la giovane età, di non giocare più.
Tutta la sua carriera internazionale si riduce quindi a un paio d’anni di tornei e di sfide individuali.
Era laureato in giurisprudenza e cercò quindi di fare l’avvocato nella sua città natale, New Orleans.
Ma i risultati furono poco brillanti.
Data l’agiatezza della sua famiglia poté vivere senza lavorare fino alla morte.
Ma le sue condizioni psichiche si deteriorano sempre più mostrando tratti di vera e propria paranoia che lo isolarono dal resto del mondo.
A soli quarantasette anni morì per congestione cerebrale.
Nessun altro giocatore americano, in quel periodo, riuscì ad esprimere un gioco altrettanto brillante.
Le vicende esistenziali di questo grande campione furono oggetto di studio da parte di Ernest Jones (1879 – 1958), psicanalista britannico e biografo di Freud, che scrisse un saggio, pubblicato a Londra nel 1951 e tradotto in Italia nel 1971, ‘The problem of Paul Morphy: A Contribution to the Psicology of Chess’, ripreso e approfondito in epoca più recente da Reuben Fine (1914 – 1993).
Tra i tanti campioni di scacchi americani un posto di rilievo, non solo per meriti scacchistici, dev’essere riservato proprio a Reuben Fine.
Tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta del secolo scorso fu tra i Grandi Maestri più quotati a livello mondiale, ottenendo ripetuti successi nei più importanti tornei dell’epoca.
Ma, a differenza di altri Grandi Maestri, non si dedicò solo agli scacchi.
Dopo essersi laureato in Psicologia presso l’University of Southern California lasciò la vita di giocatore professionista e iniziò una nuova carriera come psicologo e psicanalista di scuola freudiana.
Uno dei suoi libri più importanti, pubblicato in Italia nel 1976 dalla casa Editrice Adelphi, è sicuramente ‘La psicologia del giocatore di scacchi’.
Chiunque giochi a scacchi, dal principiante al Grande Maestro, e frequenti circoli scacchistici e sale di torneo dovrebbe leggerlo e riflettere con attenzione.
L’analisi che Fine presenta della psicologia del giocatore di scacchi è sicuramente impietosa ma sempre molto puntuale nel considerare ciò che sta al fondo delle motivazioni che inconsciamente lo guidano.
Se il quadro che ne emerge non è generalmente esaltante per la platea mondiale degli scacchisti, la situazione si presenta ancor più problematica quando l’autore mette sotto la lente d’ingrandimento alcuni grandi campioni della storia degli scacchi.
Nel caso di Paul Morphy ciò che Fine vuole mettere in luce, riprendendo giustappunto il saggio di Ernest Jones, non sono tanto le caratteristiche del suo gioco, certamente spumeggiante e ricco di soluzioni di grande effetto, quanto piuttosto i sintomi psicotici che influirono in modo determinante sulla sua vita e che, a suo dire, erano probabilmente già riscontrabili nei comportamenti relazionali fin dalla giovinezza.
Fine, analizzando la vita di Morphy, ne coglie alcuni aspetti molto simili a quelli che poi descriverà in un altro saggio dedicato a Bobby Fischer, ‘Bobby Fischer’s Conquest of the World’sChess Championship’, pubblicato nel 1973 a New York. Anche in Fischer, come in Morphy, le difficoltà relazionali furono sempre presenti e resero molto difficili i suoi rapporti con chi gli stava intorno.
Solo dal 1936, la United States Chess Federation cominciò ad organizzare il torneo che ancora oggi, annualmente, assegna il titolo di Campione degli Stati Uniti.
Tra i Grandi Maestri americani del secolo scorso, che primeggiarono in questo torneo, sono sicuramente da ricordare alcune figure di rilievo.
Una è quella di Samuel Reshevsky che vinse il titolo per otto volte nell’arco di trent’anni, tra il 1936 e il 1967, mostrando di poter cavalcare il successo per un lungo periodo della sua vita, dai venticinque ai cinquantotto anni.
Mantenere un livello di rendimento molto elevato per un periodo così ampio è sicuramente assai difficile.
La pratica scacchistica necessita di grande memoria, di una capacità di analisi profonda e continuativa per varie ore e di una resistenza fisica e psicologica allo stress determinato dallo scontro di due intelligenze che si fronteggiano, senza esclusione di colpi, per tutto il tempo di un torneo.
Tutte queste sono caratteristiche molto legate all’età.
Ovviamente stiamo parlando di un livello di gioco elevatissimo, quello di un Grande Maestro che si scontra con un altro Grande Maestro.
Reshevsky non ebbe grandi difficoltà a mantenere il primato fino al 1957.
L’anno successivo si affacciò però sul palcoscenico scacchistico americano un giovane talento, diciamo pure un genio, Bobby Fischer.
Era nato nel 1943.
Quindi nel 1958 aveva quindici anni, una memoria prodigiosa, una capacità di analisi velocissima e approfondita e una resistenza allo stress assolutamente fuori dal comune.
Un ego smisurato lo sosteneva nella sua scalata al successo e da quel momento Reshevsky dovette cedere il passo.
Ma a dimostrazione che il vecchio campione non aveva alcuna intenzione di demordere, quando Fischer, nel 1969, decise di pensare solo al titolo mondiale e non si presentò più ai Campionati statunitensi, Reshevsky ebbe ancora la forza di vincere per un’ultima volta il titolo.
La sua carriera era comunque praticamente finita e il predominio di Fischer era ormai tangibile e incontrastato.
La storia degli scacchi ci racconta di un genio che raggiunse il titolo di Campione del Mondo nel 1972, dopo aver prima sbaragliato la folla dei candidati alla sfida mondiale con risultati a volte per loro umilianti.
In un match con il sovietico Mark Tajmanov, un eccellente Grande Maestro oltre che un pregevole pianista, Fischer vinse con un punteggio di 6 a 0 e Tajmanov scrisse addirittura un libro intitolato ‘Come divenni una vittima di Fischer’.
Quando l’11 luglio 1972, a Reykjavik in Islanda, iniziò la sfida per il titolo di Campione del Mondo tra il detentore Boris Spasskij (U.R.S.S.) e lo sfidante Bobby Fischer (U.S.A.), tutti gli scacchisti aspettavano con ansia di assistere a ventiquattro partite, quante erano quelle previste per il match, che sicuramente avrebbero portato innovazioni di grande rilievo nella teoria delle aperture e nel medio gioco.
Ma non solo gli amanti degli scacchi mostravano in quel momento grande interesse per quello scontro di titani.
La politicizzazione che da mesi stava ammantando quell’avvenimento aveva creato un’aspettativa che andava ben oltre la passione scacchistica.
Non si trattava solo di vedere chi dei due avrebbe vinto il Campionato.
Si stavano fronteggiando due sistemi politici opposti, ideologicamente contrastanti, che nel corso di due decenni si erano trovati sovente sull’orlo di una micidiale guerra nucleare e che ora avevano trovato un nuovo fronte, quello scacchistico, nell’ambito di una guerra fredda che divideva il mondo.
L’atmosfera era carica di tensione.
Fischer, genio ribelle, mise del suo per renderla ancora più drammatica con richieste ai limiti della paranoia.
A un certo punto, quando sembrava che Fischer non si volesse più presentare per il match, fu necessario l’intervento diretto di Henry Kissinger per convincerlo a partire per l’Islanda.
Molte traversie quindi, ma alla fine, proprio perché era un genio, vinse la sfida e divenne Campione del Mondo, mettendo all’angolo, praticamente da solo, l’intera scuola scacchistica sovietica.
Dopo questo strabiliante successo però Fischer, per motivi che ancora oggi vedono non pochi psicanalisti dibattere sull’intera vicenda, abbandonò le scene scacchistiche come aveva fatto Paul Morphy.
Ebbe comunque il grande merito di spingere alla pratica scacchistica milioni di giovani.
Avrebbe potuto restare sulla cresta dell’onda per molto tempo.
Invece, da quel momento, non disputò più alcuna partita di torneo e rinunciò a difendere il titolo conquistato che, nel 1975, venne assegnato al sovietico Anatolij Karpov per abbandono.
Questo fatto non fu certo visto di buon occhio da parte del Governo statunitense che avrebbe sfruttato volentieri l’onda lunga di quel successo.
Per una ventina d’anni Bobby sparì dalle scene mondiali.
Fin quando, nel 1992, in piena crisi balcanica, quando l’ONU. aveva proclamato una serie di sanzioni verso la Jugoslavia, sfidò, a titolo personale, il suo vecchio avversario Boris Spasskij in un match da tenersi proprio in Jugoslavia sull’isola di Sveti Stefan in una località vicina alla città di Budva in Montenegro.
Vinse quella sfida come aveva già vinto quella del 1972, ma quest’ennesimo colpo di testa gli costò un mandato d’arresto internazionale da parte statunitense.
Nel 2004, mentre si trovava in Giappone, venne fermato in attesa di essere estradato negli USA.
In quell’occasione Spasskij scrisse una lettera aperta al Presidente degli Stati Uniti, che in quel periodo era George W. Bush, in cui chiedeva la grazia per Fischer perché “Bobby è fatto così!”.
O, qualora ciò non fosse stato possibile, di condannare anche lui, che aveva disputato quell’incontro in Jugoslavia, alla galera e di metterlo nella stessa cella di Fischer possibilmente con una scacchiera.
Poi tutto si risolse tranquillamente.
L’Islanda, che aveva ospitato il Campionato del Mondo del 1972, concesse la cittadinanza a Fischer che si trasferì a vivere a Reykiavik dove morì nel 2008.
Una vita controversa la sua, caratterizzata da posizioni spesso molto discutibili sul piano etico e da un unico grande interesse, gli scacchi.
Una volta Mikhail Tal, altro grande scacchista sovietico, che aveva vinto il Campionato del Mondo nel 1960, gli chiese come mai un uomo del suo livello di intelligenza avesse dedicato l’intera vita solo agli scacchi.
Fischer gli rispose in modo tra lo sprezzante e l’ironico dicendo che non aveva inutili pretese intellettuali e che non era vero che gli interessassero solo gli scacchi, ma anche i vestiti e le scarpe di cui aveva una vera collezione.
Fischer amava scandalizzare i suoi interlocutori.
Anche in questo caso, come ai tempi di Morphy, non vi fu un successore, negli Stati Uniti, alla sua altezza in grado di prenderne il testimone con la stessa autorevolezza e lo stesso piglio vincente.
Il punto di riferimento mondiale si spostò nuovamente in Europa.
Vi furono comunque, in quel periodo, alcuni altri Grandi Maestri americani degni di menzione, come Larry Evans e Yasser Seirawan.
In questo primo scorcio del Ventunesimo secolo spiccano due figure nel panorama americano, Hikaru Nakamura e Fabiano Caruana.
Nakamura ha oggi trentaquattro anni ed è ancora nel pieno della sua attività scacchistica.
Nato in Giappone si è trasferito con la famiglia negli Stati Uniti quando aveva due anni.
A quindici, due mesi e diciannove giorni ha conquistato il titolo di Grande Maestro, tre mesi prima dell’età che aveva Bobby Fischer quando aveva raggiunto quel traguardo, e per un certo periodo è stato il numero due nella classifica mondiale.
Ha giocato anche per una squadra italiana di Padova con cui ha vinto alcuni Campionati Italiani a squadre.
Ma chi è in questo momento il più forte giocatore di scacchi americano?
Un italiano: Fabiano Caruana!
Per la verità questo giovane talento degli scacchi, nato nel 1992 a Miami in Florida, da padre italo-americano e da madre italiana, ha una doppia nazionalità, italiana e statunitense.
A soli quattordici anni undici mesi e venti giorni ha conquistato il titolo di Grande Maestro di scacchi.
Dal 2008 al 2015 ha giocato per i colori della Nazionale di Scacchi Italiana.
Ma dal 25 Giugno 2015, probabilmente per gli alti ingaggi che gli saranno stati offerti, ha deciso di tornare a giocare per gli USA.
Attualmente vive a Turpon Springs in Florida.
Questo sistema di calcolo prende il nome dall’ingegnere statunitense di origine ungherese Arpad Emrick Elo, che lo ha ideato,
Nel Novembre 2018 Caruana, dopo aver vinto il Torneo dei Candidati, ha potuto sfidare il Campione del Mondo.
Dopo dodici partite finite patte, quindi in perfetta parità, Carlsen ha poi prevalso in una serie di partite lampo riuscendo così a conservare il titolo mondiale.
Ma le occasioni per Fabiano di potersi rifare e di puntare al podio non mancheranno di sicuro.
Lo scorso anno stava partecipando al Torneo dei Candidati 2020, che è stato però sospeso per via della pandemia.
E anche la nuova sfida per il titolo mondiale slitterà molto probabilmente a chissà quando.
Per cui l’eventuale rivincita è rimandata.
Scorrendo in questo momento la classifica mondiale dei primi cento giocatori col più alto punteggio ELO troviamo una sola donna, la cinese Huo Yifan all’ottantacinquesimo posto con 2658 punti, e nessuna americana.
Rispetto al passato le cose stanno però cambiando anche negli scacchi e le donne mostrano progressi di notevole entità.
Ancora oggi esistono un Campionato del Mondo Femminile e titoli femminili di Maestro Internazionale e di Grande Maestro Internazionale ma non sono poche le donne che si rifiutano di concorrere per titoli esclusivamente femminili e partecipano alle normali competizioni internazionali insieme agli scacchisti maschi ottenendo ottimi risultati.
Negli Stati Uniti in questo momento si possono ricordare in particolare tre giocatrici di alto livello: Irina Krush, Carissa Yip e Hanna Zatons’kych.
La prima, Irina Krush è nata a Odessa in Ucraina nel 1984 ma è emigrata negli Stati Uniti coi suoi genitori quando aveva cinque anni.
Pochi mesi fa è stata colpita dal Covid. E’ entrata e uscita dall’ospedale più volte. E’ guarita e, pur debilitata, ha permesso con la sua prestazione di portare la nazionale femminile degli U.S.A. alla finale per il Campionato del Mondo a squadre contro la Cina.
Ha vinto per sette volte il Campionato Nazionale Femminile Statunitense.
La seconda, Carissa Yip, è la più giovane delle tre.
E’ nata nel 2003 a Boston da genitori cinesi.
Attualmente è Gran Maestro Femminile e Maestro Internazionale FIDE.
Ha sicuramente grandi prospettive di carriera.
La terza, Hanna Zatons’kich, è nata a Mariupol in Ucraina nel 1978.
E’ Grande Maestro Femminile e Maestro Internazionale FIDE.
Ha vinto per quattro volte il Campionato Nazionale Femminile degli U.S.A.
Il Campionato Femminile Statunitense di Scacchi viene disputato dal 1937.
Tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Novecento una figura di notevole livello scacchistico fu quella di Mona May Karff di origini russe.
Era nata nel 1908 ma nel 1917, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, emigrò in Palestina con la sua famiglia.
Poco più che ventenne si trasferì a Boston, ottenendo la cittadinanza.
Vinse per cinque volte il Campionato Femminile Statunitense.
Un settore scacchistico, avulso dalle competizioni e dai tornei internazionali, è quello costituito dalla ‘problemistica’, vale a dire da quelle composizioni create artificialmente che indicano in quante mosse il bianco deve dare scacco matto al nero (problema diretto) o in quante mosse il bianco deve costringere il nero a dargli scacco matto (automatto o problema inverso).
Ebbe un grande sviluppo dagli inizi del Milleottocento.
Gli amanti dei problemi di scacchi, soprattutto i compositori di problemi, e i giocatori di torneo costituiscono, nella maggior parte dei casi, due mondi piuttosto distanti fra loro.
Raramente i compositori di problemi sono buoni giocatori, forse perché la variabile del tempo, che inesorabilmente incombe sullo svolgimento di una partita, nella loro attività è praticamente inesistente.
Tra i più importanti problemisti del mondo sono da ricordare proprio tre statunitensi a cavallo tra Ottocento e Novecento: Sam Loyd (1841 – 1911), William Anthony Shinkman (1847 – 1933) e Alain Campbell White (1880 – 1951). Sempre negli Stati Uniti, a Filadelfia nel 1913, James Francis Magee e Alain Campbell White fondarono il ‘Good Companion’, un club che riuniva i cosiddetti ‘Buoni Compagni’ e che arrivò a contare fino a seicento iscritti tra i problemisti di tutto il mondo.
Rimase attivo fino al 1924 permettendo la pubblicazione delle migliori creazioni, in fatto di problemi, dell’epoca.
Ma i tempi avanzavano e così, nel 1949, lo scacchismo americano, nella sua veste informatica, iniziò a porre le basi per futuri impulsi di grande valore innovativo nella pratica e nella teoria del gioco.
In quell’anno infatti proprio un matematico statunitense, Claude Elwood Shannon, ideò il primo programma per far giocare a scacchi un elaboratore elettronico che chiamò ‘Programming a computer for playing chess’.
Da allora è stato un susseguirsi di miglioramenti continui e di accesi confronti per arrivare a risultati sempre più sorprendenti in cui l’intelligenza artificiale ha raggiunto livelli fino a pochi anni fa addirittura impensabili.
Nel 1966 si ebbe il primo incontro tra un computer programmato da scienziati sovietici (il programma ITEP che girava su un computer M-2) e un computer statunitense (il programma Kotok–Mc Carthy che girava su un computer IBM 7090).
L’incontro, su quattro partite, iniziò il 22 Novembre 1966, durò nove mesi e lo vinse il programma sovietico per tre a uno.
Dal 1970 esiste un Campionato statunitense per soli computer.
Nel 1997 un computer, Deep Blue, con software IBM, sconfisse per la prima volta un Grande Maestro, Garry Kasparov.
Negli anni successivi i computer scacchistici sono proliferati e la loro capacità di analisi e di apprendimento dagli errori fatti si è sempre più affinata.
Ormai un incontro tra uomo e macchina si sa che non avrebbe storia per l’essere umano.
Nel 2017 lo scontro più significativo e ricco di potenzialità evolutive è avvenuto tra i computer Stockfish e AlphaZero.
In una serie di cento partite AlphaZero ha ottenuto ventotto vittorie, settantadue patte e nessuna sconfitta.
Stockfish è un computer di grandi potenzialità di calcolo, novecento volte più veloce di AlphaZero.
Ma AlphaZero ha una capacità di apprendimento enormemente superiore.
E soprattutto non si limita ad utilizzare i dati che gli sono stati forniti nella fase di programmazione ma è in grado di ragionare di testa sua e di trovare strade non battute da secoli di teoria scacchistica.
Insomma è una vera e propria rivoluzione che non si sa a quali lidi approderà.
Fra qualche anno ci si troverà forse nella necessità di riscrivere una storia degli scacchi, non solo americani ovviamente, vista dalla parte delle intelligenze artificiali in cui il ruolo umano sembra apparire sempre più limitato a quello di osservatore o di studente di complesse strategie che, a volte, appaiono contraddire le più basilari regole di difesa dei propri pezzi, prima di lanciarsi in attacchi all’arma bianca.
Regole che invece, fino ad ora, sono state alla base di ogni insegnamento scacchistico.
Quando Benjamin Franklin diceva che giocare a scacchi aiutava ad apprendere alcuni comportamenti indispensabili nella vita quotidiana, quali la prudenza, la circospezione e l’attenzione continua, basava queste sue considerazioni partendo dal presupposto che queste caratteristiche costituivano i fondamenti comportamentali del buon giocatore di scacchi.
Ma AlphaZero gioca in modo molto diverso.
Non sembra affatto prudente né circospetto.
La sua visione del gioco e la sua capacità di analisi sono in continua evoluzione.
I principi che stanno al fondo delle sue strategie sembrano stravolgere i nostri convincimenti più radicati e sembrano essere identificativi di un altro tipo di approccio alla partita e, chissà, forse di un altro tipo di vita.
Prepariamoci.
Varese, 25 gennaio 2024
La Corte Suprema non fermerà Trump.
L’opinione dell’americanista Nicole Bacharan
intervista di
Bettina Muller
per RSI
Dopo aver vinto ieri le primarie nello stato del New Hampshire, Donald Trump si profila sempre più come il candidato del partito repubblicano alle elezioni presidenziali americane di novembre.
L’unica sua sfidante rimasta, Nikki Haley però non si è data per vinta.
Ma quali reali possibilità ha Haley?
Solo la Corte Suprema può fermare Trump?
Lo abbiamo chiesto all’analisi dell’americanista Nicole Bacharan.
Pensa che la Corte Suprema voglia fermare Trump?
“Non credo che la Corte Suprema abbia la volontà di fermare Donald Trump.
È una corte molto conservatrice e anche se non lo fosse, vorrebbe lasciare la scelta all’elettorato.
Quindi, più che la Corte Suprema, penso che siano gli elettori, il prossimo novembre, a poter fermare Donald Trump.
E sembra dai sondaggi che molti che oggi lo sostengono sarebbero disposti a cambiare idea se venisse condannato per un reato penale da una giuria popolare e non semplicemente da giudici. Credo di più che possano essere gli elettori in novembre a fermare Trump”.
Se i giochi sono più o meno fatti, perché Nikki Haley non si è ritirata?
“Nikki Haley in New Hampshire è andata bene rispetto alle aspettative, visto che era a soli undici punti da Donald Trump.
Lei rappresenta la voce, se non la speranza, del Partito repubblicano tradizionale, ma non vedo come possa vincere le primarie repubblicane.
Penso che stia tenendo duro, almeno fino alle primarie in South Carolina, perché se Donald Trump dovesse inciampare nei prossimi mesi in qualche ostacolo giudiziario, lei potrebbe rappresentare un’alternativa credibile”.
Dopo i risultati del New Hampshire, Nikki Haley ha fatto un discorso in cui si è complimentata con Donald Trump per la sua vittoria, mentre Donald Trump ha incentrato il suo discorso sulla denigrazione dell’avversaria su Nikki Haley.
Questa strategia è pagante in termini elettorali?
“In effetti Nikki Haley ha pronunciato il suo discorso dopo i risultati nel New Hampshire in modo molto tradizionale, con fair play, congratulandosi con l’avversario e fornendo ai suoi sostenitori buoni argomenti per continuare a sostenerla.
Donald Trump è completamente al di fuori delle regole consuete.
È stato estremamente aggressivo nei confronti di Haley e sappiamo che sta preparando la sua solita campagna, ovvero una campagna di umiliazione, denigrazione e ridicolizzazione.
Abbiamo visto da quando Donald Trump è entrato in politica nel 2015 quanto sia difficile per qualsiasi politico sopravvivere all’umiliazione pubblica ed evitare di diventare una figura ridicola.
Questa strategia di umiliazione è molto pagante per i sostenitori di Trump, quelli che lo seguiranno all’inferno, qualunque cosa faccia, perché sono persone arrabbiate, piene di risentimento, che odiano le élite.
Sono molto felici di odiare insieme a Donald Trump. Non è affatto certo, però, che questo basti a convincere i vacillanti elettori moderati e indipendenti che contano molto quando si andrà a votare a novembre”.
Varese, 24 gennaio 2024
Il futuro della razza negli Stati Uniti d’America.
(Argomentazioni, problemi, rilevazioni, apparenze, prospettive, realtà, opinioni…
Interventi in merito a firma
Scott Rasmussen ricevuti e raccolti tra aprile e maggio del 2021.
Uno:
Stiamo fraintendendo il futuro della razza in America
(19 aprile 2021)
Negli ultimi anni, il tema della razza in America è balzato in superficie più che mai dai tempi del movimento per i diritti civili degli anni Sessanta.
Molti articoli di giornale parlano della differenza tra americani bianchi e “persone di colore”. L’implicazione è che le persone siano da una parte o dall’altra tragicamente lontane.
La saggezza convenzionale ha assorbito l’idea che gli Stati Uniti diventeranno una nazione a “maggioranza minoritaria” in un futuro relativamente prossimo.
Intorno al 2040, le “persone di colore” saranno più numerose dei bianchi.
Per alcuni, questo è un pensiero spaventoso.
Per altri, l’immagine di un giorno in cui gli americani non bianchi potranno rovesciare la situazione e mostrare all’attuale maggioranza come vive l’altra metà.
Tuttavia, un nuovo importante libro di Richard Alba suggerisce che l’intera narrativa sulla razza sia sbagliata.
Alba è un distinto professore di sociologia al Graduate Center, City University of New York.
Il suo libro si intitola ‘La grande illusione demografica: Majority, Minority, and the Expanding American Mainstream’.
Alba sostiene che sia i dati del censimento che la comprensione popolare della razza sono fondamentalmente errati.
Al centro del problema c’è “un robusto sviluppo che in gran parte non è stato annunciato: un’impennata nel numero di giovani americani che provengono da famiglie miste di maggioranza e minoranza”.
Essi “hanno un genitore bianco e uno non bianco o ispanico”.
Attualmente, circa una nascita su dieci negli Stati Uniti proviene da questo tipo di parentela.
E quel numero continuerà a crescere perché quasi uno su cinque nuovi matrimoni attraversa le linee razziali o etniche.
Perché questo è importante?
In primo luogo, perché il Census Bureau conta chiunque abbia una parentela mista come non bianco.
Questo è un cambiamento rispetto alle pratiche precedenti.
Prima del 1980, per esempio, le persone di origine messicana erano contate come bianche dal Census Bureau.
Ora sono contate come non bianche.
Oggi, più di cinquanta milioni di americani di origine ispanica descrivono la loro razza come bianca.
Considerando questa e altre questioni, la revisione di Alba dei dati del Census Bureau conclude che la realtà di una nazione a maggioranza minoritaria è molto più lontana di quanto comunemente inteso. In effetti, potrebbe non arrivare mai.
Ma c’è di più nella storia.
Su un punto, l’idea stessa che le identità razziali ed etniche siano rigide e inflessibili è sbagliata.
Il sei per cento delle persone che hanno risposto al questionario del censimento del 2020 ha dato risposte razziali o etniche diverse da quelle del 2010.
Questo accade per varie ragioni, incluso il fatto che molte famiglie immigrate di seconda e terza generazione iniziano a vedersi come più ‘americane’ che altro.
Forse la cosa più importante che Alba fa notare è che quelli di discendenza mista hanno esperienze sociali e culturali molto diverse.
Mentre il Census Bureau li definisce come minoranze, la maggior parte di coloro che provengono da genitori misti si impegnano principalmente con quella che sarebbe ampiamente definita come società bianca.
Se la società fosse semplicemente divisa in categorie di bianchi e persone di colore, molti di questi americani di origine mista si vedrebbero sul lato bianco del grande divario.
Ad aggiungere confusione è il modo in cui vediamo la nostra storia.
Ci guardiamo indietro e vediamo una nazione dominata da un gruppo omogeneo di bianchi. Tuttavia, coloro che hanno vissuto gran parte delle nostre vicende non avrebbero mai pensato che fosse così.
Per fare solo un esempio, un secolo fa i cattolici italiani e polacchi, insieme agli ebrei dell’Europa orientale, erano visti come una minaccia per molti americani bianchi.
Oggi sono visti come parte della maggioranza bianca.
Così, quando guardiamo indietro dall’anno 2021, tendiamo a visualizzare una popolazione più omogenea di quella realmente esistita.
Quando guardiamo in avanti, vediamo una divisione razziale più rigidamente definita di quella esistente.
In entrambi i casi, ciò che ci manca è la storia dell’America.
La vera storia dell’America è una nazione con un mainstream in espansione e sempre più inclusivo. Questo mainstream è guidato da un desiderio condiviso di far sì che gli Stati Uniti si avvicinino a vivere i propri ideali fondatori di libertà, uguaglianza e autogoverno.
Due:
La storia del patrimonio razziale ed etnico dell’America è complessa
(27 aprile 2021)
La settimana scorsa ho dato un’occhiata ai numeri che stanno dietro al tema della razza in America.
La realtà è che la nostra società non è ordinatamente divisa in categorie razziali facili da definire.
Al contrario, la vera storia dell’America è una nazione con un mainstream in espansione e sempre più inclusivo.
Questo mainstream è guidato da un desiderio condiviso di avere gli Stati Uniti più vicini a vivere i loro ideali fondatori di libertà, uguaglianza e autogoverno.
Gran parte della rubrica della scorsa settimana è stata costruita su un nuovo importante libro di Richard Alba, ‘La grande illusione demografica: Majority, Minority, and the Expanding American Mainstream’.
Ha richiamato l’attenzione sul crescente numero di americani di razza mista.
Un adulto su dieci oggi ha un genitore bianco e uno non bianco.
Questa settimana, attingo ad alcuni dati di un mio sondaggio per guardare l’argomento da una diversa angolazione.
L’indagine ha scoperto che il sessantacinque per cento degli elettori ispanici identificano la loro razza come bianca.
Questa non è una scelta di uno o dell’altro.
È un’identità razziale ed etnica mista.
Ma anche questo comincia solo a raccontare la storia.
Gli elettori ispanici i cui genitori sono nati entrambi negli Stati Uniti tendono ad avere prospettive diverse da quelli con almeno un genitore immigrato di prima generazione.
Considerate, per esempio, le risposte alla mia domanda generica sul voto al Congresso.
È quando chiediamo agli elettori se voterebbero per il repubblicano del loro distretto o per il democratico.
Serve come misura di base dell’umore politico della nazione.
Attualmente, i miei numeri mostrano i Democratici con un vantaggio di quattro punti sulla scheda generica: quarantatre a trentanove.
Gli elettori ispanici nel complesso favoriscono i democratici con un margine molto più ampio: quarantasei a trentasei.
Ma i numeri sono drammaticamente diversi per gli elettori ispanici i cui genitori sono entrambi nati negli Stati Uniti.
Questi elettori favoriscono i repubblicani con un margine di dieci punti: quarantasette a trentasette.
Tra tutti gli altri elettori ispanici, i democratici sono preferiti con un enorme margine: cinquantacinque a ventisei.
Questi risultati potrebbero essere spiegati da una tra due teorie.
La prima è che i nuovi elettori ispanici sono semplicemente diversi da quelli che venuti prima.
Se questo è vero, allora i Democratici beneficeranno fortemente di più immigrati ispanici.
Ma c’è anche una seconda possibilità.
Può essere che gli elettori ispanici di seconda e terza generazione comincino a identificarsi maggiormente con il Paese di nascita piuttosto che con quello della loro eredità etnica.
Ci sono molti altri dati di ricerca che supportano questa spiegazione.
E si adatta all’esperienza americana.
C’è stato un tempo in cui irlandesi, italiani, polacchi e altri immigrati erano considerati separati dalla corrente principale americana.
Questo accadeva molto tempo fa.
Ora, sono diventati parte di un mainstream in continua crescita.
Infine, c’è un’altra domanda nel mio recente sondaggio che mostra quanto possano essere fluide le definizioni di razza ed etnia.
Ho chiesto alle persone quale categoria razziale o etnica li definisce meglio.
Ma l’ho fatto con un colpo di scena.
Ho aggiunto ‘americano’ come una delle possibilità.
Con questa opzione, il quarantasette per cento degli elettori si è identificato come bianco e il trentatre come americano.
Tra gli elettori ispanici, il trentasette si è definito come americano e il ventinove come bianco.
Il punto di tutto questo è che la storia dell’eredità razziale ed etnica dell’America è complessa. Guardando al futuro, questo significa che probabilmente vedremo un crescente offuscamento dei confini tra le razze e una maggiore attenzione agli individui piuttosto che alla loro razza.
È un futuro che sarebbe piaciuto al Rev. Dr. Martin Luther King, Jr.
E sarà un futuro luminoso per i nostri figli e nipoti.
Tre:
Capire la razza in America: Costruire un mainstream più ampio e inclusivo
(2 maggio 2021)
Nelle ultime due settimane, ho esplorato i dati che evidenziano la complessità del patrimonio razziale ed etnico dell’America.
Le linee sono molto più sfocate di quanto sia generalmente riconosciuto nel dialogo pubblico.
Ci sono due ragioni principali per questo.
Una è il numero crescente di americani che hanno un’eredità razziale ed etnica mista.
Il mio sondaggio più recente ha trovato che il diciassette per cento degli elettori dichiara almeno due origini razziali ed etniche nella propria storia familiare.
I più comuni sono i bianchi di origine ispanica.
Secondo il Census Bureau, ci sono più di cinquanta milioni di residenti di questo tipo nel Paese oggi.
La seconda ragione è che l’identità razziale è fluida, piuttosto che fissa.
I dati citati da Richard Alba in ‘The Great Demographic Illusion’ mostrano che circa il sei per cento degli americani ha riportato il proprio background razziale o etnico in modi differenti nei diversi rapporti del censimento.
La mia ricerca personale ha confermato che anche piccole differenze nella formulazione delle domande sulla razza e l’etnia possono generare risultati diversi.
Lo scorso fine settimana, ho chiesto agli elettori quale categoria “descrive meglio come definiresti la tua eredità razziale ed etnica”.
Una delle opzioni date era ‘americana’ e il trentanove per cento dei votanti ha detto che era l’etichetta che avrebbe scelto.
Un altro trentanove ha detto bianco, il dieci ha detto nero, il cinque ispanico, il tre asiatico e il quattro ha detto altro.
Quelli che hanno scelto altro hanno dato risposte come nativo americano, umano, ungherese, iraniano, latino e mediorientale.
Guardando un po’ più a fondo negli sfondi demografici abbiamo trovato alcune dinamiche interessanti.
In primo luogo, c’è un sostanziale divario generazionale.
Tra gli americani dai quarantacinque anni in su, il quarantanove per cento dice che americano è il termine migliore per definire la propria eredità razziale ed etnica.
Tra gli elettori più giovani dei quarantacinque anni, solo il ventiquattro per cento ha scelto questa etichetta.
Inoltre, c’è anche una divisione partitica.
Tra i repubblicani, il cinquantuno per cento definirebbe la propria eredità come americana.
Lo stesso farebbe il quarantadue degli elettori indipendenti.
Tuttavia, solo il venticinque dei democratici è d’accordo.
Guardando il divario da una prospettiva diversa, i democratici sono molto più propensi a identificarsi come bianchi piuttosto che americani.
L’opposto è vero per i repubblicani e gli indipendenti.
Forse i dati più interessanti, tuttavia, si trovano lungo le linee razziali ed etniche.
Tra gli elettori che sarebbero definiti come neri dal Census Bureau, il settantaquattro per cento ha scelto i neri come migliore definizione del loro patrimonio.
Questo è vero per tutti gli elettori neri e per gli elettori neri i cui genitori sono nati negli Stati Uniti.
La dinamica è molto diversa tra coloro che sarebbero definiti ispanici dal Census Bureau.
Solo il quaranta per cento di questi elettori dice che ispanico è la migliore definizione del loro lignaggio.
Un numero leggermente maggiore – il quarantatre – dice che si descriverebbe come americano (ventidue) o bianco (ventuno).
La settimana scorsa ho notato che c’erano significative differenze politiche tra gli elettori di origine ispanica a seconda del luogo di nascita dei loro genitori.
C’è anche una differenza significativa in termini di identità.
– Tra gli elettori ispanici i cui genitori sono nati negli Stati Uniti, il cinquantaquattro per cento si definisce o americano (ventitre) o bianco (trentuno).
Solo il trentacinque si è definito ispanico.
– Tra gli altri elettori ispanici, quelli con almeno un genitore nato fuori dal Paese, solo il trenta per cento si è identificato come americano (ventuno) o bianco (nove).
Quasi la metà di questi elettori – il quarantasette per cento – dice che ispanico è la migliore definizione del loro patrimonio.
I numeri suggeriscono, nelle parole di Richard Alba, che “L’attuale narrazione dominante, quella della nazione a maggioranza minoritaria, è profondamente problematica”.
Nel suo libro, Alba dice che i problemi non derivano “solo per questioni di accuratezza”.
Crede che una tale narrazione dominante e imprecisa “è intrinsecamente divisiva”.
Al suo posto Alba offre una prospettiva diversa, basata su un’attenta revisione dei dati e della storia della nostra nazione.
Dal suo punto di vista, “l’assimilazione in un mainstream in espansione e sempre più inclusivo offre un modo superiore di comprendere” i cambiamenti che avvengono oggi nella nostra società.
Varese, 24 gennaio 2024
New Hampshire Primary.
Spoglio delle schede iniziato alla nostra una.
Basta un’ora e un quarto perché la Associated Press comunichi che Donald Trump ha vinto.
Subito dopo Nikki Haley si congratula con il tycoon ma, avendo verificato di avere almeno colà e in particolare nei centri urbani comunque un seguito consistente, dice che la corsa è tutt’altro che finita (“The race is far from over!”).
Nel corso delle prossime ore un esame più approfondito sarà ovviamente indispensabile.
Varese, 23 gennaio 2024
Religione e religiosità negli USA
di Rino Cammilleri
I Padri Pellegrini, ritenuti paleofondatori degli Stati Uniti, erano protestanti così fanatici da venire praticamente scacciati dai protestanti inglesi egemoni, che mal sopportavano chi era più fanatico di loro.
E i ‘Pilgrim Fathers’ traversarono l’oceano per trovare una terra in cui uno
fosse libero di fare il fanatico come gli pareva.
Da qui un Paese letteralmente fondato sulla libertà di religione.
Naturalmente, le cose non andarono esattamente nel modo semplice con cui le abbiamo tratteggiate.
I Fondatori posero fin da subito delle eccezioni: libertà per tutti, tranne che per i pagani e i papisti.
I pagani erano gli indiani, che nell’America del Sud si chiamavano indios.
Questi, gli spagnoli li evangelizzarono come da patto col Papa, che aveva dato ai Re Cattolici il permesso di colonizzare il Nuovo Mondo purché si facessero carico della cristianizzazione dei nativi.
E così fu, tanto che, ancora oggi, i nomi delle città statunitensi nei territori sottratti al Messico a mano armata suonano San Antonio, Los Angeles, Sacramento, Corpus Christi, Santa Fe, San Diego, San José, San Francisco, eccetera.
Tutte sorte attorno a Missioni francescane, le più create dal Beato Junípero Serra (la cui statua in Campidoglio è l’unica di un frate papista).
I Conquistadores spagnoli, controllati a vista dai loro cappellani, sposarono donne azteche e incas, tanto che oggi il Sudamerica è completamente meticcio.
Non così al Nord, dove, Pocahontas a parte, i coloni non si mischiarono coi nativi.
Infatti, oggi, nel melting pot americano l’etnia pellerossa è ridotta a pochi esemplari.
L’altro divieto era per il papismo, et pour cause: il protestantesimo era appunto un separazione indignata dalla casa-madre cattolica, da Lutero in poi presentata come sentina di ogni errore e corruzione.
Perciò ci vollero un paio di secoli prima che i cattolici venissero ammessi alla vita comune.
Finché la maggioranza fu wasp (white, anglo-saxon, protestant), l’ostracismo nei confronti dei cattolici permase (e ancora oggi il KuKluxKlan annovera i cattolici, con gli ebrei e i neri, tra i nemici della nazione americana: il governo si decise finalmente a prendere provvedimenti quando in Indiana vide scontrarsi per vari giorni studenti cattolici dellìUniversità di Notre Dame e militanti del KKK).
Uno dei motivi per cui gli USA, invasa Citta del Messico nel 1848, non si annessero tutto l’impero messicano ma solo il suo settentrione, fu questo: l’immissione di milioni di cattolici negli States avrebbe sovvertito gli equilibri di un Paese nato wasp.
Basti pensare agli irlandesi arruolatisi per fame nell’esercito americano: costretti a scappare (dopo un milione di morti di inedia) dall’oppressione britannica e trattati con disprezzo perché papisti, in quella guerra passarono coi messicani (cattolici e antischiavisti), tra i quali costituirono il battaglione San Patricio.
Quelli che sopravvissero furono marchiati a fuoco sulla faccia e impiccati come traditori.
Ci volle tempo e la pazienza dei missionari papisti, che aprivano scuole (boicottate) anche agli indiani e ai neri.
Santi come Catherine Drexel, una convertita al cattolicesimo che diede fondo alle sue non piccole ricchezze per assistere gli ultimi (il celebre vibrafonista Lionel Hampton, bambino nero di strada, dovette a lei istruzione e educazione).
Ci vollero figure come suor Blandina Segale, mandata nel selvaggio West, che lo stesso Billy The Kid rispettava.
Dovette combattere tutta la vita, perché ovunque andasse l’establishment wasp le vietava l’insegnamento o l’assistenza ospedaliera.
O padre Giuseppe Bixio, fratello del garibaldino Nino: gesuita, si accorse subito che gli indiani erano trattati come subumani e ne prese le difese.
Allo scoppio della Guerra di Secessione si arruolò come cappellano tra i Confederati e si rese protagonista di imprese leggendarie.
A guerra finita scampò alla vendetta nordista perché aveva sempre soccorso i feriti di ambedue i lati.
La Guerra di Secessione, appunto, portò altri cattolici in terra americana.
Si trattava dei borbonici sconfitti, cui venne offerto l’arruolamento nei ranghi della Confederazione, a corto di uomini rispetto al più popoloso Nord Unionista.
Questa gente si ritrovò sconfitta di nuovo per avere combattuto per il Sud.
Ma, non avendo dove andare, rimase in terra americana.
Così come gli unici due sopravvissuti alla celebre battaglia di Little Big Horn, quando gli indiani sterminarono il Settimo Cavalleria di Custer: Giovanni Martini, sergente trombettiere, e il tenente Carlo Di Rudio.
Il primo era stato mandato, inutilmente, a cercare soccorsi.
L’altro era un ex carbonaro, compagno di quel Felice Orsini che aveva attentato alla vita di Napoleone III.
Scappato in America, come tanti altri cospiratori europei era stato arruolato e mandato negli avamposti più lontani (così il governo si liberava delle teste calde esperte nell’arte di cospirare: non si sapeva mai).
Lentamente, l’immigrazione dei latinos, soprattutto messicani, fece il resto portando alla situazione odierna, con il cattolicesimo divenuto numericamente la prima religione negli States, se si tiene conto che il protestantesimo è parcellizzato in miriadi di denominazioni diverse (se ne contano più di sedicimila), ciascuna delle quali sempre in procinto di sdoppiamento per scisma.
Si aggiunga un altro non trascurabile fenomeno, le conversioni.
Tutto l’Ottocento vide un flusso pressoché continuo di conversioni di protestanti al cattolicesimo, laddove il percorso inverso era praticamente inesistente.
Personaggi leggendari come Buffalo Bill, Toro Seduto, Kit Carson e Alce Nero si fecero battezzare cattolici.
Ciò era dovuto anche allo spettacolo dell’efficace opera di assistenza del clero cattolico nei confronti dei più sfortunati, indipendentemente dal colore della pelle.
Nella Guerra Civile le suore cattoliche si erano prese instancabilmente cura dei feriti di entrambe le parti.
E, a guerra finita, il papa Beato Pio IX aveva mandato la sua benedizione e un rosario al Presidente sudista Jefferson Davis in carcere.
Moltissimi nativi e altrettanti ex schiavi neri poterono studiare e acquisire dignità grazie alle istituzioni che la Chiesa cattolica, pur tra mille difficoltà e boicottaggi, aveva fatto sorgere in terra americana.
Si pensi anche all’assistenza agli immigrati europei, di cui santa Francesca Cabrini è di fatto il simbolo.
Come abbiamo anticipato, con la crisi della patata del 1847 e le spietate politiche economiche degli occupanti inglesi, un milione di irlandesi morirono di fame e un altro milione sbarcò in America.
Tutti cattolici.
Poi venne il turno dei contingenti italiani.
Il tutto mentre non si arrestava il fenomeno delle conversioni individuali a cui abbiamo accennato.
Mostri sacri dell’intrattenimento come Bing Crisby (è sua la canzone più venduta di sempre, ‘White Christmas‘), John Wayne, Gary Cooper (una figlia suora), Jane Russell, Loretta Young, Dolores Hart (‘fidanzatina’ cinematografica di Elvis Presley: finì monaca di clausura), ma anche Babe Ruth (il più grande giocatore di tutti i tempi dello sport più americano che ci sia, il baseball), il generale Lewis Wallace (l’autore di ‘Ben Hur‘), e si potrebbe continuare per pagine.
Ancora ai tempi della Guerra d’Indipendenza, nel Maryland, per esempio, ai cattolici era vietato educare i figli nella fede papista.
Chi veniva sorpreso a farlo se li vedeva togliere e affidare a famiglie protestanti.
A queste soperchierie mise un freno George Washington, desideroso di mantenere la neutralità del Canada (inglese ma mezzo francofono e, dunque, papista) nella guerra dei coloniali contro i britannici.
Washington vietò anche i falò del 5 novembre, durante i quali venivano bruciati fantocci raffiguranti Guy Fawkes (uno dei congiurati cattolici del seicentesco ‘Powder Plot‘ contro il re anglicano), papi e vescovi.
Il futuro primo Presidente degli Stati Uniti era di tradizione protestante e attivo massone come gran parte dei Padri Costituenti.
Eppure, stranamente, fu al centro di un fatto soprannaturale di stampo
papista.
Lo riferì il generale Anthony Sherman al National Tribune.
Il 4 luglio 1777, nel giorno che poi sarebbe diventato festa nazionale, Washington si trovava nel suo quartier generale a Valley Forge quando,
alzando gli occhi dalle sue carte, vide davanti a sé una bellissima dama.
Poiché aveva dato ordine di non essere disturbato, chiese alla donna come fosse entrata.
Lo ripeté diverse volte, invano, poi sentì la lingua paralizzarsi col resto del corpo, mentre la stanza veniva invasa da una luce misteriosa.
Tutto svanì tranne la bellissima dama che, tendendo le braccia, gli disse di guardare.
Il Generale vide le Nazioni, poi l’Atlantico e qualcosa di orrendo che vi si librava sopra.
E la visione scomparve, lasciando Washington di stucco.
Vero o meno che sia questo racconto di Sherman, è un fatto che, all’ora del giuramento come Presidente dei neonati States, a Washington si presentò il primo problema di una nazione multireligiosa.
Doveva giurare sulla Bibbia, sì, ma quale?
Infatti, ogni culto aveva la sua versione.
Washington tagliò il nodo di Gordio utilizzando quella della sua Loggia.
La Massoneria, infatti, quella anglosassone almeno, si professava al di sopra delle divisioni religiose e politiche.
Il gesto di Washington inaugurò di fatto la cosiddetta ‘religione civile’ quale unico collante di un Paese multiculturale, multietnico e multi tutto.
Quella che per i primi americani era una necessità, com’è noto, con la rivoluzione giacobina francese divenne obbligo, cioè un’ideologia concepita a tavolino e imposta a tutti con le buone o (soprattutto) con le cattive.
E’ da qui, dalla ‘religione civile‘ appunto, che negli Usa si è arrivati a una realtà odierna che ha visto ben sei giudici della Corte Suprema, su nove, di fede cattolica.
Così come quasi un quarto dei Governatori dei vari Stati e un terzo dei membri del Congresso.
Il Presidente Kennedy era cattolico e cattolico è Biden, attuale Capo dello Stato.
Ma, a parte il battesimo e il tipo di rito scelto per la funzione domenicale e i matrimoni di famiglia, si può dire che il cattolicesimo guidi l’azione di tutti costoro?
Molti sono, infatti, divorzisti, abortisti, favorevoli alla liberalizzazione delle droghe e del cosiddetto matrimonio same-sex.
Come tutti gli altri, cioè, lasciano la loro fede fuori dalle aule parlamentari o magisteriali come si fa con gli ombrelli bagnati.
Dando con ciò a intendere che nei luoghi dove si decide comanda la famosa ‘religione civile‘, altrimenti non si può nemmeno esservi cooptati.
Il fatto è, però, che nelle democrazie di massa la ‘religione civile‘ è estremamente mutevole.
Essa dipende dai meccanismi che creano il consenso e da coloro che questi stessi meccanismi controllano.
Proprio le travagliate vicende della Presidenza Trump hanno rivelato che non basta affatto avere dalla propria la maggioranza dei voti se la narrazione ad usum populi è in mani avverse.
E l’esempio italiano dimostra che ormai non è più il popolo a scegliere i suoi governanti, bensì il contrario.
Sono i governanti a scegliere da quale popolo vogliono essere eletti.
Basta un’alchimia costituzionale e poi si aspetta che il popolo, debitamente formato (si pensi alla famosa ‘Finestra di Overton‘), sia diventato quello giusto.
Solo allora gli sarà permesso di votare.
E se, malgrado ciò si ostinasse a votare in modo difforme, ci penseranno i giudici ad aggiustare le cose.
Esattamente come avviene negli Stati Uniti.
Gli USA, rimasti egemoni nell’Occidente dopo la sconfitta della Germania nazista e del Giappone, seguirono l’esempio dell’Impero Romano e lasciarono i popoli egemonizzati nelle loro autonomie ma li inondarono di merci, messaggi, film e musica atti a diffondere e radicare la ‘American way of life’, tanto che perfino dietro la Cortina di Ferro per i giovani i jeans, il rock, la Coca Cola e Hollywood assunsero lo status di simboli di libertà.
Ma bastò far cambiare senso al ‘modello americano’ perché la libertà venisse sostituita dal libertinaggio più spinto e popoli che non avevano mai conosciuto il razzismo si ritrovassero a doversi riconoscere in gesti e slogan americani, anzi della sinistra americana, padrona della propaganda e subito soccorsa dagli europei orfani di Marx.
Anche da noi, in Italia, sono cattolici il Presidente e gli ultimi capi di governo, Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte, Giorgia Meloni.
Ma anche da noi quel che conta è la religione civile’ (e le sue metamorfosi), non certo la Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica.
Varese, 21 gennaio 2024
da RSI
Ron DeSantis abbandona la corsa alla Nomination repubblicana
Ron DeSantis sospende la sua campagna per le presidenziali statunitensi. Lo annuncia lo stesso governatore della Florida in un video postato dal suo staff su X (ex Twitter, ndr.), nel quale spiega di chiamarsi fuori dalla corsa per le primarie repubblicane.
L’annuncio è arrivato alla vigilia delle primarie repubblicane in New Hampshire. Il governatore ha tentato di sfidare Trump, la cui investitura come candidato alle presidenziali da parte dei repubblicani – problemi giudiziari a parte – si fa ora ancora più probabile.
Donald Trump è “superiore a Joe Biden. Questo è chiaro. Ho firmato l’impegno a sostenere chi fra i repubblicani sarà nominato e onorerò il mio impegno. Ha il mio appoggio perché non possiamo tornare alla vecchia guardia repubblicana”, ha affermato il politico nel video postato su X.
Varese, 21 gennaio 2024
Tim Scott appoggia Donald Trump
Ci sono endorsement ed endorsement.
Sostegni dichiarati di peso o meno.
Al momento giusto, strategici, quelli più importanti.
Orbene, è certamente studiato contando che voglia dire molto agli elettori (per di più sostanzialmente ad un anno dall’Insediamento in programma il 20 gennaio 2025) l’endorsement recentissimo del Senatore Tim Scott a Donald Trump.
Non solo perché l’unico Senatore nero repubblicano era fino a pochi giorni fa a propria volta candidato alla Nomination.
In particolare, in quanto sieda alla Camera Alta essendo eletto in South Carolina, laddove Nikki Haley è stata due volte Governatrice.
Lo Stato che, se Haley davvero martedì 23 nel New Hampshire ottenesse un risultato onorevole, potrebbe essere decisivo ove il tycoon colà si affermasse prepotentemente come già prima del pronunciamento di Scott le rilevazioni sulle intenzioni di voto facevano prevedere.
Perdere in casa fa male.
Se poi con largo distacco…
Varese, 20 gennaio 2024
Tra un anno esatto, il 20 gennaio 2025, l’Insediamento
La Costituzione americana, all’articolo due, sezione uno, ottavo comma, così recita: “Prima di entrare in carica, il Presidente dovrà fare la seguente dichiarazione con giuramento o impegnando la sua parola d’onore: ‘Giuro (o affermo) solennemente che adempierò con fedeltà al mio ufficio di Presidente degli Stati Uniti e che con tutte le mie forze preserverò proteggerò e difenderò la Costituzione degli Stati Uniti’”.
George Washington, eletto una prima volta nel 1788/1789 (è l’unica occasione in cui si sia votato per la presidenza anche in un anno dispari), confermato nel successivo 1792, prese nuovamente possesso della carica il 4 marzo del seguente 1793.
Da allora e fino alla riforma costituzionale entrata in vigore il 23 febbraio 1933 (XX Emendamento), che ha anticipato al 20 gennaio la cerimonia e per la prima volta applicata nel 1937, il presidente in carica concludeva il proprio mandato appunto il 4 marzo.
Faceva (e fa oggi, rispetto alla data inaugurale) ovviamente eccezione il giuramento del vice presidente subentrante in caso di morte o dimissioni del Capo dello Stato eletto.
L’atto, infatti, in tale evenienza, ha luogo nel momento della successione.
Il citato XX Emendamento prescrive che “La durata in carica del Presidente e del Vice Presidente avrà termine a mezzogiorno del 20 gennaio” dell’anno seguente le elezioni e che “alle stesse date entreranno in carica i loro successori”.
Così è, quindi, come accennato, dal 20 gennaio del 1937, giorno d’inizio del secondo mandato di Franklin Delano Roosevelt.
La solenne cerimonia – ‘inauguratio’ – prevede il giuramento del neo eletto (o del confermato) Presidente nelle mani del Presidente della Corte Suprema alla presenza di un vescovo protestante, di un vescovo cattolico e di un rabbino.
Varese, 19 gennaio 2024
‘Affluent Society’ (?), Anni Cinquanta: nascono i supermarket, ma non è tutto oro quel che riluce (e verranno dipoi i Sessanta)
Terminata la Seconda Guerra Mondiale, l’amministrazione Truman si trovò a fronteggiare una situazione economica decisamente difficile.
Lo smantellamento dell’economia bellica, trainante tra il 1942 e il 1945, comportava rischi notevoli di recessione.
Con un’azione mirata di grande intelligenza, il presidente subentrato a Franklin Delano Roosevelt ideò e fece approvare le azioni che avrebbero consentito al Paese non solo di resistere ma anche di prosperare.
La fase di boom conseguente portò l’occupazione a livelli superiori rispetto al periodo pre guerra.
I salari, per non poco tempo inferiori al dovuto (la qual cosa provocò un numero incredibile di scioperi indetti dai sindacati, scioperi ai quali il Congresso – Truman riluttante e malgrado il suo veto – cercò di porre rimedio con la legge Taft/Hartley che, fra l’altro, dava al Presidente facoltà di ‘raffreddare’ gli animi imponendo un periodo di tregua di ottanta giorni alle diatribe in atto), verso il 1949 si adeguarono al punto che solo un anno dopo il professor John Kenneth Galbraith, guardando all’immediato futuro quale si prospettava, poteva parlare di una ‘affluent society’, ovvero di una società, in una assai prossima prospettiva, ricca, opulenta.
Segno preciso dei tempi, indice indiscutibile della ricchezza, la nascita in ogni città degli Stati Uniti dei supermarket, laddove, pareva ed era, ogni ben di Dio fosse proposto e acquistabile.
I progressi nel campo commerciale, in quello produttivo nell’agricoltura come nell’industria portarono miglioramenti in tutti i campi.
Rinasceva negli anni Cinquanta americani – quel felice decennio nella percezione dei più ma non dei maggiormente avvertiti – il ‘sogno americano’, questa volta, però, decisamente meno idealizzato, legato come era (e sarà) al concreto, agli affari, all’agiatezza, tutte cose, per carità, apprezzabili dalla gente comune ma legate al contingente.
Nel decennio che potremmo definire ‘di Eisenhower’, in carica dal 20 gennaio 1953 al 20 gennaio 1961, il business trionfava ma le nuvole, da pochissimi percepite, andavano addensandosi all’orizzonte.
(Che tutto non andasse bene in quei due lustri era intuibile guardando come sempre agli intellettuali e a Hollywood come a Broadway.
John Steinbeck, che aveva magistralmente dipinto in ‘Furore’ e in altri romanzi la Depressione, ambientava in California la terribile vicenda di Caino e Abele in ‘La valle dell’Eden’.
James Dean e Marlon Brando rappresentavano la ribellione giovanile apparentemente senza un vero motivo – del resto, ‘Gioventù bruciata’ di Nicholas Ray che vedeva Dean nel ruolo del protagonista nell’originale si intitolava proprio ‘Ribelle senza causa’- e in qualche modo dettata da una sotterranea, non dichiarata insoddisfazione.
Jack Kerouac e Allen Ginsberg, William Burroughs e Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti e Lucien Carr lanciavano definitivamente la ‘Beat generation’ col suo rifiuto e le sue denunce nei confronti di una società non amata.
Arthur Miller con ‘Il crogiuolo’ denunciava la nuova ‘Caccia alle streghe’ e il Maccartismo il cui imperversare sui media – radio dominante e televisione emergente – allontanava la gente dagli intellettuali percepiti, durante i seguitissimi interrogatori condotti da Joseph McCarthy e soci, come sovvertitori e complottisti di stampo comunista).
Verranno i Sessanta, verrà la contestazione, verrà il Vietnam.
Verranno i Sessanta con l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy.
Verranno i Sessanta con il Sud sempre e duramente segregazionista.
Verranno i Sessanta con la rivoluzione geopolitica e sociale del grande Lyndon Johnson, rivoluzione anni dopo compresa e correttamente valutata e che da allora consente ai democratici di vincere frequentemente la Casa Bianca come il Congresso.
Verranno i Sessanta con la convention democratica di Chicago sotto assedio ad opera dei contestatori e con la durissima repressione poliziesca.
Verranno i Sessanta con la candidatura a White House del segregazionista di provenienza democratica George Wallace.
Verranno i Sessanta con lo sbarco sulla Luna.
Verranno i davvero turbolenti ma, come detto, annunciati Sessanta…
Varese, 18 gennaio 2024
Primarie
Un elefante nella stanza della NATO
Crescono i timori tra gli alleati per una vittoria di Donald Trump alle prossime presidenziali
Tra le conseguenze di un suo ritorno alla Casa Bianca gli aspetti legati alla sicurezza in Europa
Ma gli effetti maggiori si misurerebbero a livello di relazioni commerciali
di Francesco Pellegrinelli
per il Corriere del Ticino
Ha iniziato il suo mandato nel 2017 dicendo agli alleati europei che avrebbero dovuto pagare di più per la loro sicurezza e lo ha concluso minacciando di abbandonare la NATO.
A poche ore dal trionfo di Donald Trump al vertice repubblicano in Iowa, l’ex presidente americano fa tremare Bruxelles.
A soffiare sul fuoco delle inquietudini europee, negli scorsi giorni, ci ha pensato anche il portale Politico, rivelando il tenore di un incontro tenuto con la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, a margine del Forum economico di Davos nel 2020: “Voi dovete capire che se l’Europa sarà attaccata, non verremo ad aiutarvi”.
Una conferma dei peggiori timori per il Vecchio Continente in vista di un possibile ritorno dell’ex presidente alla Casa Bianca. Ipotesi, secondo i sondaggi, per nulla remota, che ha messo in allarme diverse amministrazioni europee, generando quello che il New York Times ha definito, recentemente, “un pellegrinaggio di ambasciatori alla corte di The Donald” con l’obiettivo di comprendere le sue intenzioni in caso di rielezione.
Trump, del resto, non ha mai fatto mistero della sua profonda insofferenza riguardo alla NATO, corollario indiretto di una dura campagna a favore di un maggiore impegno degli alleati europei nella spesa militare.
Una richiesta che durante la presidenza Trump ha assunto i contorni, tutt’altro che rassicuranti, di un ricatto.
A scanso di equivoci, un riferimento diretto all’Alleanza atlantica oggi figura anche sul sito internet dell’attuale campagna del tycoon.
“Dobbiamo finire il processo cominciato con la mia amministrazione volto a riconsiderare lo scopo e la missione della NATO”.
Un ritornello già utilizzato in passato che, oggi più che mai, pone una serie di interrogativi, innanzitutto sulla sua reale minaccia e, in secondo luogo, sulle possibili conseguenze a livello di sicurezza globale e, in particolare, europea.
L’alleanza svuotata
La premessa di Mario Del Pero, professore di Storia internazionale a SciencesPo, è netta: “Non è pensabile che gli Stati Uniti escano dalla NATO.
È tuttavia immaginabile che una seconda amministrazione Trump punti a un disimpegno statunitense, pur rimanendo all’interno dell’Alleanza Atlantica”.
Poche settimane fa, il Senato ha infatti approvato una misura patentemente anti-Trump e finalizzata a impedire questa eventualità:
“La norma impone, al Presidente che volesse far uscire gli Stati Uniti dalla NATO, la ratifica di tale decisione da parte di due terzi del Senato”.
Possibilità pari a zero, dunque.
Sulla stessa linea di pensiero anche Giovanni Baroni Adesi, ordinario di Teoria finanziaria presso l’USI e profondo conoscitore della politica americana:
“È più probabile che Trump, pur rimanendo nella NATO, faccia come De Gaulle, ossia si astenga dal prendere decisioni congiunte, lasciando che i Paesi europei se la sbrighino da soli”.
Disimpegno, appunto.
Ma con quali effetti sulla sicurezza europea?
Ancora Del Pero:
“In primo luogo, l’Europa dovrebbe farsi maggiormente carico della propria sicurezza, aspetto per altro rivendicato dagli Stati Uniti sin dal 1949, anno della nascita del Trattato del Nord Atlantico”.
Gli interessi economici
Del resto, la cosiddetta ‘condivisione degli oneri’ è centrale in tutta la storia delle relazioni euro-americane, spiega ancora Del Pero.
Una richiesta che sotto l’amministrazione Obama si è formalizzata in un impegno a portare la spesa militare al 2% del PIL nazionale.
“Oggi l’Europa cerca di correre ai ripari, lo ha fatto in parte la Germania annunciando investimenti miliardari. Altri Paesi sono più timidi”, commenta ancora Barone Adesi. Anche operativamente qualche sforzo è stato fatto.
“La NATO ha ritrovato una sua missione e una sua logica dopo l’intervento in Ucraina.
È chiaro però che senza la leadership americana si troverebbe in difficoltà”.
Secondo Del Pero, tuttavia, un disimpegno USA dall’Europa non equivarrebbe a uno smantellamento completo della presenza militare:
“La NATO ha esteso diplomaticamente la sua alleanza alla Finlandia.
La Svezia seguirà.
Di fronte a un improbabile attacco di Putin non è comunque ipotizzabile che gli USA, anche sotto Trump, stiano con le mani in mano. Le 700-800 basi militari USA in giro per il mondo parlano da sole e gli interessi economici sarebbero prevalenti”.
Vento protezionista
Parlare di propensione isolazionista degli USA, anche nel caso di Trump, è quindi improprio, aggiunge Del Pero.
“Il dollaro è la valuta egemone che occupa più del 60% delle riserve di denaro in tutte le banche centrali del mondo.
Gli Stati Uniti sono pienamente integrati in questo ordine.
È impensabile che vogliano separarsene”.
Ciò non toglie che una diversa impostazione delle relazioni commerciali con l’Europa è fortemente probabile.
“È facile immaginare che Trump attivi misure protezionistiche che potrebbero colpire anche l’Europa”, osserva Barone Adesi.
“Trump è sostenitore dell’America First Policy, ossia tende a impiegare il potere degli USA per proteggere il mercato interno.
Verso la fine del suo mandato è stato molto protezionista”.
Barone Adesi ricorda la decisione di interrompere l’accordo per il commercio transatlantico.
Secondo l’esperto, quindi, un aumento delle tensioni commerciali tra USA e UE è da mettere in conto.
“Per quanto riguarda la Svizzera, Trump si è sempre dimostrato molto amichevole, molto di più di quanto non lo sia stato Biden.
L’ex presidente vuole infatti mantenere buoni rapporti con le piazze finanziarie importanti fuori dagli USA in modo da incentivare gli investimenti in America”.
Tensioni latenti
Tornerà quindi la guerra dei dazi?
“Sicuramente i dazi di Trump hanno creato grosse difficoltà, ma ricordiamoci che l’attuale Inflaction Reduction Act di Biden, senza apparenti misure protezionistiche, ha dato grandi incentivi fiscali alle aziende europee considerate strategiche affinché aumentassero gli investimenti negli Stati Uniti a scapito dell’Europa”.
Insomma, con modi più urbani, lo stesso Biden ha ingaggiato relazioni commerciali con il Vecchio Continente all’insegna della competitività.
“Trump proseguirebbe su questa linea inasprendo la politica di re-industrializzazione degli Stati Uniti”, osserva ancora Barone Adesi, secondo il quale un’eventuale rielezione del tycoon – per l’Europa e quindi per la Svizzera – sarebbe senza dubbio problematica.
La globalizzazione e la Cina
Anche secondo Del Pero, il processo di de-globalizzazione portato avanti da Biden in chiave anti-Cina subirebbe un’accelerata con una seconda amministrazione Trump.
“Biden pensa che in ambito economico si debba uscire dall’integrazione globale che avvantaggia la Cina, per rafforzare, in maniera bilaterale, le relazioni regionali con gli alleati del Sud Est asiatico e dell’Europa.
Trump, pur proseguendo con una politica che mira alla rottura delle dinamiche globali, e quindi a un disaccoppiamento dell’economia europea con quella cinese, potrebbe ingaggiare una guerra economica a tutto tondo, senza tenere conto delle relazioni privilegiate con gli alleati storici”.
Il lato potenzialmente positivo?
“L’Europa potrebbe essere obbligata a promuovere una linea più aggressiva a sostegno della propria economia”.
Non da ultimo, secondo Del Pero, un’eventuale seconda amministrazione Trump si manifesterebbe con grande incisività su temi che non riguardano direttamente l’Europa, come il confine meridionale con il Messico, una politica draconiana di espulsione degli immigrati irregolari, una politica aggressiva in materia di sostegno alle fonti fossili, o ancora una politica di tolleranza zero verso la microcriminalità.
Varese, 18 gennaio 2024
Essere Donald Trump
‘Brothers and Sisters’, un serial di notevole successo in programma tra il 2006 e il 2011.
Uno dei protagonisti prende iniziative di rilievo in campo economico.
“Quasi fosse Donald Trump”, è il commento.
È questa una delle mille – davvero – volte nelle quali in film e telefilm si è parlato del tycoon come di una persona fuori dal comune.
Si aggiunga che lo stesso The Donald non ha certo rifiutato di apparire personalmente sulle scene.
È riuscito con i suoi atteggiamenti a ‘diventare’ Donald Trump ed ‘essere Donald Trump’ gli è servito.
Eccome.
Varese, 17 gennaio 2024
Il gigante cinese perde peso
Generoso Chiaradonna per Il Corriere del Ticino
La crescita economica di Pechino non è più impetuosa come negli anni scorsi – Per Bernardino Regazzoni, già ambasciatore svizzero in Cina, l’attuale leadership tende a concentrarsi sulla sicurezza interna declinata in vari modi
La corsa è più lenta e le priorità del terzo mandato di Xi Jinping puntano a evitare il dissenso.
La prima economia manifatturiera al mondo sta attraversando un periodo congiunturale difficile: la crisi immobiliare è ancora irrisolta e probabilmente durerà anni, un elevato indebitamento delle entità locali e conseguenze post-COVID ancora non riassorbite. Fatto sta che la crescita stimata del PIL per il 2023 è tra le più basse degli ultimi anni. A questo si aggiungono i cambiamenti geopolitici in atto e l’acutizzarsi dello scontro con gli Stati Uniti. Cosa sta succedendo in Cina? Lo abbiamo chiesto a Bernardino Regazzoni, già ambasciatore svizzero a Pechino e a Tommaso Colli, managing director della filiale Fidinam di Shanghai.
«Il rallentamento dal punto di vista del PIL è una questione fisiologica. La Cina è considerata a torto un Paese in via di sviluppo, ma non è più così. Il terzo mandato del presidente Xi Jinping punta ora su una crescita interna e non più agli investimenti stranieri», spiega Tommaso Colli che precisa che il rallentamento era già percepibile nel 2019 prima dell’epidemia di Covid. «I costi per contenere le conseguenze sanitarie della pandemia sono state molto elevati. Si stima circa 230 miliardi di dollari. Il debito delle province, nel frattempo, è salito a undici mila miliardi di dollari che è una somma spropositata». Per uscire da questa situazione, suggerisce il manager di Fidinam, «l’apertura e l’iterazione con l’estero non possono essere abbandonate. In caso contrario il rischio è quello di incorrere in una situazione giapponese: la stagflazione, un periodo di bassa crescita e alta inflazione».
Occidente versus Oriente
Ma in Occidente, soprattutto negli Stati Uniti, si parla di decoupling, ovvero di separare le singole economie nazionali, almeno in determinati settori, da quella cinese. In Svizzera il Consiglio federale ha presentato lo scorso dicembre la bozza di messaggio per una legge sugli investimenti esteri che va proprio in quella direzione promossa dal consigliere nazionale de il Centro Beat Rieder. Secondo l’ambasciatore Regazzoni bisogna fare attenzione a semplificare in modo troppo netto. Regazzoni preferisce il termine de-risking a decoupling usato per la prima volta dalla presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen. «In questo momento per il presidente Xi Jinping la priorità numero uno è la sicurezza e mentre l’accesso al mercato europeo è sostanzialmente garantito il percorso inverso – dall’estero alla Cina – è limitato», continua Regazzoni. «Ci sono 31 settori dove non è possibile investire dall’estero in Cina per legge. Il cosiddetto Comprehensive Agreement on Investment (CAI) è rimasto nel congelatore del Parlamento europeo e probabilmente ci resterà diversi anni ancora visto che i parlamentari che dovevano occuparsene sono stati messi sotto sanzioni cinesi». «Quell’accordo – continua – avrebbe creato molto più equilibrio nell’accesso al mercato cinese che invece oggi è asimmetrico. È inoltre in atto una competizione tra Stati Uniti e Cina avviatasi nel dicembre 2017 dopo il cambio di amministrazione da Obama a Trump. L’Amministrazione Biden attuale è una continuazione sul dossier cinese di quella precedente con una differenza: l’amministrazione passata – o forse futura – non è interessata a trovare alleanze».
In ogni caso, pur essendoci una forte implicazione nella creazione della catena di valore tra Occidente e Cina, ci sono settori molto delicati e sensibili anche per la sicurezza. «L’Information technology, le biotecnologie e le tecnologie verdi sono ambiti dove gli Stati Uniti escludono cooperazioni con la Cina». «Per quanto riguarda la Svizzera, la mozione Rieder prevede di introdurre, come fanno altri Paesi europei, uno screening sugli investimenti nei settori strategici. Non si menziona nessun Paese in particolare, ma l’amministrazione federale si riserva di verificare se sono strategici o no. Non è un approccio abituale in Svizzera, ma il Parlamento ha deciso così anche sulla spinta “emotiva” generatasi dopo l’acquisizione di Syngenta da parte di ChemChina nel 2017, probabilmente la più grande (40 miliardi di dollari) al di fuori dei confini cinesi».
Crisi immobiliare in atto
Regazzoni ricorda anche le difficoltà strutturali dell’economia cinese. «Il mercato immobiliare pesa per circa il 28% del PIL (il cui totale è di 17 mila miliardi di dollari l’anno) ed è la cassaforte del cinese medio, non dello speculatore». «È anche la prima fonte di introito per le comunità locali che mettono a disposizione il terreno che è un bene pubblico. Attualmente c’è uno squilibrio tra offerta e domanda pari a 60 milioni di appartamenti vuoti, in pratica la popolazione italiana, che permarrà a lungo nonostante lo Stato stia intervenendo per risarcire in parte i risparmiatori che hanno perso dei soldi». La mente corre al default di Evergrande. Il problema però resta nonostante i cerotti pubblici. «Non ci saranno casi Lehman, il governo cinese continuerà a riempire il vaso che è però bucato», commenta Regazzoni che ricorda come la Cina sia affetta dalla stessa malattia che ha colpito molti Paesi occidentali: il calo demografico, ampliato dalla politica del figlio unico.
«La disoccupazione giovanile è molto elevata nelle realtà urbane dove supera anche il 25% e questo in un Paese che sforna milioni di laureati ogni anno e che sta creando anche dei problemi sociali i quali, uniti all’invecchiamento della popolazione, pongono difficoltà di spesa pubblica crescenti tanto che si è creata una dicotomia tra generazioni: gli ultra cinquantenni che hanno fino a 10 fratelli e quelli al di sotto dei 50 anni che non ne hanno nemmeno uno», precisa invece Tommaso Colli. Nonostante ciò, la priorità del governo centrale è quella della sicurezza: sanitaria, sociale, da minacce esterne, eccetera e non la crescita economica.
Non disturbare chi comanda
E i venti della democrazia spireranno mai in Cina? Sia Regazzoni, sia Colli sono realisti. «Il patto sociale insito nel sistema cinese a partito unico è questo: io ti faccio stare meglio economicamente, ma tu non disturbi il partito comunista al comando». Cosa succederà se questo patto sociale dovesse rompersi? «È ancora molto presto per immaginare una democrazia in Cina come la intendiamo noi».
Lo scontro con gli Stati Uniti e la questione Taiwan
Negli anni scorsi si è parlato molto di un progetto infrastrutturale dal nome evocativo: la Via della Seta. Ultimamente è stato abbandonato dall’Italia, per esempio. Anche questo è una conseguenza di quello che potrebbe essere incluso nel concetto di de-risking. «La Via della Seta, avvantaggiava solo la Cina perché avrebbe dato una via più rapida per i suoi prodotti in Europa. Ora c’è una maggiore attenzione anche in Europa in settori strategici (energia ed automotive in senso più ampio)», afferma Tommaso Colli.
Se c’è un allontanamento tra Cina e Occidente, l’Africa è invece destinataria di molti investimenti cinesi con sullo sfondo l’alleanza di fatto con la Russia di Putin e la guerra in Ucraina. Per l’ambasciatore Regazzoni questo dimostra ancora una volta «che la competizione con l’Occidente si è trasferita altrove: nel continente africano e anche in Sudamerica». «La Cina è il primo partner commerciale di 112 Paesi al mondo». «Per rimanere all’Africa, i cinesi hanno sostituito di fatto le ex potenze coloniali con regole, per quanto riguarda la gestione del debito di questi Stati, che non sono quelle note del Club di Parigi. Per esempio, la famosa condizionalità occidentale – “prestito sì, ma ti impegni a fare riforme” – non è contemplata dalla Cina. Se l’assenza di condizioni a breve termine è vista come un bene dal debitore, a lungo termine non sappiano cosa accadrà». Sul conflitto russo-ucraino Regazzoni fa notare che la visita di Xi Jinping a Mosca dello scorso anno dice tutto: costituiamo un blocco antioccidentale. «Non ci sono però risultanze di aggiramento delle sanzioni occidentali via Cina», aggiunge Regazzoni che fa un accenno anche alla questione Taiwan, l’isola rivendicata dalla Cina popolare che potrebbe acuire lo scontro con gli Stati Uniti in caso di escalation militare. «Non so cosa accadrà, non ho la sfera di cristallo. Se però qualcuno continua a ripetere che farà qualcosa, tendo a pensare che prima o poi lo farà. I vertici cinesi si sono espressi pubblicamente in tante occasioni sulla “riunificazione” con Taiwan. Non è detto che ciò debba avvenire con uno scontro armato, le conseguenze anche solo di un blocco economico sarebbero però molto pesanti», conclude Regazzoni.
Varese, 17 gennaio 2024
James ‘Jimmy’ Walker, parlando di artisti e politica.
L’ipotesi circolata tempo fa di una candidatura alla Presidenza degli Stati Uniti d’America, nelle file del partito democratico (al quale, da sempre, aderisce) o come indipendente, del celeberrimo attore hollywoodiano George Clooney ha richiamato alla mente di tutti gli osservatori il clamoroso precedente di Ronald Reagan, a sua volta attore – indubbiamente di bello spirito ma di minore qualità – capace di conquistare la Casa Bianca due volte, nel 1980 e nel 1984, e di ben meritare alla guida del Paese.
Ma la politica americana, già in precedenza, aveva visto emergere a livello nazionale un altro personaggio proveniente dal mondo dello spettacolo: l’autore di canzoni di successo James J. ‘Jimmy’ Walker.
Forte della popolarità conquistata soprattutto con il boom della sua ‘Will You Love Me in December as You Do in May?’ – che tutti, per strada, fischiettavano – Jimmy, con una laurea in legge in tasca e l’aiuto della potente macchina politica dei democratici, riuscì ad entrare dapprima alla Camera e poi al Senato dello Stato di New York.
Successivamente, nel 1926 – con l’appoggio del governatore Alfred Smith e l’aiuto di una vera e propria carovana di personalità dello schermo e del palcoscenico – conquistò l’ambitissima poltrona di sindaco della Grande Mela battendo il candidato di William Randolph Hearst (il primo vero magnate della comunicazione), Michael ‘Red’ Hyland.
Accompagnato dalle note e dal ritmo di ‘We’ll Walk In with Walker’ – scritta per lui da Cole Porter – il Nostro prese allegramente possesso del suo nuovo Ufficio, primo leader nazionale ad unire, con ottimi risultati, politica e spettacolo.
Come ricorda Michael E. Parrish nel suo imperdibile ‘L’età dell’ansia, gli Stati Uniti dal 1920 al 1941’, il nuovo sindaco divenne da subito la personificazione del consumismo individualistico e, mentre il presidente dell’epoca Coolidge si batteva per il mantenimento dei valori e delle virtù tradizionali, Walker allegramente organizzava feste, faceva scoppiare palloncini e ballava fino all’alba.
Molti a New York ne sapevano politicamente più di lui ma nessuno aveva più vestiti o stava meglio in smoking.
Jimmy governò la città con mano leggera: raramente si alzava prima di mezzogiorno ed arrivava sempre in ritardo alle cerimonie pubbliche.
Ma quando arrivava, nessuno sapeva superare il suo charme, la sua prontezza di spirito e la sua capacità di eloquio.
Accusato di tollerare la corruzione, divorziato dopo uno scandalo e risposato con una delle tante amanti, nel 1929 Walker venne trionfalmente rieletto.
I cittadini di New York, chiamati a scegliere tra un sincero riformista quale era lo sfidante Fiorello La Guardia e il loro playboy, non esitarono un attimo a riconfermarlo.
Alla fine, però, qualche anno dopo, Walker (che portava – ricordiamolo – il cognome di una nota marca di whisky) per evitare di essere destituito da Franklin Delano Roosevelt per i troppi scandali della sua amministrazione, fu costretto a lasciare City Hall.
Un vero peccato!
Varese, 16 gennaio 2024
Ancora sull’Iowa
Nel Caucus dell’Iowa datato 2016, Donald Trump aveva vinto in trentasette Contee su novantanove.
Ieri ha perso per un voto (1.271 a 1270) solo nella Johnson County.
Record assoluto per un candidato alla Nomination che debba confrontarsi con i rivali che in quasi tutte le circostanze nelle quali è il Presidente in carica a correre mancano.
Varese, 16 gennaio 2024
L’Iowa si è pronunciato
La corsa repubblicana alla Nomination inizia con il largo successo in Iowa di Donald Trump: all’incirca il 51 per cento dei voti.
A sorpresa, secondo poco sopra i 21 punti Ron DeSantis che prevale per la piazza su Nikki Haley che prende meno voti del previsto.
Quarto, lontano e già intenzionato a lasciare la presa, Vivek Ramaswamy.
Avremo modo di riflettere in proposito
Varese, 16 gennaio 2024
Pazzi (o almeno strambi) alla Casa Bianca?
Tempo fa, negli Stati Uniti, ebbe un qualche successo un libro di Anthony Summers (già autore di una buonissima e documentata biografia di J. Edgar Hoover, per lunghissimi anni direttore del FBI) dedicato a Richard Nixon.
Il presidente del Watergate – ma, non dimentichiamolo, anche dell’apertura alla Cina e di altri grandi successi in politica internazionale – veniva presentato da Summers come un folle, capace di mettere in pericolo la sicurezza nazionale e di picchiare più volte la moglie perché schiavo di potenti psicofarmaci che assumeva per combattere ansietà, insonnia ed altri sintomi nevrotici.
A fronte di tali ‘rivelazioni’ (in molti casi non provate e per altri versi già note), viene da chiedersi se in un sistema quale quello che regola la vita politica americana sia davvero possibile che un pazzo o, comunque, uno squilibrato arrivi alla Casa Bianca.
Guardando alla storia più recente delle elezioni presidenziali USA, è nel 1972 che teoricamente si corse, in questo senso, il pericolo più concreto.
Allora, infatti, George McGovern, candidato per i democratici alla White House, scelse come suo partner il senatore Thomas E. Eagleton che risultò essere stato per lungo tempo in cura da uno psichiatra per gravi turbe mentali.
Se il caso – un vero e proprio ‘scheletro nell’armadio’ – non fosse venuto alla luce e se McGovern avesse prevalso, Eagleton si sarebbe venuto a trovare molto vicino (‘ad un battito di cuore’, come si usa dire) al potere diventando il vice presidente.
Naturalmente, il senatore, sia pure con qualche incredibile titubanza, fu sostituito e nel ticket democratico prese il suo posto Sargent Shriver.
Se, al di là della corsa alla presidenza, si fa riferimento, invece, all’intera politica USA, in molti casi, veri e propri folli hanno raggiunto cariche di grande responsabilità.
Particolarmente significative, a questo proposito, le storie di due fratelli della Louisiana, Huey – ‘The Kingfish’, come era soprannominato – e Earl Long, la cui avventura terrena fu immortalata da Hollywood (il primo è protagonista dell’ottima pellicola di Robert Rossen ‘Tutti gli uomini del re’, premiata con tre Oscar, tratta dall’omonimo romanzo, che vinse il Pulitzer, di Robert Penn Warren; il secondo, del meno riuscito ‘Scandalo Blaze’, con Paul Newman).
Giunto al governatorato del suo Stato nel 1928, Huey, autodidatta, fluviale ed abilissimo oratore, intrallazzatore e allo stesso tempo capace di realizzare per i suoi concittadini opere pubbliche di grande rilievo, divenuto in seguito senatore degli Stati Uniti, dopo avere appoggiato F. D. Roosevelt nella campagna contro Herbert Hoover, nel 1935 e in vista delle presidenziali fissate all’anno successivo, pensò seriamente ad una propria candidatura e pubblicò un libello intitolato ‘I miei primi cento giorni alla Casa Bianca’.
In quelle pagine, ipotizzava, per far fronte alla Depressione, un azzeramento di tutte le proprietà private e la ridistribuzione in parti uguali a tutti i cittadini dei capitali.
La sua corsa verso White House (Roosevelt ebbe a temerne l’impeto) fu fermata dai colpi di pistola di un medico di campagna che, uccidendolo, intendeva vendicare vecchi torti subiti dalla sua famiglia.
Earl Long – a propria volta, anni dopo governatore della Louisiana – pazzo come un cavallo, fu rinchiuso per ordine del locale parlamento in un ospedale psichiatrico dello Stato.
Forte della sua carica, ritornò libero destituendo i medici di quel manicomio che, formalmente, risultavano alla sue dipendenze.
Più volte confermato ed altrettante volte contestato, alla fine, si candidò alla Camera del Rappresentanti nazionale.
Eletto trionfalmente contro tutte le aspettative, morì subito dopo.
In conclusione, nulla nel meccanismo elettorale americano si oppone a che un demagogo o un folle arrivino ai vertici del potere.
Varese, 15 gennaio 2024
Parte oggi, nel Martin Luther King Day, la maratona delle Primarie 2024
Sono chiamati oggi alle urne in Iowa in un Caucus solo i repubblicani (il loro ‘campo’ è il più interessante essendo la corsa di Joe Biden tra gli Asinelli sostanzialmente solitaria) e per quanto Donald Trump sembri inattaccabile serve dia conferma al riguardo.
Questo perchè, 48 per cento a 20, è dato in spolvero rispetto a Nikki Haley (Ron DeSantis parrebbe in calo) ma deve concretizzare nei seggi la previsione..
Anche se non soprattutto perché i rilevamenti che arrivano dal prossimo (il 23 la Primaria locale) New Hampshire dicono invece di un notevole progresso dell’ex Governatrice e Ambasciatrice che sarebbe al 30!
Poche ore e sapremo.
Varese, 15 gennaio 2024
Joseph Pulitzer, da giovane emigrato ungherese a editore di grande fama e potere
Spesso leggiamo che il tal romanziere o il tal giornalista americano ha vinto il premio Pulitzer che, negli Stati Uniti, è indubbiamente il maggior riconoscimento al quale possa aspirare un letterato (ma, come vedremo, non solo).
La somma che viene corrisposta al vincitore è di per sé ben poca cosa, ma, fin dal 1917, l’anno della prima aggiudicazione, assai più grande è il prestigio che deriva dalla vittoria tanto che il Pulitzer, tra i vari riconoscimenti, a livello mondiale, è secondo solo al Nobel.
All’origine e per molti anni, il premio veniva assegnato al miglior romanzo dell’anno, alla migliore opera teatrale, al miglior saggio storico e alla migliore biografia.
La poesia fu aggiunta nel 1922 e a partire dal 1943 si decise di concedere anche un riconoscimento per la migliore composizione musicale.
In più, ambitissimi, otto premi giornalistici divisi per tema.
Ma chi mai era Joseph Pulitzer?
Giovane ungherese di belle speranze (era nato il 10 aprile del 1847), il Nostro emigrò negli Stati Uniti nel 1864, giusto in tempo per partecipare alla Guerra di Secessione nelle file nordiste.
Terminato il conflitto, intraprese la carriera giornalistica come collaboratore del giornale in lingua tedesca di St. Louis ‘Westliche Post’ di cui divenne velocemente prima direttore e poi anche proprietario.
Subito dopo, fu nominato corrispondente da Washington del ‘New York Sun’ e nel 1878 acquistò il ‘Saint Louis Dispatch’ che, dopo la fusione con l’’Evening Post’, chiamò ‘Post Dispatch’.
Nel 1883, fece suo anche il ‘New York World’ che, in brevissimo tempo, inventando una nuova forma di giornalismo scandalistico e sensazionale (il cosiddetto ‘Yellow Journalism’) seppe portare ad un clamoroso successo con conseguente larghissima diffusione.
Come capitava assai spesso in quei tempi negli USA, all’affermazione editoriale si aggiunse un peso politico non indifferente del dinamico giornalista/editore il quale, nel 1877, venne eletto alla Camera dei Rappresentanti.
La via della Casa Bianca gli era preclusa dalla disposizione costituzionale che impedisce a chi non sia cittadino degli Stati Uniti dalla nascita di candidarsi alla Presidenza, ma l’influenza politica di Pulitzer fu da allora fra le più notevoli e questo fino alla morte che lo colse, sessantaquattrenne, a Charleston, nella Carolina del Sud, il 29 ottobre del 1911.
Ricco come un Creso, lasciò i propri beni alla Columbia University di New York perché li amministrasse a sostegno del premio che da lui ha preso il nome e che, secondo le sue disposizioni, doveva essere destinato “all’incoraggiamento delle opere di pubblico vantaggio e di pubblica moralità della letteratura americana e del progresso dell’educazione”.
Nel solco tracciato da Pulitzer e seguendo il suo discutibile insegnamento in campo giornalistico, altri grandi editori USA si lanciarono con successo, sia pure relativo, in politica aspirando addirittura alla presidenza.
Primo fra tutti, William Randoph Hearst la cui avventura è nota al grande pubblico visto che, ispirandosi a lui (anche se lo negava) e chiamandolo Charles Foster Kane, Orson Welles realizzò nel 1941 quello straordinario capolavoro che è ‘Quarto potere’.
Varese, 14 gennaio 2024
J. Edgar Hoover diventa capo del Federal Bureau of Investigation
Calvin Coolidge Presidente, Attorney General USA era Harlan Fiske Stone.
Fu lui a decidere che il Federal Bureau of Investigation andava riformato prendendo a modello Scotland Yard.
Convocò per la bisogna J. Edgar Hoover che gli era stato segnalato come un avvocato di grandi capacità e fortissimo carattere.
Ecco, secondo quanto narra Don Withehead in ‘FBI Story’, come andò il loro incontro:
“Hoover si sedette.
Stone guardò al di sopra degli occhiali e i due si fissarono.
Stone improvvisamente disse:
‘Giovanotto, voglio che lei diventi direttore del Federal Bureau of Investigation’.
Dopo un attimo di silenzio, Hoover rispose:
‘Accetto, signore, ma a certe condizioni’.
‘Quali?’
‘Il Bureau deve essere completamente separato dalla politica e non può diventare uno strumento dei politicanti.
Le nomine devono basarsi esclusivamente sui meriti.
Le promozioni saranno fatte esclusivamente in base alla comprovata abilità degli individui, e il Bureau risponderà delle sue azioni soltanto al procuratore generale’.
L’Attorney General aggrottò le sopracciglia e rispose.
‘Non le darei l’incarico a nessun’altra condizione.
E’ tutto.
Arrivederla’”.
(Il testo è ripreso da ‘Super USA’, di Robert Hargreaves, 1974)
Per la storia, J. Egar Hoover resterà in sella dal 1924 alla morte, nel 1972, e vedrà succedersi alla Casa Bianca Calvin Coolidge, Herbert Hoover, Franklin Delano Roosevelt, Harry Truman, Dwight Eisenhower, John Kennedy, Lyndon Johnson, Richard Nixon.
Sulla sua molte volte contestatissima persona, sulla sua controversa attività, sul suo forte conservatorismo, sulle dimostrate capacità di ‘condizionare’ (eufemismo), sulla più volte eccepita e mai dimostrata compiutamente omosessualità, hanno indagato frotte di giornalisti, storici, gossippari…
Non poche, poi, le versioni cinematografiche, spesso romanzate oltre misura. Notevole, quella datata 2011, intitolata ‘J. Edgar’, diretta da Clint Eastwood e interpretata da Leonardo Di Caprio.
Varese, 13 gennaio 2024
Charles Lindbergh, il Presidente inventato
“Sono Charles Lindbergh”.
Fatto un giro attorno alla Tour Eiffel, lo ‘Spirit of St. Louis’ atterrò a Le Bourget davanti a una folla sterminata.
Pochi istanti e il pilota, autore di un’impresa storica quale la prima trasvolata atlantica in solitario da New York a Parigi senza scalo, uscito dall’abitacolo, si presentò con quelle semplici parole.
Era il 21 maggio 1927.
Osannato oltre ogni dire, ‘l’Aquila solitaria’ riuscì a far impazzire l’America che lo celebrò a lungo e adeguatamente.
Aveva tutto il necessario per ricoprire il ruolo: morigerato, non fumava, non beveva, non si vantava, era timido.
Colpito dalla tragedia, visto che pochi anni dopo il figlio maggiore fu rapito e dipoi ucciso malgrado il pagamento del riscatto, fu, anche per questo – il dolore patito accresce le umane simpatie – per tutti gli anni Trenta tra le figure di maggior spicco e seguito degli USA.
Ammiratore di Adolf Hitler anche per il suo antisemitismo (condiviso dalla consorte Anne Morrow autrice di un libro definito “la Bibbia di ogni nazista americano”), si schierò più volte apertamente a favore della Germania hitleriana e dopo l’inizio della Seconda Guerra Mondiale si adoperò a favore di un neoisolazionismo teso a contrastare le idee in proposito – anche quelle non esplicitate – di Franklin Delano Roosevelt.
E’ in ragione di questi suoi atteggiamenti che lo scrittore Philip Roth, nel 2004, in un romanzo, lo immagina Presidente eletto (invero, di una sua candidatura, soprattutto prima che F. D. R., cosa mai fatta in precedenza salvo che da un Ulysses Grant – per dirla tutta – in difficoltà economiche e speranzoso quanto a questo che tornare a White House lo avrebbe rinpannucciato, si era parlato) nel 1940 degli Stati Uniti.
Un Capo dello Stato che, ovviamente, opera ben differentemente dal secondo Roosevelt dichiarando la neutralità americana sia nei confronti della Germania che del Giappone.
Lo scritto ucronico in questione è intitolato ‘The Plot Against America’.
Varese, 12 gennaio 2024
Storia elettorale dei singoli Stati USA
(District of Columbia compreso)
quanto alle votazioni cosiddette presidenziali e invero per la scelta degli Elettori/Delegati alla bisogna che in seguito eleggeranno il Capo dello Stato
Va qui ricordato che il Maine e il Nebraska non usano per l’attribuzione dei loro Elettori (con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni visto che hanno il compito – essendo quella USA una elezione ‘di secondo grado’ e non ad opera direttamente del popolo – di eleggere effettivamente il Presidente) il ’winner takes all method’ ma un loro alternativo sistema circoscrizionale oltre che statale.
E’ per tale ragione che – guardando al 2020 – un Delegato dell’uno come dell’altro non è andato al partito vincitore nello Stato per voti popolari ma all’altro più seguito nello specifico ambito.
Nota bene:
Onde evitare possibili confusioni, per i due Adams (John e John Quincy), per i due Pinckney (Thomas e Charles C.) per gli Harrison (William e Benjamin), per i Roosevelt (Theodore e Franklin Delano) negli elenchi che seguono ai cognomi sono premesse le iniziali dei nomi.
Quanto ai Clinton (DeWitt, Bill e Hillary), i primi due si distinguono per le iniziali dei nomi, la terza è scritta per intero.
Alabama
Capitale: Montgomery.
Risultati delle elezioni presidenziali
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Jackson)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Democratico (Van Buren)
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Democratico sudista (Breckinridge)
1864: Guerra di Secessione
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Democratico (Cox)
1924: Democratico (Davis)
1928: Democratico (Smith)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Dixiecrat (Thurmond)
1952: Democratico (Stevenson)
1956: Democratico (Stevenson)
1960: Unpledged Electors (poi confluiti su Harry Byrd)
1964: Repubblicano (Goldwater)
1968: Indipendente (Wallace)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Alaska
Capitale: Juneau.
Risultati delle elezioni presidenziali
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Arizona
Capitale: Phoenix.
Risultati delle elezioni presidenziali
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Repubblicano (Goldwater)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Tump)
2020: Democratico (Biden)
Arkansas
Capitale: Little Rock.
Risultati delle elezioni presidenziali
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Democratico (Van Buren)
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Democratico Sudista (Breckinridge)
1864: Guerra civile
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Democratico (Cox)
1924: Democratico (Davis)
1928: Democratico (Smith)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Democratico (Stevenson)
1956: Democratico (Stevenson)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Indipendente (Wallace)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
California
Capitale: Sacramento.
Risultati delle elezioni presidenziali
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Progressive (T. Roosevelt)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
Colorado
Capitale: Denver.
Storia delle elezioni presidenziale
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Populista (Weaver)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Repubblicano (Willkie)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
Connecticut
Capitale: Hartford.
Risultati delle elezioni presidenziali
1789: (George Washington)
1792: (George Washington)
1796: Federalista (J. Adams)
1800: Federalista (J. Adams)
1804: Federalista (C. C. Pinckney)
1808: Federalista (C. C. Pinckney)
1812: Federalista (D. Clinton)
1816: Federalista (King)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (J. Q. Adams)
1828: National Republican (J. Q. Adams)
1832: National Republican (Clay)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Whig (Clay)
1848: Whig (Taylor)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Repubblicano (Fremont)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Repubblicano (Hoover)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
Delaware
Capitale: Dover.
Risultati della elezioni presidenziali
1789: (George Washington)
1792: (George Washington)
1796: Federalista (J. Adams)
1800: Federalista (J. Adams)
1804: Federalista (C. C. Pinckney)
1808: Federalista (C. C. Pinckney)
1812: Federalista (D. Clinton)
1816: Federalista (King)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Crawford)
1828: National Republican (J. Q. Adams)
1832: National Republican (Clay)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Whig (Clay)
1848: Whig (Taylor)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Democratico Sudista (Breckinridge)
1864: Democratico (McClellan)
1868: Democratico (Seymour)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Repubblicano (Hoover)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
District of Columbia
Capitale: Washington.
Il District of Columbia elegge i suoi tre delegati a partire dalle votazioni del 1964.
Risultati delle elezioni presidenziali
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Democratico (McGovern)
1976: Democratico (Carter)
1980: Democratico (Carter)
1984: Democratico (Mondale)
1988: Democratico (Dukakis)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
Florida
Capitale: Tallahassee.
Risultati delle Elezioni presidenziali
1848: Whig (Taylor)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Democratico Sudista (Breckinridge)
1864: Guerra civile
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Democratico (Cox)
1924: Democratico (Davis)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Georgia
Capitale: Atlanta.
Risultati delle elezioni presidenziali
1789: (George Washington)
1792: (George Washington)
1796: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1800: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Democratico-Repubblicano (Madison)
1812: Democratico-Repubblicano (Madison)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Crawford)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Whig (Harrison)
1840: Whig (Harrison)
1844: Democratico (Polk)
1848: Whig (Taylor)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Democratico Sudista (Breckinridge)
1864: Guerra civile
1868: Democratico (Seymour)
1872: Democratico (Greeley)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Democratico (Cox)
1924: Democratico (Davis)
1928: Democratico (Smith)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Democratico (Stevenson)
1956: Democratico (Stevenson)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Repubblicano (Goldwater)
1968: Indipendente (Wallace)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Democratico (Carter)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Democratico (Biden)
Hawaii
Capitale: Honolulu.
Risultati delle elezioni presidenziali
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Democratico (Carter)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Democratico (Dukakis)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
Idaho
Capitale: Boise.
I risultati della elezioni presidenziali
1892: Populista (Weaver)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Rapubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Illinois
Capitale: Springfield.
Risultati delle elezioni presidenziali
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Jackson)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Democratico (Van Buren)
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F.D. Roosevelt)
1936: Democratico (F.D. Roosevelt)
1940: Democratico (F.D. Roosevelt)
1944: Democratico (F.D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
Indiana
Capitale: Indianapolis.
Risultati delle elezioni presidenziali
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Jackson)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Whig (W. Harrison)
1840: Democratico (Van Buren)
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F.D. Roosevelt)
1936: Democratico (F.D. Roosevelt)
1940: Repubblicano (Willkie)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Democratico (Obama)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Iowa
Capitale: Des Moines.
Risultati delle elezioni presidenziali
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Repubblicano (Fremont)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Repubblicano (Willkie)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Democratico (Dukakis)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano(Trump)
Kansas
Capitale: Topeka.
Risultati della elezioni presidenziali
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Populista (Weaver)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Repubblicano (Willkie)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Kentucky
Capitale: Frankfort.
Risultati delle elezioni presidenziali
1792: (George Washington)
1796: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1800: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Democratico-Repubblicano (Madison)
1812: Democratico-Repubblicano (Madison)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Clay)
1828: Democratico (Jackson)
1832: National Republican (Clay)
1836: Whig (W. Harrison)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Whig (Clay)
1848: Whig (Taylor)
1852: Whig (Scott)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Costitutional Union (Bell)
1864: Democratico (McClellan)
1868: Democratico (Seymour)
1872: Democratico (Greeley)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Democratico (Cox)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Democratico (Stevenson)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Louisiana
Capitale: Baton Rouge.
Risultati delle elezioni presidenziali
1812: Democratico-Repubblicano (Madison)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Jackson)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Democratico (Polk)
1848: Whig (Taylor)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Democratico sudista (Breckinridge)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Democratico (Seymour)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Democratico (Cox)
1924: Democratico (Davis)
1928: Democratico (Smith)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Dixiecrat (Thurmond)
1952: Democratico (Stevenson)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Repubblicano (Goldwater)
1968: Wallace (Indipendente)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Maine
Capitale: Augusta.
Risultati delle elezioni presidenziali (con la nota premessa)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (J.Q. Adams)
1828: National Republican (J.Q. Adams)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Repubblicano (Fremont)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (B. Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Repubblicano (Hoover)
1936: Repubblicano (Landon)
1940: Repubblicano (Willkie)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratici tre Grandi Elettori (Hillary Clinton)
Repubblicano uno (Trump)
2020: Democratici tre Grandi Elettori (Biden)
Repubblicano uno (Trump)
Maryland
Capitale: Annapolis.
Risultati delle elezioni presidenziali
1788/1789: (George Washington)
1792: (George Washington)
1796: Federalista (J. Adams)
1800: (Jefferson)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Democratico-Repubblicano (Madison)
1812: Democratico-Repubblicano (Madison)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Jackson)
1828: National Republican (J. Q. Adams)
1832: National Republican (Clay)
1836: Whig (W. Harrison)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Whig (Clay)
1848: Whig (Taylor)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Know Nothing (Fillmore)
1860: Democratico Sudista (Breckiridge)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Democratico (Seymour)
1872: Democratico (Greeley)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Democratico (Carter)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
Massachusetts
Capitale: Boston.
Risultati delle elezioni presidenziali
1788/1789: (George Washington)
1792: (George Washington)
1796: Federalista (J. Adams)
1800: Federalista (J. Adams)
1804: Democratic-Repubblicano (Jefferson)
1808: Federalista (C. C. Pinckney)
1812: Federalista (D. Clinton)
1816: Federalista (King)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (J. Q. Adams)
1828: National Republican (J. Q. Adams)
1832: National Republican (Clay)
1836: Whig (W. Harrison)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Whig (Clay)
1848: Whig (Taylor)
1852: Whig (Scott)
1856: Repubblicano (Fremont)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Repubblicano (Taft)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Democratico (Smith)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Democratico (McGovern)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Democratico (Dukakis)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
Michigan
Capitale: Lansing.
Risultati delle elezioni presidenziali
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Repubblicano (Fremont)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Grant)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Progressive (T. Roosevelt)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Repubblicano (Willkie)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Democratico (Biden)
Minnesota
Capitale: Saint Paul.
Risultati delle elezioni presidenziali
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Progressive (T. Roosevelt)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Democratico (Carter)
1984: Democratico (Mondale)
1988: Democratico (Dukakis)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
Mississippi
Capitale: Jackson.
Risultati delle elezioni presidenziali
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Jackson)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Democratico Sudista (Breckerindge)
1864: Guerra civile
1868: /
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Democratico (Cox)
1924: Democratico (Davis)
1928: Democratico (Smith)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Dixiecrat (Thurmond)
1952: Democratico (Stevenson)
1956: Democratico (Stevenson)
1960: Unpledged electors (poi confluiti su Harry Byrd)
1964: Repubblicano (Goldwater)
1968: Indipendente (Wallace)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Missouri
Capitale: Jefferson City.
Risultati delle elezioni presidenziali
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Jackson)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Democratico (Van Buren)
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Democratico Nordista (Douglas)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Democratico (Greeley)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Democratico (Stevenson)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020.Repubblicano (Trump)
Montana
Capitale: Helena.
Risultati delle elezioni presidenziali
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Nebraska
Capitale: Lincoln.
E’ l’unico stato con un sistema monocamerale e, come ricordato all’inizio di questo capitolo. per quanto riguarda la scelta dei delegati al Collegio elettorale, come il Maine, ha un sistema diverso dal ‘Winner take all method’.
Risultati delle elezioni presidenziali
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Repubblicano (Willkie)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicani (Trump) quattro Delegati
Democratico (Biden) uno
Nevada
Capitale: Carson City .
Risultati delle elezioni presidenziali
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (B. Hayes)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Populista (Weaver)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
New Hampshire
Capitale: Concord.
Risultati delle elezioni presidenziali
1789: (George Washington)
1792: (George Washington)
1796: Federalista (J. Adams)
1800: Federalista (J. Adams)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Federalista (Pinckney)
1812: Federalista (D. Clinton)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (J. Q. Adams)
1828: National Republican (J. Q. Adams)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Democratico (Van Buren)
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Repubblicano (Fremont)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Repubblicano (Hoover)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
New Jersey
Capitale: Trenton.
Risultati delle elezioni presidenziali
1788/1789: (George Washington)
1792: (George Washington)
1796: Federalista (J. Adams)
1800: Federalista (J. Adams)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Democratico-Repubblicano (Madison)
1812: Federalista (D. Clinton)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Jackson)
1828: National Republican (Q. Adams)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Whig (W. Harrison)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Whig (Clay)
1848: Whig (Taylor)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Democratico (McClellan)
1868: Democratico (Seymour)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
New Mexico
Capitale: Santa Fe.
Risultati delle elezioni presidenziali
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
New York
Capitale: Albany.
Risultati delle elezioni presidenziali
1788/1789: (George Washington)
1792: (George Washington)
1796: Federalista (J. Adams)
1800: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Democratico-Repubblicano (Madison)
1812: Federalista (D. Clinton)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (J. Q. Adams)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Democratico (Polk)
1848: Whig (Taylor)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Repubblicano (Fremont)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Democratico (Seymour)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Democratico (Dukakis)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
North Carolina
Capitale: Raleigh.
Risultati delle elezioni presidenziali
1792: (George Washington)
1796: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1800: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Democratico-Repubblicano (Madison)
1812: Democratico-Repubblicano (Madison)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Jackson)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Whig (Clay)
1848: Whig (Taylor)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Democratico Sudista (Breckinridge)
1864: Guerra civile
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Democratico (Cox)
1924: Democratico (Davis)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Democratico (Stevenson)
1956: Democratico (Stevenson)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Democratico (Obama)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
North Dakota
Capitale: Bismarck.
Risultati delle elezioni presidenziali
1892: Populista (Weaver)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Repubblicano (Willkie)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Ohio
Capitale: Columbus.
Risultati delle elezioni presidenziali
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Democratico-Repubblicano (Madison)
1812: Democratico-Repubblicano (Madison)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Clay)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Whig (W. Harrison)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Whig (Clay)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Repubblicano (Fremont)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Oklahoma
Capitale: Oklahoma City.
Risultati delle elezioni presidenziali
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Democratico (Davis)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Oregon
Capitale: Salem.
Risultati delle elezioni presidenziali
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Democratico (Seymour)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (R. B. Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F.D. Roosevelt)
1936: Democratico (F.D. Roosevelt)
1940: Democratico (F.D. Roosevelt)
1944: Democratico (F.D. Roosevelt)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Democratico (Dukakis)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
Pennsylvania
Capitale: Harrisburg.
Risultati delle elezioni presidenziali
1788/1789: (George Washington)
1792: (George Washington)
1796: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1800: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Democratico-Repubblicano (Madison)
1812: Democratico-Repubblicano (Madison)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Jackson)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Democratico (Polk)
1848: Whig (Taylor)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Progressive (T. Roosevelt)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Democratico (Davis)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Democratico (Biden)
Rhode Island
Capitale: Providence.
Risultati delle elezioni presidenziali
1792: (George Washington)
1796: Federalista (J. Adams)
1800: Federalista (J. Adams)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Federalista (Pinckney)
1812: Federalista (D. Clinton)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Adams)
1828: National Republican (J. Q. Adams)
1832: National Republican (Clay)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Whig (Clay)
1848: Whig (Taylor)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Repubblicano (Fremont)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Democratico (Smith)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Democratico (Carter)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Democratico (Dukakis)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
South Carolina
Capitale: Columbia.
Risultati delle elezioni presidenziali
1788/1789: (George Washington)
1792: (George Washington)
1796: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1800: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Democratico-Repubblicano (Madison)
1812: Democratico-Repubblicano (Madison)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Jackson)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Nullifier (Floyd)
1836: Whig (W. Harrison)
1840: Democratico (Van Buren)
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Democratico Sudista (Breckinridge)
1864: Guerra civile
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Democratico (Cox)
1924: Democratico (Davis)
1928: Democratico (Smith)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Dixiecrat (Thurmond)
1952: Democratico (Stevenson)
1956: Democratico (Stevenson)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Repubblicano (Goldwater)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
South Dakota
Capitale: Pierre.
Risultati delle elezioni presidenziali
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Progressive (T. Roosevelt)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Repubblicano (Willkie)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Tennessee
Capitale: Nashville.
Risultati delle elezioni presidenziali
1796: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1800: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Democratico-Repubblicano (Madison)
1812: Democratico-Repubblicano (Madison)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Jakcson)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Whig (W. Harrison)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Democratico (Polk)
1848: Whig (Taylor)
1852: Whig (Scott)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Constitutional Union (Bell)
1864: Guerra civile
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Democratico (Greeley)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Hardin)
1924: Democratico (Davis)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Texas
Capitale: Austin.
Risultati delle elezioni presidenziali
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Democratico Sudista (Breckinridge)
1864: Guerra civile
1868: /
1872: Democratico
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Democratico (Cox)
1924: Democratico (Davis)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Utah
Capitale: Salt Lake City.
Risultati delle elezioni presidenziali
1896: Democratico (Bryan)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Repubblicano (Taft)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Vermont
Capitale: Montpelier.
Risultati delle elezioni presidenziali
1792: (George Washington)
1796: Federalista (J. Adams)
1800: Federalista (J. Adams)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Democratico-Repubblicano (Madison)
1812: Democratico-Repubblicano (Madison)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (J. Q. Adams)
1828: National Republican (J. Q. Adams)
1832: Anti-Massonico (Wirt)
1836: Whig (W. Harrison)
1840: Whig (W. Harrison)
1844: Whig (Clay)
1848: Whig (Taylor)
1852: Whig (Scott)
1856: Repubblicano (Fremont)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Repubblicano (Taft)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Repubblicano (Hoover)
1936: Repubblicano (Landon)
1940: Repubblicano (Willkie)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Repubblicano (Dewey)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Democratico (Clinton)
1996: Democratico (Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
Virginia
Capitale: Richmond.
Risultati delle elezioni presidenziali
1788/1789: (George Washington)
1792: (George Washington)
1796: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1800: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1804: Democratico-Repubblicano (Jefferson)
1808: Democratico-Repubblicano (Madison)
1812: Democratico-Repubblicano (Madison)
1816: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1820: Democratico-Repubblicano (Monroe)
1824: Democratico-Repubblicano (Crawford)
1828: Democratico (Jackson)
1832: Democratico (Jackson)
1836: Democratico (Van Buren)
1840: Democratico (Van Buren)
1844: Democratico (Polk)
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Constitutional Union (Bell)
1864: Guerra civile
1868: /
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Democratico (Bryan)
1904: Democratico (Parker)
1908: Democratico (Bryan)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Democratico (Cox)
1924: Democratico (Davis)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020: Democratico (Biden)
Washington
Capitale: Olympia.
Risultati delle elezioni presidenziali
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Progressive (T. Roosevelt)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Democratico (Dukakis)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Democratico (Hillary Clinton)
2020; Democratico (Biden)
West Virginia
Capitale: Charleston.
Risultati delle elezioni presidenziali
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Democratico (Tilden)
1880: Democratico (Hancock)
1884: Democratico (Cleveland)
1888: Democratico (Cleveland)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Democratico (F. D. Roosevelt)
1948: Democratico (Truman)
1952: Democratico (Stevenson)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Democratico (Kennedy)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Democratico (Humphrey)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Democratico (Carter)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Democratico (Dukakis)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020: Repubblicano (Trump)
Wisconsin
Capitale: Madison.
Risultati delle elezioni presidenziali
1848: Democratico (Cass)
1852: Democratico (Pierce)
1856: Democratico (Buchanan)
1860: Repubblicano (Lincoln)
1864: Repubblicano (Lincoln)
1868: Repubblicano (Grant)
1872: Repubblicano (Grant)
1876: Repubblicano (Hayes)
1880: Repubblicano (Garfield)
1884: Repubblicano (Blaine)
1888: Repubblicano (B. Harrison)
1892: Democratico (Cleveland)
1896: Repubblicano (McKinley)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Repubblicano (Hughes)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Progressive (La Follette)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F.D. Roosevelt)
1936: Democratico (F.D. Roosevelt)
1940: Democratico (F.D. Roosevelt)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Democratico (Carter)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Democratico (Dukakis)
1992: Democratico (B. Clinton)
1996: Democratico (B. Clinton)
2000: Democratico (Gore)
2004: Democratico (Kerry)
2008: Democratico (Obama)
2012: Democratico (Obama)
2016: Repubblicano (Trump)
2020; Democratico (Biden)
Wyoming
Capitale: Cheyenne.
Risultati delle elezioni presidenziali
1892: Repubblicano (B. Harrison)
1896: Democratico (Bryan)
1900: Repubblicano (McKinley)
1904: Repubblicano (T. Roosevelt)
1908: Repubblicano (Taft)
1912: Democratico (Wilson)
1916: Democratico (Wilson)
1920: Repubblicano (Harding)
1924: Repubblicano (Coolidge)
1928: Repubblicano (Hoover)
1932: Democratico (F. D. Roosevelt)
1936: Democratico (F. D. Roosevelt)
1940: Democratico (F. D. Roosevelt)
1944: Repubblicano (Dewey)
1948: Democratico (Truman)
1952: Repubblicano (Eisenhower)
1956: Repubblicano (Eisenhower)
1960: Repubblicano (Nixon)
1964: Democratico (Johnson)
1968: Repubblicano (Nixon)
1972: Repubblicano (Nixon)
1976: Repubblicano (Ford)
1980: Repubblicano (Reagan)
1984: Repubblicano (Reagan)
1988: Repubblicano (G. H. Bush)
1992: Repubblicano (G. H. Bush)
1996: Repubblicano (Dole)
2000: Repubblicano (G. W. Bush)
2004: Repubblicano (G. W. Bush)
2008: Repubblicano (McCain)
2012: Repubblicano (Romney)
2016: Repubblicano (Trump)
2020; Repubblicano (Trump)
Varese, 11 gennaio 2024
Inizi del 2003.
Il Corriere della sera pubblica un articolo nel quale si afferma che “l’America è isolata, il mondo non l’ama”.
E, in particolare, che “l’immagine degli Stati Uniti si è deteriorata negli ultimi quindici mesi, dopo l’11 settembre…e una nuova guerra in Iraq aumenterebbe i sentimenti antiamericani e allontanerebbe gli USA ancora di più da alcuni tradizionali alleati, anche europei…”
Queste, allora, le conclusioni di una ricerca (i cui risultati venivano anticipati dall’International Herald Tribune) condotta a larghissimo raggio dall’Istituto Pew di Washington.
Nel testo, poi, si aggiungeva che “è dai tempi del Vietnam che l’America non si sentiva così detestata.”
Ecco, il commento che scrissi nell’occasione:
“Per il vero, però – benché gli esiti della or ora ricordata rilevazione siano interessanti – non c’era bisogno alcuno di girare il mondo per scoprire quanto gli States siano detestati bastando guardare in casa propria, tra le fila dei moltissimi intellettuali della sinistra che, nell’arco, almeno, di tutto il trascorso Novecento, arrivarono a dire e scrivere tutto il male possibile a proposito degli ‘amatissimi’ Stati Uniti, della loro politica e del loro ordinamento sociale.
Riporto, ad esempio, quanto scrive in ‘La guerra di Archer’ (‘The Troubled Air’, 1951) Irwin Shaw, mettendo le parole che seguono – che, molti, all’epoca (siamo in piena ‘Caccia alle Streghe’), avrebbero sottoscritto persino con entusiasmo – in bocca al ‘rosso’ Vic Herres, uno dei protagonisti del romanzo: “Ti dirò io qualcosa sull’America. Noi siamo il popolo più pericoloso del mondo perché siamo mediocri. Mediocri, isterici e presuntuosi. Siamo peggio dei peggiori fanatici. Non possiamo accettare l’idea che qualcuno, in qualunque altra parte del mondo, possa essere più avanzato, più intelligente, meglio organizzato o più vicino alla verità di noi. Siamo pronti a distruggere cento città in una volta per fugare i nostri dubbi. Siamo portatori di rovina. Ci lecchiamo le labbra aspettando il momento in cui gli aerei decolleranno. In tutto il mondo gli uomini sputano quando sentono la parola America. Noi la chiamiamo libertà e, se necessario, gliela facciamo trangugiare come piombo bollente… Chiunque in questo Paese odia tutti gli altri… La moralità è ciò che l’oppressore impone agli oppressi per assicurarsi che i ruoli restino sempre questi.” Difficile che un nemico degli Americani possa usare parole più dure.”
Varese, 10 gennaio 2024
Il momento nel quale Abraham Lincoln entra davvero nell’agone politico e nella Storia
Contrariamente a quanto i più pensano, i celebri dibattiti in pubblico tenutisi fra Abraham Lincoln e Stephen Douglas ai quali Barack Obama, replicando a quanto proposto da John McCain, ha fatto riferimento nel 2008 non si svolsero nel corso della campagna elettorale per la Casa Bianca che vide i due contrapposti nel 1860 (e che, peraltro, contava in lizza altresì il vice Presidente all’epoca in carica John Breckinridge e il ‘quarto candidato’ John Bell) ma in occasione del loro precedente confronto datato 1858.
Nativo del Kentucky, Lincoln si era trasferito dapprima nell’Indiana e poi nell’Illinois, Stato nel quale si era distinto sia nella professione legale che quale importante uomo politico a livello locale (quattro volte parlamentare nel suo nuovo Stato, fu alla Camera dei Rappresentanti a Washington solo tra il 1847 e il 1849).
Abbandonata per qualche tempo l’attività pubblica a favore di quella professionale, si ritenne in obbligo di tornare a far sentire la propria voce dopo l’approvazione da parte del Congresso, a seguito di una sentenza emessa dalla Corte Suprema, di norme da molte parti e da lui stesso interpretate come intese ad estendere lo schiavismo in tutti gli Stati.
Lasciati non senza esitazioni i declinanti whigs tra i quali aveva militato, Lincoln approdò al pressoché neonato (era stato fondato nel 1854, soprattutt proprio per combattere la schiavitù) partito repubblicano partecipando senza successo alle elezioni per il Senato del 1855.
Avvertito il fatto di essere ancora poco noto in particolare rispetto all’allora imperante Senatore democratico Stephen Douglas, riproponendosi nel 1858, ritenne necessario colmare questo svantaggio sfidando il rivale in una serie di sette dibattiti.
La disfida, benché tenutasi di poi in località periferiche dell’Illinois (lo Stato che l’eletto avrebbe dovuto in seguito rappresentare) ma non solo, ebbe rilievo e risonanza nazionali. Un indispensabile inciso: è solo a partire dal 1913 che i Senatori nazionali USA sono eletti direttamente dal popolo; in precedenza e quindi anche nel più volte citato 1858, venivano nominati Stato per Stato dal Legislativo locale.
Per il Nostro, si decise la proposizione della candidatura da parte di una Convenzione repubblicana convocata a Springfield auspicando che nelle successive votazioni per la Camera locale gli eletti del futuro GOP risultassero in maggioranza così da investirlo del laticlavio.
E’ nel celeberrimo discorso di accettazione appunto alla Convenzione di cui si parla che Lincoln dichiara:
“Una casa divisa al suo interno non può stare in piedi.
Io ritengo che questo governo non potrà durare in eterno mezzo schiavo e mezzo libero.
Non mi aspetto uno scioglimento dell’Unione…ma mi aspetto che finisca di essere divisa.
Che diventi un tutto unico o da una parte o dall’altra”.
Per conseguenza, pur considerando lo schiavismo un male morale, sociale e politico, se eletto, la sua politica non sarebbe stata quella di abolirlo immediatamente ma di incamminarlo “sulla strada della definitiva estinzione”.
Talmente importante e ‘storica’ l’allocuzione ora riassunta che il futuro Presidente, comprendendone gli effetti, solennemente dichiara:
“Se dovessi dare un tratto di penna sui miei ricordi e cancellare la mia vita intera e mi fosse lasciata una misera e sola facoltà di scelta di ciò che volessi salvare dalla catastrofe, sceglierei questo discorso e lo lascerei al mondo senza una cancellatura”.
E siamo quindi ad esaminare il confronto al quale l’avvocato di origini kentuckyane arriva attraverso una vera e propria provocazione e al quale Stephen Douglas – che essendo certamente assai più famoso, ha tutto da perdere e poco o nulla da guadagnare in notorietà mentre vuole evitare che il rivale ne acquisti – cerca, ma non troppo, di sottrarsi.
“Accederebbe Ella ad una intesa tra lei e me, fissando il tempo lasciato a ciascuno e parlando al medesimo uditorio sulla situazione presente?
Mister Judd, che le porterà questa mia, è autorizzato a ricevere la risposta e, se Ella acconsente, a discutere le condizioni di questo accordo”, ecco il testo lincolniano al quale il Senatore in carica risponde che purtroppo ha già fissato tutte le date della sua campagna, non ne ha una libera ed è davvero sorpreso di constatare che Lincoln non abbia fatto altrettanto.
Tuttavia – concede magnanimo – se proprio lo ritiene necessario, e visto che è in giro, i confronti possono avere luogo in sette differenti località.
Il repubblicano accetta gli appuntamenti aggiungendo:
“Quanto ai dettagli, non desidero nulla più che la perfetta reciprocità.
Desidero tanto tempo quanto lei e che il diritto di concludere spetti all’uno o all’altro alternativamente”.
Che dire, se non che il futuro Presidente stava gettando le fondamenta di tutti i dibattiti politici americani di la da venire e fino ai nostri giorni?
E il primo scontro è di scena a Ottawa: il palco è di legno, all’aperto.
Douglas parla un’ora, poi Lincoln per un’ora e mezza e infine di nuovo il democratico per mezz’ora (come concordato, la volta dopo e di seguito via via, si cambierà).
Moltissimi i giornalisti presenti, migliaia gli spettatori arrivati da tutto lo Stato per assistere alla contesa della quale tutti parleranno nei giorni successivi.
Il telegrafo diffonde la notizia ovunque e una volta terminato il terzo confronto tutta l’Unione ne è al corrente e si chiede chi siano i due contendenti.
Inconciliabili: i rivali sono inconciliabili in tutto e per tutto.
Non è solamente una questione ideologica, non è esclusivamente una faccenda politica.
Sono l’uno il contrario dell’altro anche dal punto di vista fisico.
Douglas – detto dai suoi ‘il piccolo gigante’ – è veramente basso di statura, tarchiato e dal collo potente.
Ha torace e spalle quadrate, è vigoroso e nondimeno agile.
Veste molto bene con abiti di sartoria, la sua biancheria è perfetta.
I presenti notano che mentre parla spesso scuote indietro i lunghi capelli neri, appena brizzolati, con un veloce moto del capo.
Un cronista afferma che i suoi lineamenti sono mobili e che possiede un paio di occhi azzurri capaci di forte seduzione.
Peraltro, quando dovendo ascoltare tace, se ne coglie un qualche disagio forse derivante dal fatto di essere all’aria aperta: è Douglas, infatti, un cittadino…
Lincoln è alto, alto, alto: un metro e novantatre è per quei tempi (ma anche oggi, abbastanza) qualcosa di strano.
E’ ossuto e scarno con un naso particolare.
I vestiti sembra gli pendano addosso quasi fossero di qualcun altro.
Ha i piedi enormi e le mani muscolose suggeriscono sia abituato a portar pesi e magari, come per il vero è, a tagliar tronchi.
A prima vista, ci si può certo invaghire di Douglas ma è difficile che altrettanto capiti guardando Lincoln. E poi, quali i precedenti dei due?
Quali le già espresse qualità?
Non è forse il democratico uomo di mondo, conosciuto, diplomatico quale è anche stato, perfino in Europa laddove ha incontrato a suo tempo addirittura lo zar e la regina Vittoria.
Non è forse da anni in odore di Presidenza?
Non è ricco, influente, potente, seducente, galante, dominatore e chi più ne ha più ne metta?
Non viaggia solo in vagone (se non, perfino, in un treno) privato speciale e quando arriva in una qualsiasi località non spara una bordata con il cannone di bronzo che, su di un carro aperto, sempre lo accompagna?
Non lo attendono ovunque, ossequiose, le autorità per scortarlo nelle migliori camere dei migliori alberghi?
Sul palco, per primo, sicuro di sé, con la bella voce baritonale, la chiarissima pronuncia, l’espressivo gestire, i lineamenti composti, la sciolta logica, la prontezza, non incatena e incanta forse le folle?
E come inizia Lincoln il proprio intervento se non goffamente?
E’ goffo, appunto, e il rammentato cronista ci dice che sta piantato sul palco quasi fosse un tronco.
Ha la voce stridula e si torce forse di nascosto i pollici.
Ma, piano piano, si scalda e arriva a lasciarsi andare.
Muove le braccia a sottolineare i concetti e con le lunghe, ossute dita, pare voglia conficcarli fino in fondo nelle teste degli spettatori che ‘sentono’ dentro l’anima quanto egli creda in quello che pubblicamente dice.
Commuove perché si commuove.
Comincia con ampie concessioni al rivale del quale non si può dire che bene, nevvero?
E subito dopo, illustrandone ragioni e tesi ne mette a nudo le manchevolezze.
Passa all’attacco e gli esempi che propone sono quelli che potrebbero proporre gli ascoltatori: i contadini che formano la maggioranza dell’assemblea.
Lo stile è chiaro e semplice, ancora come il loro.
Dall’inizio alla fine, peraltro e per quanto l’emozione sembri tutti sopraffare, è la logica a dominare.
Douglas, intervenendo in seconda battuta, falsifica gli argomenti lincolniani ai quali non sa replicare attirandosi risposte giustamente aspre e dure.
La gente, sfollando, avrà in testa il bell’eloquio del democratico e, ammirata, penserà “Così sono i signori di Washington”.
Con il cuore, però, starà con il repubblicano dicendosi “Potessimo una volta buona avere nella capitale uno dei nostri!”.
Dopo Ottawa, ecco dove si svolsero – assai folkloristicamente, viene da dire, visto che, di volta in volta, l’una o l’altra parte si inventava qualcosa: torce fiammeggianti, carri trainati da infinite coppie di cavalli bianchi… – gli incontri seguenti: Freeport, Jonesboro (in Virginia), Charleston, Galesburg, Quincy e Alton.
Ed è proprio ad Alton che un giovane, vedendo l’oramai stanco Lincoln sul palco, scrisse:
“…si alzò dalla sedia, stirò le sue lunghe membra ossute come per rimetterle in forza e rimase eretto come un pino solitario su una vetta deserta!”
Varese, 9 gennaio 2024
I numeri relativi alle due Convention con qualche annotazione storica
Detto ancora una volta che molti sono i candidati alla Casa Bianca espressione di non pochi partiti e che, ovviamente, solo dei due movimenti politici egemoni praticamente dal 1856 (il confronto diretto inaugurale) è indispensabile occuparsi,
i Repubblicani hanno in programma la loro Convention a Milwaukee, Wisconsin, dal 15 al 18 luglio, mentre
i Democratici si riuniranno a Chicago, Illinois, dal 19 al 22 agosto.
La prima Convention democratica risale al 1832 (l’anno successivo alla ‘invenzione’ della stessa da parte del Partito Antimassonico).
Guardando al periodo trascorso, dovrebbe essere la quarantanovesima ma nel 1860, per i contrasti interni, se ne tennero due ed è pertanto la cinquantesima.
Fondato nel 1854, il Partito Repubblicano si riunì per la bisogna seguendo l’oramai diffuso esempio nel 1856 e quindi sarà convocato per ufficializzare l’investitura per la quarantatreesima volta.
Il candidato democratico d’allora fu l’incumbent e confermato Andrew Jackson.
Il repubblicano, John Fremont, nella circostanza sconfitto.
Varese, 8 gennaio 2024
Jefferson Davis
La scelta di definirsi ‘Confederazione’ da parte degli undici Stati del Sud che tra il 1860 e il 1861 si distaccarono dall’Unione non era affatto casuale.
Il vocabolo era stato scelto per sottolineare l’argomento giuridico utilizzato per giustificare la secessione.
Al Congresso, al Senato, sul tema si era in particolar modo esercitato il futuro Presidente appunto della Confederazione Jefferson Davis nei tempi che avevano preceduto l’atto formale da parte degli undici Stati.
(Ricordo per inciso che Alabama, Florida, Georgia, Louisiana, Mississippi, South Carolina e Texas avevano deciso l’abbandono negli ultimi mesi del 1860 dopo l’elezione di Lincoln, mentre Arkansas, North Carolina, Tennessee e Virginia lo fecero nell’aprile del 1861).
I sudisti avevano sostenuto che in base alla Costituzione ciascuno Stato dell’Unione dovesse avere la più ampia libertà in tema di politica interna, inclusa quella di secedere e cioè di porre termine a un rapporto che aveva avuto inizio in quanto liberamente accettato dalle parti in causa e che non poteva continuare quando le ragioni di solidarietà fossero venute meno.
Da sottolineare che Jefferson Davis a guerra finita e pur vivendo fino al 1889 non fu mai processato per evitare che su questo delicato tema ci si addentrasse seriamente non essendo in ipotesi le idee sudiste in merito campate per aria.
Varese, 7 gennaio 2024
Pony Express vs telegrafo
Viene fondato e messo in atto – da privati con un necessario sussidio governativo – nel mese di aprile del 1860, il mitico e mitizzato servizio postale a cavallo noto come Pony Express.
Collegava in soli dieci giorni percorrendo tremilacentosessantaquattro chilometri a spron battuto (v’è da dirlo) St. Joseph (Missouri) con Sacramento (California).
Più facile superare le praterie centrali che non seguire il tortuoso cammino attraverso gli Stati a meridione utilizzato dalle diligenze.
Il periodo d’oro (che in verità non fu mai economicamente tale) dell’impresa, durò soltanto diciotto mesi perché il 22 ottobre del 1861 fu completata la linea telegrafica transcontinentale, che permetteva di trasmettere notizie dovunque in pochi secondi.
Un anno e mezzo di duro (e deludente) lavoro che, grazie alla letteratura prima e a cinema e fumetti poi, garantirà l’accesso e la permanenza nella leggenda di quegli ignari e ignoti cavallerizzi e dei loro destrieri.
Varese, 6 gennaio 2024
Il prossimo 8 febbraio la Corte Suprema USA esaminerà la questione della ineleggibilità di Donald Trump
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha accettato venerdì di affrontare la questione dell’ineleggibilità di Donald Trump, dopo che lo Stato del Colorado aveva escluso l’ex presidente alle primarie in base al 14esimo emendamento. Lo scorso mercoledì, il 77enne aveva chiesto al più alto organo della magistratura federale, di pronunciarsi sul suo caso. Il repubblicano, a due settimane dai primo caucus in Iowa, stacca tutti i suoi rivali nei sondaggi.
La Corte, a maggioranza conservatrice, esaminerà il contenzioso in un’udienza prevista l’8 febbraio.
Fino al suo verdetto, le schede elettorali dovranno comunque includere il nome di Trump sia in Colorado che nel Maine, altro Stato che ha deciso per l’esclusione.
Varese, 5 gennaio 2024
Il Collegio elettorale
A proposito degli Elettori
(‘Electors’, iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni visto che loro effettivo compito è quello di eleggere il Presidente)
Quali sono i requisiti per essere un elettore?
La Costituzione degli Stati Uniti contiene pochissime disposizioni relative alle qualifiche degli Elettori.
L’articolo II, sezione 1, clausola 2 stabilisce che nessun Senatore o Rappresentante, o persona che ricopra una carica elettorale negli o sia un funzionario federale degli Stati Uniti, potrà essere nominato Elettore.
Dal punto di vista storico, il Quattordicesimo Emendamento prevede che i funzionari statali che si siano impegnati in un’insurrezione o ribellione contro gli Stati Uniti o abbiano fornito aiuto e conforto ai loro nemici vengano privati del diritto di elettorato passivo.
Questo divieto si riferisce al periodo successivo alla Guerra Civile.
I certificati di accertamento di ciascuno Stato confermano i nomi degli Elettori nominati.
La certificazione dei propri Elettori da parte di uno Stato è generalmente sufficiente per stabilire le qualifiche degli stessi.
Chi seleziona gli Elettori?
La scelta degli Elettori di ciascuno Stato è un processo in due parti.
Innanzitutto, i partiti politici locali scelgono le liste dei potenziali Elettori prima delle elezioni generali.
In secondo luogo, durante le elezioni generali, gli elettori (iniziale minuscola) di ciascuno Stato selezionano gli Elettori spettanti mediante votazione.
La prima parte del processo è controllata dai partiti politici locali e varia da Stato a Stato.
Generalmente, i partiti nominano liste di potenziali Elettori durante i congressi del partito statale oppure li scelgono tramite un voto del Comitato Centrale del partito.
Ciò avviene in ogni realtà per ciascuna parte in base alle regole che lo Stato e (a volte) il partito nazionale hanno per il processo.
Questa prima fase fa sì che ogni candidato presidenziale abbia la propria lista unica di potenziali Elettori.
I partiti politici spesso scelgono le persone da inserire nella lista per riconoscere il loro servizio e la loro dedizione al movimento stesso.
Possono essere funzionari eletti dallo Stato, leader locali o persone che hanno un’affiliazione personale o politica con il candidato presidenziale del proprio partito.
(Per informazioni specifiche su come vengono scelte le liste dei potenziali Elettori, è possibile contattare i partiti politici).
La seconda parte del processo avviene durante le elezioni generali.
Quando gli elettori di ciascuno Stato votano per il candidato presidenziale di loro scelta, votano per selezionare gli Elettori del proprio Stato.
I nomi dei potenziali Elettori possono o meno comparire nella scheda elettorale sotto quello dei candidati presidenziali, a seconda delle procedure elettorali e del formato delle votazioni in ciascuno Stato.
La lista dei potenziali Elettori del candidato presidenziale vincitore viene totalmente nominata come Collegio dello Stato, ad eccezione del Nebraska e del Maine, che hanno una distribuzione proporzionale.
In Nebraska e Maine, il vincitore statale riceve due Elettori e quello di ciascun Distretto Congressuale (che può essere lo stesso vincitore assoluto o un candidato diverso) riceve un Elettore.
Questo sistema consente al Nebraska e al Maine di assegnare Elettori a più di un candidato.
Gli Elettori possono votare due volte per il Presidente?
Gli Elettori non votano due volte per il Presidente.
Quando votano alle elezioni generali di novembre, non sono ancora Elettori; votano per se stessi per diventarlo.
Sono gli unici a pronunciarsi effettivamente per il Presidente, cosa che fanno durante l’assemblea del Collegio che formano (il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre).
Ci sono restrizioni su chi possono votare gli Elettori?
Non esiste alcuna disposizione costituzionale o legge federale che imponga agli Elettori di votare in base ai risultati del voto popolare nel loro Stato.
Alcuni Stati, tuttavia, richiedono agli Elettori di esprimere il proprio voto in base al suffragio popolare.
Questi impegni rientrano in due categorie: gli Elettori vincolati dalla legge statale e quelli vincolati da impegni nei confronti dei partiti politici.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha affermato che la Costituzione non richiede che gli Elettori siano completamente liberi di agire come scelgono e pertanto i partiti politici possono imporre agli Elettori di votare per i candidati dei partiti.
Alcune leggi statali prevedono che i cosiddetti ‘Elettori infedeli’ possano essere soggetti a multe o possano essere squalificati per aver espresso un voto non valido ed essere sostituiti da un Elettore sostituto.
La Corte Suprema ha deciso (nel 2020) che gli Stati possono emanare requisiti sul modo in cui votano gli Elettori.
Nessun Elettore è mai stato perseguito per non aver votato come promesso. Tuttavia, nel 2016 diversi Elettori sono stati squalificati e sostituiti, mentre altri sono stati multati per non aver votato secondo il mandato.
È raro che gli Elettori ignorino il suffragio popolare esprimendo il proprio voto elettorale per qualcuno diverso dal candidato del proprio partito.
Gli Elettori, come accennato, generalmente ricoprono una posizione di leadership nel loro partito o sono stati scelti per riconoscere anni di leale servizio al partito.
Nel corso della storia USA come nazione, oltre il novantanove per cento degli Elettori ha votato secondo gli impegni presi.
L’Associazione Nazionale dei Segretari di Stato (NASS) ha redatto un breve riassunto delle leggi statali sulle varie procedure, che variano da Stato a Stato, per la selezione delle liste dei potenziali Elettori e per lo svolgimento dell’assemblea degli Elettori.
Se gli Elettori votano per il Presidente, perché dovrebbe il cittadino votare alle elezioni generali?
Durante le elezioni generali il voto popolare aiuta a determinare gli Elettori dello Stato.
Quando si vota per un candidato presidenziale, in realtà non si sta votando per il Presidente.
Si sta dicendo al proprio Stato per quale candidato si vuole che lo Stato medesimo voti all’assemblea (Collegio) degli Elettori.
Gli Stati utilizzano i risultati delle elezioni generali (noti appunto come voto popolare) per nominare i propri Elettori.
Il partito politico statale del candidato vincitore, si ripete, seleziona gli individui che saranno Elettori.
…un processo, non un luogo
L’Ufficio del Registro Federale (OFR) fa parte della National Archives and Records Administration (NARA) e, per conto dell’Archivista degli Stati Uniti, coordina alcune funzioni del Collegio Elettorale tra gli Stati e il Congresso.
Non ha alcun ruolo nella nomina degli Elettori e non ha alcun contatto con loro.
Varese, 5 gennaio 2024
Azioni contro Donald Trump anche in Illinois e Massachusetts
Gruppi di elettori dell’Illinois e del Massachusetts hanno presentato giovedì mozioni tese a rimuovere Donald Trump dalla scheda elettorale del 2024, aggiungendosi così all’elenco degli Stati in cui l’ex presidente deve affrontare una sfida alla sua candidatura in base al contenuto del XIV emendamento della Costituzione americana.
Quest’ultimo proibisce a chiunque di ricoprire una carica se in precedenza ha giurato di difendere la Costituzione e poi ha “intrapreso un’insurrezione o una ribellione” contro il Paese o ha dato “aiuto o conforto” ai suoi nemici.
Una petizione presentata giovedì da cinque elettori mira ad escludere l’ex presidente Donald Trump dalla scheda elettorale delle primarie repubblicane dell’Illinois che si terranno a marzo, sostenendo che non è idoneo a ricoprire la carica perché ha incoraggiato e fatto poco per fermare l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021.
Il documento di 87 pagine dell’Illinois, firmato da cinque persone provenienti da tutto lo Stato, sostiene che Trump, dopo aver perso le elezioni del 2020 a favore del democratico Joe Biden, ha fomentato i sostenitori più accaniti che hanno attaccato il Campidoglio il giorno in cui il Congresso ha certificato i risultati delle elezioni.
La rivolta ha provocato cinque morti e più di cento feriti.
Un altro gruppo di sostenitori ha presentato giovedì un ricorso contro l’ammissibilità di Trump a comparire sulle schede elettorali anche nel Massachusetts e questo sia per le primarie, sia per le elezioni presidenziali nello Stato.
Tra i firmatari della mozione figurano l’ex sindaco di Boston Kim Janey, un democratico, e “un mix di elettori repubblicani, indipendenti e democratici”, sottolinea il portavoce del gruppo.
Le petizioni in questione sono simili a quelle presentate da cittadini americani in oltre una dozzina di altri Stati: tutte si basano sul mancato rispetto del XIV emendamento della Costituzione.
Queste sfide si delineano per l’ex presidente repubblicano poco prima che la Corte Suprema degli Stati Uniti esamini la sentenza del massimo tribunale statale del Colorado, secondo la quale Donald Trump non è idoneo a candidarsi.
La sentenza del Colorado ha valore soltanto per quello Stato.
Varese, 4 gennaio 2024
Trump ricorre alla Corte Suprema contro la decisione presa dal Colorado
da RSI
L’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha chiesto mercoledì alla Corte Suprema degli Stati Uniti di ribaltare una decisione della più alta Corte del Colorado, che lo ha dichiarato ineleggibile alla presidenza a causa delle sue azioni durante l’assalto al Campidoglio.
Anche un secondo Stato, il Maine, ha stabilito che il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali di novembre non è “idoneo a diventare presidente” a causa dell’attacco al Campidoglio del 2021 da parte dei sostenitori di Trump che contestavano l’elezione del democratico Joe Biden.
L’esponente repubblicano ha già presentato ricorso contro la decisione del Maine e, appunto, mercoledì i suoi avvocati hanno chiesto alla Corte Suprema degli Stati Uniti – tre dei cui nove giudici sono stati nominati dallo stesso Trump – di esaminare il caso del Colorado e di ribaltare la decisione della Corte Suprema di questo Stato.
A loro avviso, la decisione, se confermata, “segnerà la prima volta nella storia degli Stati Uniti che il sistema giudiziario ha impedito agli elettori di dare il loro voto al principale candidato presidenziale di un grande partito. La questione dell’eleggibilità alla presidenza degli Stati Uniti è propriamente riservata al Congresso – e non ai tribunali statali – per essere esaminata e decisa”, hanno aggiunto.
Le decisioni prese nel Maine e in Colorado si basavano sul XIV emendamento della Costituzione degli Stati Uniti che esclude da ruoli pubblici chiunque compia atti di “ribellione” o “insurrezione” dopo aver giurato di difendere la Costituzione.
Il 6 gennaio 2021, centinaia di sostenitori di Donald Trump hanno preso violentemente d’assalto il Campidoglio, il santuario della democrazia americana, nel tentativo di impedire la certificazione della vittoria del suo avversario Joe Biden.
Donald Trump e i suoi più ferventi sostenitori stanno ancora contestando, senza prove, i risultati delle elezioni del 2020.
Varese, 4 gennaio 2023
Il Caucus dell’Iowa
Confronto tra partiti politici che si svolge nello Stato dell’Iowa per selezionare i candidati alla Presidenza degli Stati Uniti
testo rivisitato da Mauro della Porta Raffo
Tradizionalmente il primo dei confronti per la Nomination, il Caucus dell’Iowa è considerato un importante indicatore del probabile successo di un candidato.
A partire dal 1976, quando l’ex Governatore della Georgia Jimmy Carter colaggiù vinse e salì alla ribalta nazionale conquistando la Nomination presidenziale democratica e poi la Casa Bianca ai danni del repubblicano Gerald Ford, gli aspiranti a White House, i media e gli elettori hanno spesso visto l’Iowa delineare il campo con le Primarie del New Hampshire che tradizionalmente lo seguono.
Nel 2023 il Comitato Nazionale Democratico (CND) ha votato per sostituire l’Iowa con la Carolina del Sud come prima tappa del processo di nomina del partito per le elezioni presidenziali del 2024 mentre per i repubblicani il Caucus in questione ha mantenuto lo status di primo della nazione.
Caucus e Primarie
Nei Caucus, i sostenitori dei partiti si riuniscono per decidere chi appoggiare.
Nel sistema di Nomination presidenziale degli Stati Uniti, i Caucus sono riunioni di partito locali in cui vengono selezionati i delegati che andranno alle Convention di Contea, di Distretto e di Stato che determinano i delegati che il partito statale invia alla Convention nazionale e quindi, indirettamente, i candidati presidenziali che lo Stato sostiene.
Oggi la maggior parte delle organizzazioni territoriali opta per le Primarie anziché Caucus.
Queste, a differenza dei Caucus, sono gestite da funzionari elettorali statali e non da funzionari di partito.
Nelle Primarie, ogni membro dei movimenti politici (e talvolta anche chi non ne fa parte) può presentarsi ai seggi elettorali proprio come nelle elezioni generali.
Le riforme del Partito Democratico dei primi anni Settanta, seguite in genere dai repubblicani negli anni successivi, hanno posto limiti severi ai Caucus presidenziali, indirizzando sempre più Stati verso il metodo delle elezioni Primarie per la selezione dei delegati alla Convention nazionale.
Storia dei Caucus dell’Iowa
L’Iowa, tuttavia, è fedele alla sua tradizione dei Caucus e al suo tradizionale status di primo della nazione.
Sin dal suo ingresso nell’Unione nel 1846, lo Stato ha sempre utilizzato il sistema del Caucus-to-Convention per le sue decisioni di nomina presidenziale, con l’eccezione del 1916, quando tenne una sfortunata Primaria presidenziale.
Lo Stato utilizza le Primarie per selezionare tutti gli altri livelli di candidati, ad eccezione dei posti di Giudice.
Nel 1972 il locale Partito Democratico spostò i suoi Caucus circoscrizionali al 24 gennaio, per consentire ai democratici di adattarsi meglio al complicato processo di nomina dell’Iowa e di essere più accessibili agli elettori.
In questo modo i Caucus dell’Iowa precedettero le Primarie del New Hampshire, rendendo l’Iowa la sede della prima competizione del Paese nella campagna presidenziale.
Dopo aver visto come il secondo posto del Senatore del South Dakota George McGovern nei Caucus dell’Iowa del 1972 lo avesse spinto verso la Nomination, Carter comprese il valore che una vittoria anticipata avrebbe potuto fornire nel ciclo elettorale successivo.
Organizzò la propria campagna elettorale puntando ad un buon risultato in Iowa e la strategia diede i suoi frutti.
Sostenuto dai media, la vittoria lo aiutò a conquistare la Nomination e la Casa Bianca.
Da parte repubblicana, l’ex direttore della CIA George H.W. Bush ha a sua volta replicato l’approccio di Carter incentrato sull’Iowa nel ciclo presidenziale del 1980.
Sconfiggendo il favoritissimo per la Nomination, l’ex Governatore della California Ronald Reagan, nello Stato, Bush cavalcò lo slancio fino alla competizione successiva e alla fine ottenne un risultato che spinse Reagan a concedergli la candidatura alla Vicepresidenza nel ticket.
Anche nel 1984 i Caucus dell’Iowa svolsero un ruolo politico sproporzionato rispetto ai delegati assegnati.
L’ex Vicepresidente Walter Mondale batté decisamente gli altri democratici nello Stato.
I media ritennero che il Senatore John Glenn (Ohio) fosse stato gravemente leso dalla sconfitta subita e che il secondo posto del Senatore Gary Hart (Colorado) lo avesse invece catapultato nella posizione di sfidante e gli avesse fatto guadagnare un seguito nazionale successivamente disciolto.
Nel 1988, il Vicepresidente repubblicano George H.W. Bush fu strabattuto nei Caucus, finendo terzo dietro al Senatore Bob Dole (Kansas) e al predicatore religioso Pat Robertson.
Tuttavia, Bush rimediò all’inciampo sconfiggendo poco dopo Dole nel New Hampshire e ottenendo infine Nomination e Presidenza.
La corsa presidenziale del 1992 in Iowa fu resa pressoché irrilevante, con il Presidente Bush in carica che cercava la rielezione da parte repubblicana e la candidatura del popolare ‘favorite son’, il Senatore Tom Harkin (Iowa), che aveva influenzato i voti da parte democratica.
Ma nel 1996 i Caucus tornarono alla ribalta, con Dole che a sua volta riuscì a battere un agguerrito gruppo di avversari repubblicani e ad avviarsi verso la Nomination.
I Caucus del 2000 hanno alimentato l’ascesa del candidato democratico, il Vicepresidente ancora in carica (fino al 20 gennaio 2001) Al Gore, e quella del vincitore finale delle elezioni, il repubblicano George W. Bush.
Nel 2004 l’Iowa ha incoronato di nuovo un candidato democratico: il Senatore John Kerry (Massachusetts), con l’aria di eleggibilità propria di un eroe di guerra, ha superato nei Caucus il front-runner ed ex Governatore del Vermont Howard Dean e ha cavalcato la corrente fino alla Nomination democratica.
I Caucus del 2008 hanno visto il Senatore Barack Obama (Illinois) prevalere sulla probabile candidata Senatrice Hillary Clinton (New York) e sull’ex Senatore John Edwards (North Carolina), tracciando un percorso verso la Nomination e la vittoria finale sul rivale, il Senatore repubblicano John McCain (Arizona).
Lo stesso McCain aveva fatto una brutta figura in Iowa, dove l’ex Governatore dell’Arkansas Mike Huckabee si era effimeramente imposto come figura nazionale.
Nel 2012 l’ex Senatore Rick Santorum (Pennsylvania) ha vinto con un leggero vantaggio sul candidato repubblicano, l’ex Governatore del Massachusetts Mitt Romney.
Romney ha poi perso le elezioni generali a favore dell’incumbent Obama, che non ha avuto rivali nei Caucus democratici.
Nel 2016 il Senatore Ted Cruz (Texas) vinse comodamente il Caucus repubblicano, sconfiggendo Donald Trump, dipoi candidato e vincitore delle elezioni, mentre Hillary Clinton si piazzò appena davanti al Senatore Bernie Sanders (Vermont).
I risultati del Caucus democratico del 2020 sono stati ritardati da problemi tecnici, errori di conteggio e altri fallimenti che hanno portato a quello che un giornalista dell’Associated Press ha definito “un disastro di proporzioni epiche”.
Pete Buttigieg, ex Sindaco di South Bend, Indiana, è stato alla fine identificato come il vincitore, sconfiggendo di poco Sanders.
Joe Biden, che ha poi vinto le elezioni generali come candidato dei Democratici, è arrivato addirittura quarto.
Trump si è affermato nel Caucus repubblicano, praticamente incontrastato.
In risposta ai problemi verificatisi durante il Caucus del 2020, il Comitato Nazionale Democratico ha iniziato una valutazione del calendario delle candidature che si è conclusa all’inizio del 2023, quando ha votato per sostituire il Caucus dell’Iowa con un’elezione Primaria in South Carolina nel febbraio 2024, che sarebbe stata seguita da Primarie in Nevada, New Hampshire, Georgia e Michigan.
“Questo calendario fa ciò che era atteso da tempo”, ha dichiarato il Presidente della DNC prima del voto.
“Espande il numero di voci nella finestra iniziale e valorizza le diverse comunità che sono al centro del partito”.
I repubblicani dell’Iowa hanno di contro fissato il loro primo Caucus nazionale al 15 gennaio 2024.
Varese, 3 gennaio 2024
L’unico vero sopravvissuto a Little Big Horn
La battaglia di Little Big Horn (25 giugno 1876) ha avuto da subito una vastissima eco nell’immaginario americano tanto che perfino il cavallo montato nell’occasione dal capitano Myles Keogh (si chiamava Comanche) diventò famosissimo.
Unico vero sopravvissuto allo scontro, non solo Comanche arrivò ad essere la mascotte del reggimento ma a lui furono dedicati almeno tre saggi, un gran numero di poesie, racconti e dipinti.
Il 10 aprile 1878 – meno di due anni dopo la sconfitta di Custer – un colonnello emanò un ordine nel quale si conferiva uno status ufficiale al cavallo che, da quel momento, doveva “godere di un trattamento gentile e premuroso da parte del settimo Cavalleria affinché la sua vita potesse essere prolungata ai limiti estremi.”
Da allora, Comanche condusse un’esistenza assolutamente dissoluta che si protrasse fino alla morte, sopraggiunta quando aveva ventinove anni.
Abituato ad un pastone di crusca allagato di whisky, diventò un ubriacone e un seccatore.
Si faceva vedere davanti allo spaccio del forte che lo ospitava per elemosinare una birra dai soldati e quando non dormiva se ne andava in giro rovesciando i bidoni della spazzatura e calpestando aiole e giardini.
Dopo la morte, venne imbalsamato e finì con il diventare una delle massime attrazioni del Museo di Storia dell’Università del Kansas non senza che molti altri Stati ne rivendicassero le spoglie: il Montana perché lì si trovava Fort Keogh, così chiamato in onore del suo cavaliere morto in battaglia; il Nord Dakota perché Comanche era partito per la sua ultima missione da un fortino colà situato; il Sud Dakota perché il destriero aveva soggiornato anche entro i suoi confini e così via.
Varese, 1 gennaio 2024
USA 2024
Calendario elettorale e introduzione al tema
Il calendario elettorale dell’anno nel quale avranno luogo le sessantesime Elezioni americane prevede – al termine del tradizionale articolato momento di confronto interno ai due partiti egemoni (a proposito degli altri mette poco conto argomentare) tramite Caucus e Primarie – lo svolgimento della Convention repubblicana a
Milwaukee dal 15 al 18 luglio e di quella democratica a Chicago dal 19 al 22 agosto.
I seggi saranno aperti martedì 5 novembre e il Collegio Elettorale procederà alla effettiva nomina lunedì 16 dicembre.
La successiva ratifica congressuale è in programma il 6 gennaio 2025 e l’Insediamento avrà luogo due settimane dopo, il 20 del primo mese dell’anno a mezzogiorno.
L’elezione del Presidente degli Stati Uniti d’America non è diretta – ad opera cioè del popolo degli aventi diritto al suffragio – ma di secondo grado.
Gli elettori comuni (e pertanto scritti con l’iniziale minuscola, i quali pur avendo a diciotto anni diritto al voto devono per esercitarlo iscriversi alle liste elettorali) – fatto salvo il discusso, assai contestato, suffragio postale anticipato, in molti Stati concesso e vieppiù importante – sono chiamati dalla tornata del 1848 a scegliere gli Elettori delegati (iniziale maiuscola identificativa perché hanno il compito di eleggere effettivamente il Presidente, distribuiti in proporzione al numero degli abitanti locali quale risulta dal Censimento decennale, effettuato per la prima volta nel 1790 – l’ultimo nel 2020 – e comunque pari nella consistenza al totale dei Congressisti ai quali lo Stato ha diritto, attribuiti, con l’eccezione del Maine e del Nebraska essendo in materia la competenza statale, con il winner takes all method per il quale il candidato che prevale per voti popolari conquista tutti i Delegati in palio) il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre (mese ritenuto meno pesante quanto all’impegno lavorativo in una società allora dedita principalmente all’agricoltura e all’allevamento – non semplicemente il primo martedì per evitare la coincidenza con la festività di Ognissanti essendo all’epoca della determinazione la religione decisiva, ragione per la quale non si vota la domenica riservata al
Signore e lasciando il lunedì a disposizione per il trasferimento nei luoghi nei quali erano a quel tempo i non diffusissimi seggi… – nel 2024, da sottolineare, per la sessantesima volta risalendo la prima al 1788/89, pertanto, il giorno 5 del penultimo mese annuale).
Gli Elettori (iniziale maiuscola, si ripete), componenti il Collegio appunto Elettorale, riuniti per Delegazione nella capitale dello Stato di rispettiva appartenenza, provvedono quindi alla bisogna il primo lunedì dopo il secondo mercoledì del dicembre seguente (e pertanto nel 2024 il giorno 16 del mese conclusivo dell’anno).
Essendo dalle votazioni del 1964 cinquecentotrentotto i suddetti (cresciuta la loro consistenza con l’aumentare del numero dei membri dell’Unione risultando la prima volta sessantanove), la maggioranza assoluta degli stessi è pari a duecentosettanta.
I verbali delle singole riunioni statali vengono inviati al rinnovato (anch’esso, il predetto primo martedì dopo il primo lunedì del penultimo mese dell’anno) Congresso che deve ratificare il risultato il 6 gennaio successivo.
L’Insediamento del Capo dello Stato avviene poi due settimane dopo, il 20, con una cerimonia che inizia a mezzogiorno nel corso della quale l’eletto giura nelle mani del Chief della Corte Suprema.
A questo proposito – ricordato che George Washington in modo anomalo si insediò il 30 aprile 1789 e che a ricevere il suo impegno non fu il Presidente della Corte perché il consesso non esisteva ancora – dal 1793, anno seguente la seconda chiamata alle urne, al 1933 compreso successivo alla prima vittoria di Franklin Delano Roosevelt, la solennità aveva svolgimento più avanti il 4 marzo a celebrare il giorno nel quale nel 1789 era entrata in vigore la Costituzione).
Ovviamente, l’Insediamento e il giuramento del Vicepresidente succeduto in carica hanno luogo secondo necessità.
Va qui rammentato che fino al 1844 incluso i seggi non erano (teoricamente, considerato il continuo incremento del voto per corrispondenza) aperti un solo giorno articolandosi l’operazione per più tempo, all’incirca un mese.
Così anche che è possibile (accadde nel 1824) che nessun candidato conquisti la maggioranza dei Delegati e che la competenza in materia di effettiva elezione passi alla Camera dei Rappresentanti, laddove, nei successivi ballottaggi, il peso degli Stati è pari a uno votandosi per Delegazione cosa che fa sì che, per dire, la California, il più popolato Territorio, e il Wyoming, il meno abitato, contino ugualmente.
Nel caso in cui (nel 1836 fu così) a mancare la maggioranza sia il Vicepresidente la nomina spetta al Senato dove ogni singolo membro si esprime liberamente
Si è naturalmente fatto cenno ai candidati dei partiti in competizione (dal 1856, avendo effettiva voce in capitolo fra i molti comunque marginalmente presenti, si confrontano il Democratico e il Repubblicano, il primo sostanzialmente in corsa dal 1828 e il secondo, fondato nel 1854, quell’anno esordiente) la cui selezione avviene con un meccanismo che si è andato formando nel tempo ed è, oggi non solo da oggi, articolato tra Caucus, Primarie e Convention.
Al termine del percorso che chiama al voto gli elettori (in altri tempi la nomenclatura aveva decisamente molto maggior se non esclusivo peso), in sede di Convention (sostanzialmente, il congresso del movimento) si addiviene alla Nomination, l’investitura ufficiale.
Con il candidato alla Presidenza, dal 1804, a formare il ticket, il proposto Vice.
Nella stessa sede, i partiti stendono la Platform, il programma.
Tornando ai cinquecentotrentotto Elettori, il fatto accennato che ciascuno Stato conti su un numero d’essi pari alla consistenza della propria Delegazione congressuale – essendo dal citato 1964 impegnati per l’elezione tutti i cinquanta membri dell’Unione più il Distretto di Columbia – fa sì che tanti siano, dato che in totale i Senatori (in carica per un seennio e divisi in tre classi di pari consistenza che vanno al voto ogni due anni e quindi anche in coincidenza con le Mid Term Elections fissate a metà mandato presidenziale) sono cento, i Rappresentanti (che contano su un mandato di due anni ragione per la quale vanno alle urne totalmente sia in concomitanza delle votazioni per gli Elettori che nelle Mid Term) quattrocentotrentacinque, spettandone inoltre tre al District stesso.
E visto che si è appena detto che i componenti la Camera Alta sono cento va qui spiegato che tanti sono per via del fatto che ciascuno Stato ne nomina due ed essendo cinquanta gli stessi…
Non esiste pertanto una disposizione che indichi in cento i Senatori.
Se ne contavano meno prima (agli esordi, ventisei dato che tredici erano gli Stati) e aumenterebbero di numero se nuove entità entrassero a far parte della Confederazione.
Ancora, può capitare (ed è occorso nel 1876, nel 1888, nel 2000 e nel 2016, sempre a danno dei Democratici!) che il vincitore per voti popolari a livello nazionale perda per la consistenza degli Elettori conquistati.
Come detto, questi fondamentali Delegati, in quarantanove casi su cinquantuno (perché si esprime anche il citato Distretto), vanno tutti al candidato che localmente ha avuto più suffragi.
Facendo per chiarezza riferimento alle votazioni del 2016, Hillary Rodham Clinton ha avuto nei confronti di Donald Trump un vantaggio enorme di approvazioni in California, cosa che alla fine l’ha fatta prevalere in questo campo, e perso in altri Stati per un pugno di preferenze finendo in totale sconfitta in sede di Collegio Elettorale.
Forzatamente a chiudere (come diceva John Stuart Mill: “Su tutti i grandi temi, molto resta da dire”), Joe Biden è il quarantaseiesimo inquilino della Executive Mansion (fu chiamata White House dopo la ricostruzione conseguente l’incendio appiccato dagli Inglesi il 24 agosto 1814 e questa è un’altra storia) ma solamente il quarantacinquesimo individuo ad abitarvi perché nella numerazione ufficiale il Capo dello Stato eletto due volte non consecutivamente (come Grover Cleveland che è difatti sia il ventiduesimo che il ventiquattresimo elencato) non mantiene lo stesso numero ordinale.
Volendo, solo tre i Presidenti USA non wasp, ovvero white, anglo-saxon, protestant:
John Kennedy, cattolico
Barack Obama, nero
Joe Biden, cattolico.
Divertissement
Le votazioni per l’Executive Mansion non hanno avuto tutte luogo in coincidenza con gli anni bisestili perché il Calendario Gregoriano vuole che gli anni fine secolo che non siano divisibili per quattrocento tali non vengano considerati.
Per conseguenza, il 1800 e il 1900, non il 2000, quando si è comunque votato, non lo sono stati.
Il limite di due elezioni dettato dall’Emendamento del 1951 fa sì che la massima permanenza possibile alla Executive Mansion di un Presidente immediatamente rieletto sia di 2922 giorni (sei anni normali e due bisestili).
Però, se i due quadrienni consecutivamente ricoperti fossero stati quelli 1797/1801 e 1801/1805 o 1897/1901 e 1901/1905, per quanto sopra appena detto e cioè che il 1800 e il 1900 bisesti non furono, il totale sarebbe stato 2921.
Ove effettivamente il confronto 2024 fosse tra Joe Biden e Donald Trump, si avrebbe la seguente situazione:
Biden prevale ed essendo confermato consecutivamente resta elencato quale quarantaseiesimo Presidente essendo come visto la quarantacinquesima persona ad esercitare il potere esecutivo USA.
Vince Trump che, restando in quanto predecessore il quarantacinquesimo Capo dello Stato, con l’intervallo di un quadriennio, diventa anche il quarantasettesimo.
In questo caso, il successore di Trump nel 2028 sarebbe il quarantottesimo Presidente ma solo la quarantaseiesima persona!
Varese, 31 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2020 (ventiquattresima e ultima parte)
2016
Elezioni americane per moltissimi versi particolari quelle datate 2016.
Il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre e cioè il giorno nel quale si scelgono gli Elettori in questo 2016 cade l’8 del penultimo mese dell’anno.
Il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre e quindi il giorno nel quale nel 2016 il Collegio dei predetti effettivamente elegge il Presidente cade il 19 dell’ultimo mese dell’anno.
La partecipazione al voto è stata stimata al cinquantacinque e tre per cento degli aventi diritto, sostanzialmente in linea con le affluenze delle precedenti tornate.
L’esito elettorale quanto a voti popolari vede la democratica Hillary Rodham Clinton – con lei nel ticket il Senatore Tim Kaine – prevalere per più di due milioni e ottocentomila/quasi novecentomila suffragi.
E riportare il quarantotto per cento dei voti espressi contro il quarantasei del competitore.
L’esito quanto agli Stati vede il repubblicano Donald Trump – con il Governatore Mike Pence – vincere per trenta a venti (per lui vota anche una circoscrizione del Maine, per la Clinton vota anche il Distretto di Columbia).
Il risultato quanto agli Elettori – in totale, cinquecentotrentotto con la maggioranza assoluta fissata pertanto a duecentosettanta – vede Trump conquistarne trecentosei contro i duecentotrentadue della rivale.
In seguito, in sede di Collegio, a fronte di una dispersione dei voti, l’esito definitivo (dipoi, il 3 gennaio 2017, certificato dal Congresso), sarà:
Donald Trump trecentoquattro
Hillary Rodham Clinton duecentoventisette
Colin Powell tre
John Kasich uno
Bernie Sanders uno
Ron Paul uno
Faith Spotted Eagle uno.
Donald Trump è conseguentemente il quarantacinquesimo Presidente (ma il quarantaquattresimo individuo che ricopre la carica essendo Grover Cleveland conteggiato due volte perché rieletto, è vero, ma non consecutivamente).
Nel contempo, Mike Pence è il quarantottesimo Vice.
Per quanto, infatti, in molti casi, prima della riforma attuata con il XXV Emendamento del 1967, il Vice sia venuto a mancare (nel senso che non è stato sostituito quando deceduto o quando era entrato alla Casa Bianca al posto del titolare a sua volta defunto), è più volte occorso che Presidenti rieletti abbiano avuto Vice diversi nei differenti quadrienni (per esempio, F. D. Roosevelt ebbe tre successivi coequipier).
In buona sostanza, quanto ai suffragi, si deve concludere che l’affermazione del repubblicano sia conseguenza della vittoria da lui riportata in tutti e tre più importanti nella circostanza ‘Swing States’ (gli Stati che con frequenza cambiano voto passando dall’uno all’altro partito) – e cioè Florida, Ohio e Iowa – ma anche in buona parte degli Stati della ‘Rust belt’ che dal 1990 si esprimevano per i democratici.
Ha difatti conquistato il Michigan, il Wisconsin e la Pennsylvania.
Infinite volte nel corso della campagna si era da tutti sostenuto che Trump non avrebbe mai potuto vincere perché si riteneva impossibile che compisse l’impresa di prevalere in tutti e sei gli Stati indicati, cosa che di contro ha fatto.
A ben guardare, il totale dei voti popolari di margine del tycoon nei confronti della rivale nei citati Michigan, Wisconsin e Pennsylvania è di circa settantamila, un nulla peraltro bastante a far pendere decisamente la bilancia degli Elettori dalla sua parte.
Non trascurabili – i migliori di sempre del giovane movimento nato nel 1971 – i risultati ottenuti nell’occasione dal ticket del Libertarian Party Gary Johnson/Bill Weld (quasi quattro milioni e mezzo di voti e il tre e tre per cento degli elettori andati alle urne).
A proposito, i sostenitori di Hillary Clinton hanno lamentato la presenza libertariana che avrebbe sottratto alla ex First Lady i suffragi necessari per sconfiggere Trump proprio nei tre citati Stati della ‘Rust belt’.
Infine, discreta e nulla di più la performance della verde Jill Stein, ferma all’uno e zero cinque per cento dei voti degli aventi diritto.
Tra le infinite articolazioni conseguenti all’ora ricordato esito (di alcune tra queste parleremo fra poco in appositi capitoli) impossibile dimenticare il clamoroso – non assoluto, però: il Los Angeles Times, quasi scusandosi, ha costantemente predetto la vittoria di Trump – patatrac, tonfo delle previsioni sondaggistiche.
Tutte, tranne periodi brevissimi, assolutamente favorevoli all’ex Segretario di Stato, addirittura e perfino nel mentre la giornata elettorale volgeva al termine.
Altrettanto (se non di più) schierati con la Clinton tutti i maggiormente celebrati analisti.
Passando ai media, mai nella storia americana tante testate giornalistiche e tanti canali televisivi e radiofonici si erano ufficialmente pronunciati a favore di un candidato (ovviamente, ancora l’ex First Lady), poi, per di più, risultato perdente.
Mai tanto pochi a favore del candidato infine vincente.
Chiara dimostrazione questa della minima se non nulla rilevanza dell’opinione dei media e dei maître a penser nell’ambito.
Personalmente ho scritto in data 7 luglio 2015 (2015, ripeto) – come riscontrabile nel sito www.elezioniusa.it – che la Clinton (chi altri poteva essere il candidato democratico?) – chiunque fosse il rivale, avrebbe avuto vita difficile perché storicamente dal 1948 in poi il suo partito non era mai riuscito a vincere tre elezioni presidenziali consecutive.
Così è stato ancora una volta.
Quanto a Trump, ho avuto notevoli difficoltà a digerirlo – ho in più occasioni detto che se fossi stato americano avrei votato per Gary Johnson, il libertariano – soprattutto per la volgarità (purtroppo, in linea coi tempi), ma, dopo avere ascoltato una serie di interviste raccolte per strada su Euronews, ho scritto il 21 maggio 2016, oltre cinque mesi prima delle votazioni, che aveva serie possibilità di farcela.
In conclusione e prima di passare ad esaminare come detto argomenti connessi, vanno sottolineati almeno due fatti.
Primo: per quanto Donald Trump abbia corso e vinto nel 2016 per il Partito Repubblicano non si possono dimenticare i suoi trascorsi.
In tempi oramai lontani aveva cercato è vero di entrare come Vice nel ticket GOP di George Herbert Bush ma la sua appartenenza partitica è stata sempre molto ondivaga tanto da provare una volta a correre per White House con il Reform Party e da essere rimasto iscritto per anni alle liste elettorali come democratico.
Invero, si tratta di un ‘maverick’ (vitello non marchiato e quindi senza padrone), di un politico senza collocazione ideale e ideologica sicura che ha usato il Partito Repubblicano ai propri fini entrando nella competizione interna con il giusto piglio, caratterizzandosi come ‘diverso’ e riuscendo a convincere un largo numero di incerti e delusi a votare per lui.
Peraltro – lo si è visto durante tutta la dura campagna interna al GOP – larga parte degli esponenti repubblicani non lo volevano.
L’establishment per quanto possibile si è opposto.
Non pochi hanno addirittura pensato a una diversa candidatura in alternativa.
Si deve concludere, visto il risultato, che gli elettori GOP lo abbiano percepito come il nuovo, come la persona giusta per cambiare sul serio e buttare a mare la vecchia politica.
È del resto in questo modo che il tycoon è stato inteso anche nella seguente vittoriosa campagna contro l’avversaria democratica.
Secondo: Hillary Clinton è stata percepita da buona parte dell’elettorato sia, personalmente, come – mi si permetta – una minestra riscaldata, sia, quanto all’appartenenza, quale esponente di una élite politica, economica, amministrativa e culturale dimostratasi incapace di dare risposte risolutive ai gravi problemi da anni sul tappeto (assolutamente non risolti da Barack Obama) ed anzi responsabile non poco in merito.
È per questo che un vecchio Senatore del Vermont, Bernie Sanders, definitosi socialista – cosa che solo pochi anni fa avrebbe fatto inorridire – nel corso delle Primarie, l’ha impegnata oltremisura tanto che in suo soccorso è dovuto intervenire scorrettamente la direzione del partito.
Premesso, infine, che si è comunque trattato di una gara tra vecchi essendo i giovani praticamente assenti dalla lotta in campo democratico e risultando sconfitti tra i repubblicani, diamo una veloce occhiata alle vicende che hanno portato il GOP a scegliere Donald Trump nella Convention di Cleveland (18/21 luglio) e l’Asinello a convergere su Hillary Rodham Clinton a Philadelphia (25/28 luglio).
Il Partito Repubblicano, fin dalle origini, è stato ed è il movimento nel quale il confronto ideale e ideologico è continuo.
Il partito che esprime, tenendole incredibilmente unite, visioni opposte (e si pensi, oggi, agli Evangelici, ai libertariani, al Tea Party, per dire).
Ovvio, quindi, che molte possano essere al suo interno le candidature alla Nomination.
Quest’anno, addirittura diciassette!
La competizione ha preso il via a marzo 2015, allorquando il Senatore del Texas Ted Cruz ha annunciato di voler puntare alla Presidenza.
A seguire, altri tra i quali Jeb Bush, Marco Rubio, John Kasich, magari Rand Paul sono da ricordare.
Il futuro vincitore Donald Trump è sceso nell’agone il 16 giugno 2015, tra lazzi e prese in giro.
Nessuno – e sarà così fino alla fine – credeva nelle sue possibilità.
Già dominante nei molti dibattiti televisivi, il tycoon prenderà rapidamente il largo a partire dal febbraio 2016, piazzandosi bene e spessissimo vincendo nei Caucus e nelle Primarie.
Per quanto il partito cerchi di sbarrargli la strada.
Per quanto personaggi di rilievo come i Bush tutti, John McCain e Mitt Romney gli siano contro, prevale.
Ultimi a cedere, il predetto Ted Cruz e il Governatore dell’Ohio John Kasich.
Alla fine, l’investitura alla Convention di Cleveland, ancora tra contestazioni e critiche feroci.
Con lui, a cercare un necessario collegamento con il partito, nel ticket, il più ortodosso Governatore dell’Indiana Mike Pence.
Memorabili le invettive trumpiane da tutti ritenute controproducenti e portatrici di disfatta.
“Cancelleremo l’Obamacare.
Costruiremo un muro lungo la frontiera messicana e lo faremo pagare al Messico.
Espelleremo i clandestini.
Impediremo agli islamici di entrare nel Paese.
Costringeremo le grandi industrie ad investire negli USA e a creare posti di lavoro pena tasse molto alte sui loro prodotti…”
Ebbene, come si è visto, hanno magnificamente funzionato.
Quanto ai democratici, non fosse comparso dal nulla il vecchio Senatore del Vermont Bernie Sanders, autodefinitosi socialista e incredibilmente in grado di catturare il voto dei giovani, Hillary Clinton non avrebbe avuto rivali non essendo scesi in campo altri veri o supposti big.
Peraltro, l’ex First Lady per prevalere ha avuto bisogno del supporto, bene al di là delle regole, dell’establishment del partito e del voto dei ‘superdelegati’, espressione dell’oligarchia interna e negazione dell’intero processo delle Primarie e dei Caucus.
Unico altro tenue concorrente Martin O’Malley, presto fatto fuori.
Alla fine, in quel di Philadelphia, in una Convention ferreamente guidata, l’investitura della ‘predestinata’, della sicura vincitrice, della prima donna nominata da uno dei partiti maggiori, della invece futura protagonista di una delle più inaspettate e disastrose sconfitte della intera storia elettorale americana!
Annotazioni
Certo, trattiamo delle elezioni del 2016 e può sembrare strano soffermarsi a tale riguardo su Barack Obama, non più in competizione.
Così assolutamente non è.
Impossibile se non per quanti non vogliano vedere e si bendino gli occhi pensare che sul risultato elettorale appunto 2016 non abbia fortemente influito il giudizio dato dagli elettori sull’operato del primo Presidente nero.
Sugli effetti del duplice mandato del Nostro quanto al partito di appartenenza torniamo a breve.
Non senza esserci fatti prima una domanda.
Obama, si sa, è di padre keniota (un luo) e madre bianca.
Se invece di essere nero fosse stato bianco sarebbe mai diventato Presidente?
Il Nostro ha larghissimamente approfittato del non dichiarato ma esistente, eccome, razzismo delle sinistre, quel razzismo che porta a votare il nero per il colore della sua pelle non perché lo si ritenga migliore.
Esprimersi a suo favore a prescindere era così politicamente corretto…
(Altrettanto, dargli il Nobel per la Pace, ma questo è un altro, sia pure connesso, tema).
1) Otto anni di Obama hanno demolito il Partito Democratico.
I risultati elettorali parlano chiaro e non temono smentita.
4 novembre 2008, gli Stati Uniti d’America votano per la Presidenza per la cinquantaseiesima volta.
Votano altresì per il rinnovo totale della Camera dei Rappresentanti e per quello di trentacinque Senatori in quanto ai trentatre in scadenza si aggiungono quelli del Wyoming e del Mississippi.
I risultati dicono che il candidato democratico Barack Obama – che ottiene in termini di voto popolare il record assoluto (quasi sessantanove milioni e mezzo) sarà Presidente.
Che i Senatori democratici saranno cinquantasette (cinquantanove contando i due indipendenti comunque inclusi nel gruppo) su cento.
Che i Rappresentanti democratici saranno duecentocinquantasette su quattrocentotrentacinque.
Che a seguito anche delle elezioni per i Governatorati in palio, i democratici contano ventinove Governatori su cinquanta.
Un trionfo su tutta la linea per il Partito dell’Asinello!
8 novembre 2016, gli Stati Uniti d’America votano per la cinquantottesima volta per la Presidenza dopo che il democratico Barack Obama ha occupato White House per due mandati, otto anni.
Va notato che la conferma del Presidente nel 2012, pure riuscita, lo aveva visto peggiorare sia in termini di voto popolare (tre milioni e mezzo all’incirca di suffragi in meno) che di Elettori (da trecentosessantacinque a trecentotrentadue).
Ebbene, i risultati 2016 sono:
Presidenza USA al repubblicano Donald Trump.
Cinquantadue Senatori su cento – e pertanto la maggioranza – repubblicani.
Duecentoquarantuno Rappresentanti su quattrocentotrentacinque e quindi un’ampia maggioranza ai repubblicani.
Trentuno Governatori repubblicani contro i diciannove democratici.
Si aggiunga che trentacinque Senati statuali su cinquanta sono a maggioranza repubblicana così come trentadue Camere locali.
Un trionfo totale e senza confronti del Grand Old Party.
Una totale rovina per l’Asinello.
Sorge spontanea una domanda: se Obama è stato quel magnifico Presidente che la stragrande maggioranza degli osservatori e dei media dipingono, come mai il suo partito, dopo (a seguito, viene da dire) la sua Presidenza è ridotto elettoralmente da fare pietà?
2) USA: modificare il sistema elettorale e passare al voto popolare è praticamente impossibile
Duemilioni ottocento mila e briscola voti popolari in più e perdere!
Si è gridato allo scandalo.
I mille e mille sostenitori di Hillary Clinton, ovviamente, in prima fila a stracciarsi le vesti.
A denunciare il vetusto e sorpassatissimo (come è stato e viene definito) sistema di elezione di secondo grado che attribuisce agli Elettori riuniti nel Collegio, a ciò dalla Costituzione delegato, la ‘vera’ nomina del Presidente americano.
Ebbene, a prescindere dalle ragioni storiche e dimenticando il fatto, fondamentale, che gli Stati Uniti sono uno Stato federale, la nostra mentalità europea ci porterebbe a concordare sulla opportunità, addirittura sulla necessità, di un cambiamento.
Fatto è, però, che a questo riguardo (non così invece per il sistema di selezione dei candidati attraverso Caucus, Primarie e Convention) le norme sono costituzionali e per cambiarle occorre ricorrere a un Emendamento appunto costituzionale.
Ora, la procedura da seguire consiste sostanzialmente – per quanto esistano alternative comunque più complicate e mai finora portate a compimento – nella approvazione da parte del Congresso di una disposizione in merito, approvazione che in entrambe le camere deve raccogliere il consenso dei due terzi dei componenti.
Superato questo primo scoglio, l’Emendamento deve poi essere ratificato dai tre quarti degli Stati dell’Unione.
Cosa praticamente impossibile perché, nel caso specifico, richiederebbe una vocazione al suicidio per un notevole numero di Stati che abdicando alla nomina dei loro Elettori perderebbero totalmente peso nella più importante procedura istituzionale federale.
Non succederà mai!
3) Gli ‘orfani’ di Bernie Sanders
Dimentichi del ‘tradimento’ finale.
Dimentichi del cedimento del loro ‘profeta’ in cambio di molto meno di un piatto di lenticchie.
Gli ‘orfani’ di Bernie Sanders vanno rimuginando a proposito di un glorioso domani che avrebbe potuto essere e non è stato.
E cercano i responsabili.
E li trovano in quei maître a penser, in quei giornalisti, in quelle accolite mediatiche che per tutta la campagna interna al partito democratico hanno continuato a sostenere che il Senatore del Vermont non aveva la minima possibilità di battere il candidato repubblicano, anche quando, identificato tale candidato in Donald Trump, i sondaggi dicevano il contrario.
Thomas Frank in specie, in un lungo articolo pubblicato dapprima su Harper’s e poi, ‘attualizzato’, su Le monde diplomatique, identifica i ‘nemici’ di Sanders – e, ovviamente, a suo modo di vedere, coloro che sostenendo Hillary Clinton, hanno in verità consentito al GOP di vincere – in quello specifico mondo intellettuale che vive e si esprime nel e sul New York Times.
A riprova, riporta l’invettiva lanciata il 6 febbraio 2016 su quelle pagine dal premio Nobel Paul Krugman che, rivolgendosi ai seguaci del ‘socialista’, strillava di non votarlo aggiungendo un apocalittico “la storia non vi perdonerà!”
E ancora, sulla scorta di infiniti altri interventi pro Clinton in verità diffusi, come sappiamo, ovunque nei media, sostiene che la sconfitta di Sanders e quindi dell’Asinello è stata determinata dal fatto che, abbracciando l’ex First Lady, l’establishment altresì partitico cercava e contava di mantenere il proprio autorevole e confortevole status.
Dando fiato alla ‘esperienza’ e alla ‘competenza’ – in realtà oramai ripudiate dagli stessi elettori democratici – della Signora, puntava a una dorata sopravvivenza.
E – aggiungiamo noi – non è forse vero e documentato che i dirigenti del partito democratico hanno a loro volta concretamente operato per far fuori il sorprendente rompiscatole?
Ora – dopo avere guardato ai numeri, incontrovertibili, della catastrofica per il partito esperienza obamiana – se come afferma Frank, badando alle élite intellettuali e culturali vicine al movimento, davvero queste si sono dimostrate cotanto inette, incapaci, dannose, quale futuro potrà mai avere quel partito che, tutti unanimemente – il sottoscritto compreso – solo poco tempo fa, consideravano destinato a governare gli USA assai lungamente?
Converrà, tutto considerato, converrà d’ora innanzi non trarre conclusioni che la storia immediatamente mostra catastroficamente sbagliate.
4) Stando agli analisti, non doveva il Partito Democratico vincere facilmente e a lungo?
Tutti gli osservatori, tutti gli analisti, praticamente senza eccezione, guardando alla composizione dell’elettorato USA, da tempo sostenevano che i risultati elettorali dovevano essere sempre favorevoli ai democratici.
Non è forse vero che le etnie emergenti quali gli ispanici, i neri che sempre più parteciperebbero, che i gay, i transgender e chi più ne ha più ne metta votano democratico?
Ebbene, da quando così si sostiene, le elezioni per la Camera vengono vinte a ripetizione dal Grand Old Party che prevale con buona costanza in quelle Senatoriali e praticamente domina in quelle riservate ai Governatori.
Lo stesso Partito Repubblicano che oggi occupa nuovamente la Casa Bianca.
Che dire?
2020
Alle urne (voto postale a parte, e ne parliamo perché il deciso aumento del suffragio non in presenza in molte realtà – la competenza legislativa in merito è locale – è stato motivo di forti contestazioni da parte repubblicana ritenendolo Trump e collaboratori passibile di molte alterazioni fraudolente, in buona sostanza di brogli) il 3 novembre essendo, come oramai da tempo gli Elettori da nominare cinquecentotrentotto e conseguentemente duecentosettanta la maggioranza da raggiungere nel Collegio dipoi deliberante.
Record percentuale (sessantasei e sei) di votanti a far luogo dall’anno 1900 (numericamente, oltre ottantuno milioni, pari al cinquantuno e trentuno per cento, quanti si esprimono per il democratico e sfidante Joe Biden, più di settantaquattro, il quarantasei e ottantacinque, i sostenitori del Presidente uscente repubblicano Donald Trump il quale, come altri predecessori GOP – Benjamin Harrison, William Taft, Herbert Hoover, Gerald Ford, George Herbert Bush – fallisce la conferma), in totale e in entrambi i campi in assoluto.
In termini di Elettori (con l’iniziale maiuscola, si ripete ancora, per distinguerli da quelli comuni visto che hanno il compito di eleggere effettivamente il Capo dello Stato),
trecentosei a
duecentotrentadue.
Biden (del quale più avanti si tratterà articolatamente) interrompe una serie di vittorie ad opera di Presidenti in cerca di ottenuta conferma lunga ventiquattro anni (Clinton/Clinton, G. W. Bush/G. B. Bush, Obama/Obama).
Con lui a formare il ticket dem la Senatrice della California Kamala Harris.
Non ovviamente (guardando ai due partiti egemoni, era stata preceduta nel ruolo di candidata vicaria da Geraldine Ferraro, del partito dell’Asino, nel 1984 e da Sarah Palin, una Elefantina, nel 2008) la prima Signora in corsa per lo scranno secondario ma la prima ad essere eletta.
Praticamente immediate, a spoglio che si annuncia dopo qualche momento a lui avverso, le contestazioni dell’incumbent (che da allora non ha mai mancato di ripetere che la Casa Bianca gli è stata “rubata”).
Molteplici i ricorsi prima che il 23 novembre la sua amministrazione consenta l’avvio della transizione.
Alla fine (quel che accade successivamente, attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021 compreso, non concerne l’elezione), il Collegio formato dagli Electors nomina Biden il 14 dicembre 2020 (primo lunedì dopo il secondo mercoledì del mese seguente la votazione novembrina, come vuole la legge).
Entrerà in carica quale quarantaseiesimo inquilino della Executive Mansion a mezzogiorno del 20 gennaio 2021, giurando nelle mani del Chief della Corte Suprema John Glover Roberts.
Facendo un passo indietro, occorre sottolineare che Biden non è stato vincente nelle iniziali Primarie democratiche e che ha potuto prendere il volo sostanzialmente solo dopo l’intervento dell’establishment del partito che ha chiesto agli altri candidati non solo di ritirarsi ma anche di appoggiarlo.
Vinte così – l’unico oppositore rimasto essendo il ‘socialista’ Bernie Sanders – le molte votazioni locali del Supermartedì (il 2 marzo) ha successivamente ‘raccolto’ con facilità la Nomination.
Lo scoppio della pandemia da Covid (è stata la prima volta che negli Stati Uniti si è tenuta una campagna elettorale presidenziale tanto condizionata perché la Spagnola aveva avuto il suo periodo peggiore mentre erano in corso le Mid Term del 1918 e non nel 1920) ha certamente influito sul voto: difficile se non impossibile infatti per l’amministrazione, per quanto facesse, ottenere successi nel contenimento dell’epidemia ed evitare le conseguenti critiche.
A parte gli odi personali che ovviamente hanno avuto peso, l’esito elettorale ha viepiù evidenziato il distacco se non addirittura la contrapposizione frontale tra due Americhe: quella democratica per assai discutibile definizione progressista (perché mai l’aborto e il matrimonio gay, per dire, debbono essere considerati un progresso?) e quella repubblicana sostanzialmente conservatrice.
La prima vincente sommamente nei centri urbani maggiori (nel 2023, Miami esclusa, tutti i Sindaci della città più importanti sono dell’Asinello), la seconda nelle campagne.
Per la prima volta dal 1960 il vincitore in Ohio (Trump) non ha conquistato White House.
Come rarissimamente occorso, un candidato del Grand Old Party, vincente sia in Ohio che in Florida, non ha battuto il rivale.
Annotazioni
Joe Biden, visto come candidato a White House?
Presidenziali, ovviamente.
Perdere.
Ripresentarsi.
Vincere.
Non è riuscito molte volte.
Non altrettanto quanto perdere, ripresentarsi e perdere nuovamente.
Vediamo.
Thomas Jefferson inaugura la serie uscendo sconfitto da John Adams nel 1796 e battendolo quattro anni dopo.
Andrew Jackson è il secondo: perde per una concatenazione di circostanze avverse nel 1824 e si prende la rivincita su John Quincy Adams nel 1828.
Segue William Harrison: è battuto da Martin Van Buren nel 1836 e lo sconfigge nella successiva tornata.
Molto dopo, tra il 1884/88/92 la straordinaria storia di Grover Cleveland.
Il Democratico, perde nel 1888 e vince nel 1892 contro Benjamin Harrison ma era già stato alla Casa Bianca avendo sconfitto Horace Greeley nel 1884.
Vince, perde, rivince, Cleveland: unico e inimitabile.
Franklin Delano Roosevelt (ovviamente visto che detiene non tutti ma molti record) va qui citato perché è il solo Candidato alla Vice Presidenza sconfitto (era nel 1920 il Running Mate di James Cox) e poi in grado di conquistare White House (quattro volte!)
Altro salto temporale notevole, per arrivare al 1960.
Il Vice Presidente di Dwight Eisenhower Richard Nixon perde dal Senatore Democratico John Kennedy.
Passano gli anni e risorge conquistando lo scranno presidenziale tanto desiderato nel 1968.
Dopo di che, più nessuno “tra i battuti” ha provato a togliere la poltrona a un Presidente in scadenza di Mandato?
Niente più rivincite, quindi?
Vediamo.
Joe Biden si è candidato una prima volta per la Nomination democratica nel 1987 in vista delle votazioni del seguente anno e se fosse stato scelto avrebbe sfidato George Herbert Bush.
Ritiratosi, si propose nuovamente nel 2008, quando fu poi voluto da Barack Obama come Vice.
Ha atteso dipoi il 2020 per presentarsi una terza volta sfidando e, lo abbiamo visto, defenestrando Donald Trump.
Un incumbent questi, come si dice.
Con il quale però, differentemente dai signori sopra citati, non aveva avuto elettoralmente a che fare prima!
L’attacco al Campidoglio e un occhio al 2024
Per quanto certamente, come accennato, il clamoroso assalto al Campidoglio opera di sostenitori di Trump non sia un ‘momento’ elettorale se non di sguincio (interruppe le operazioni di ratifica in corso dei deliberati del Collegio elettorale), occorre parlarne anche se in poche righe perché di conseguenza il tycoon si è visto inquisire dalla magistratura venendosi il procedimento ad aggiungersi agli altri di varia natura in essere.
Capacissimo di ‘cavalcare’ i processi e di volgere a proprio favore propagandisticamente, ripetendosi perseguitato, i relativi eventi giudiziari, Trump corre con grande slancio (oggi, dicembre 2023, è in testa nettamente nei sondaggi) alla ricerca di una nuova Nomination repubblicana per il 2024.
Senza qui addentrarci in particolari analisi o previsioni, a chiudere, un giochino.
Se il 5 dicembre del prossimo anno davvero la sfida sarà tra Biden e Trump (due vecchietti, anche se il democratico di più), si confronteranno il quarantaseiesimo Presidente e il quarantacinquesimo.
Ove Biden fosse confermato la predetta numerazione non cambierebbe.
Se fosse Trump a prevalere, tornando dopo un intervallo in sella come Grover Cleveland nel 1892, sarebbe incluso nell’elenco dei Capi di Stato anche (quarantacinquesimo è e rimane) quale quarantasettesimo della serie.
Volendo complicare, Joe Biden (sempre per via di Cleveland) è il quarantaseiesimo Presidente ma solo il quarantacinquesimo individuo in scranno.
Donald Trump, dovesse vincere, avendo già ‘regnato’, non aumenterebbe questo numero.
Per conseguenza, il suo successore (nel 2028 dovrà pur esserci) sarebbe il quarantottesimo ospite della Executive Mansion ma la quarantaseiesima persona.
Chiaro?
Varese, 31 dicembre 2023
Bisestile
Nell’Era Volgare – in precedenza non si applica – l’anno bisestile dura ovviamente trecentosessantasei giorni aggiungendosi il 29 al 28 febbraio.
Il bisestile più lungo si è avuto in Svezia nel 1712 perché al fine di rimediare ad un precedente errore di datazione al secondo mese fu aggiunto anche uno straordinario 30.
Il più corto resta nei Paesi identificabili allora come anglicani il 1752: nel mese di settembre, al fine di abbandonare il Calendario Giuliano e introdurre il Gregoriano, furono eliminati undici giorni (dal 3 al 13 compresi).
Ricordando sempre che per il Calendario Gregoriano gli anni di fine secolo 1800 e 1900 (come del resto i precedenti aventi le stesse caratteristiche) non essendo divisibili per quattrocento non lo sono, coincidono col bisestile dal 1788 (quando ebbero svolgimento tra il 15 di quel dicembre e il 10 del successivo gennaio ‘89) le elezioni presidenziali americane e dal 1896 le Olimpiadi Estive (nel periodo 1924/1992, anche le Invernali) con l’eccezione di quelle datate 2020 svolte causa pandemia l’anno dopo.
L’ultimo Papa eletto in un bisestile è stato Benedetto XIV nel 1740, questo perché Pio VII fu, è vero, nominato nel 1800, che però, come detto prima e qui ripeto, secondo il Calendario Gregoriano non era bisesto in quanto anno di fine secolo non divisibile per quattrocento.
Varese, 30 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (ventitreesima parte)
2012
Si vota il 6 novembre.
Alle urne il cinquantaquattro e nove degli aventi diritto al voto.
Il Presidente uscente Barack Obama, democratico, vince in ventisei Stati più il Distretto di Columbia e conquista trecentotrentadue Elettori (in notevole calo rispetto ai dati del 2008).
Lo sfidante GOP Mitt Romney prevale in ventiquattro Stati e ottiene duecentosei voti al Collegio.
Facilissima la volata interna agli Asinelli del Presidente verso la conferma che ottiene all’unanimità
Con lui, di nuovo, Joe Biden.
Tra i repubblicani, nuovamente in lizza l’ex Governatore del Massachusetts Mitt Romney che alla fine supera i rivali Rick Santorum, già Senatore della Pennsylvania, Ron Paul, Rappresentante del Texas, e Newt Gingrich, georgiano ed ex Speaker alla Camera.
Annotazioni
Riporto quanto in proposito ho scritto nel libro ‘White House 2012. Obama again’
“Il cimento di Obama: tutti i precedenti
Davvero difficile per un repubblicano sconfiggere e defenestrare un Presidente democratico in carica che cerchi (come Obama nel 2012) un secondo mandato o comunque, da Vice subentrato mortis causa, voglia ottenere una conferma.
Dal 1856 – la prima volta in cui il Partito dell’Asino e quello dell’Elefante si sono confrontati per White House – sono riusciti nell’intento solo Benjamin Harrison nel 1888 (se così si può dire, provvisoriamente, visto che quattro anni dopo lo sconfitto Grover si prese una bella rivincita) e Ronald Reagan nel 1980.
Nelle altre occasioni i democratici Woodrow Wilson, Franklin Delano Roosevelt, Harry Truman, Lyndon Johnson, Bill Clinton – hanno respinto l’attacco.
Chiunque, al termine del percorso delle Primarie e dei Caucus, prevalga in casa repubblicana, sarà pertanto chiamato a compiere davvero un’impresa.
Barack Obama è il trentesimo Presidente degli Stati Uniti d’America che si presenta all’elettorato per chiedere un nuovo mandato.
In precedenza, diciannove i confermati, nove gli sconfitti, uno rieletto con l’intervallo di un quadriennio.
Ove, peraltro, si guardi ai Presidenti eletti in prima persona, non includendo i Vice subentrati, Obama è in effetti il venticinquesimo a ricandidarsi.
Ebbene, nelle ventiquattro precedenti circostanze, l’inquilino della residenza presidenziale ha vinto quindici volte, sedici ove si voglia tener conto (ma non appare corretto) dell’avventura predetta toccata a Cleveland”.
I razzisti votano Obama
(L’articolo che qui ripropongo è stato pubblicato nel sito www.maurodellaportaraffo.com il 24 settembre 2012 nel pieno della campagna elettorale che vedeva contrapposti il Presidente in carica e in cerca di conferma Barack Obama, democratico, e il candidato repubblicano Mitt Romney. Sappiamo tutti come a novembre sia poi andata a finire).
“Viene da lontano, da molto lontano, l’esprimersi e il conseguente voto di larga parte dei democratici bianchi a favore di Obama, il Presidente ‘nero’.
È figlio di una colpa, meglio, di un sentirsi in colpa e del conseguente, inconfessato anelito all’espiazione.
Dentro di loro – senza che ne abbiano contezza ma dentro di loro – premono i centocinquanta e passa anni nei quali i padri e gli avi hanno voluto e strenuamente difeso lo schiavismo prima e la segregazione razziale dopo.
Il partito repubblicano oggi di Mitt Romney, non dimentichiamolo, viene fondato nel 1854 soprattutto per combattere ed abolire appunto lo schiavismo e il primo Presidente repubblicano è Abraham Lincoln.
Gli Stati del Sud che escono dall’Unione e causano la Guerra di Secessione sono tutti in mano democratica.
Sconfitti, resisteranno duramente fino agli anni Settanta del Novecento su posizioni retrograde e segregazioniste nei confronti delle minoranze razziali e in specie dei neri.
E basti qui ricordare un personaggio quale George Wallace, Governatore dell’Alabama espresso dal partito democratico e candidato nel 1968 a White House, sia pure da indipendente, che da razzista convinto ed esplicito ha conquistato nell’occasione fior di Stati (cinque e con quasi dieci milioni di voti) nel Sud amministrato dai suoi amici.
E per quanti non sanno (e ciononostante discettano dottamente – per carità – e giudicano), per quanti hanno dimenticato o voluto dimenticare, non è forse il Presidente repubblicano Eisenhower – anni Cinquanta – a mandare nel predetto Sud la Guardia Nazionale per ottenere che vengano rispettate le sentenze anti segregazione emanate dalla Corte Suprema presieduta dal repubblicano (ma guarda!) Earl Warren?
È in parte con Franklin Delano Roosevelt, il cui New Deal per qualche verso piaceva alle minoranze, che i neri cominciano il cammino che li farà approdare alle rive democratiche.
Sarà poi il grande Lyndon Johnson (non il pericoloso parolaio John Kennedy che tanto piace a quanti hanno studiato la storia sui rotocalchi e che Martin Luther King accusava pubblicamente di non avere concluso niente in proposito), con le sue profondissime aperture e con le leggi fatte approvare a forza o quasi ad un Congresso nel quale i suoi amici di partito ancora si opponevano, a far convergere definitivamente sui democratici le simpatie appunto dei neri.
Voto di figli e nipoti di razzisti incalliti, pertanto, quello dei bianchi democratici d’oggi.
Voto anche di razzisti inconsapevoli o quasi, come sono indubbiamente quanti, in particolare tra i ‘radical chic’ e le ‘anime belle’, si appalesano pro Obama per obbedire alla ‘religione’ del politicamente corretto.
Il ‘vero’ non razzista sa di potersi opporre ad Obama per averlo visto all’opera, per le sue inadeguatezze ed incapacità.
Se ne impipa del colore della sua pelle e guarda ai fatti, alla politica, all’ideologia.
Difficile, in conclusione e quindi, anche se non impossibile, per chiunque in questa campagna avere il sopravvento su un candidato che conta non solo sul voto di quanti lo apprezzano o la pensano come lui ma anche di milioni e milioni di razzisti!”
La previsione
Vorrei prevalesse la ‘Vecchia America’ di Mitt Romney, reputo e temo finisca per prevalere l’America ‘socialista’ di Barack Obama (solo chi ha il coraggio di fare una previsione può sbagliarla)
5 novembre 2012
“L’ho detto e scritto infinite volte e qui lo ripeto: la vittoria di Barack Obama nel 2008 (in qualche modo prefigurata e annunciata dai due mandati di Bill Clinton, non per niente definito da molti ‘il primo Presidente nero’) ha rappresentato il compimento, il punto di arrivo – e quasi certamente, almeno in prospettiva, di non ritorno – di quel lungo iter che, partendo da alcune visioni del ‘New deal’, di Franklin Delano Roosevelt e soprattutto a seguito della vera rivoluzione legislativa in specie nel sociale voluta ed attuata da Lyndon Johnson, ha portato gli USA sulla via del socialismo, come confermato in modo evidente dalla esaltata riforma sanitaria, giustamente chiamata, a rappresentare nel nome e in relazione al disposto tanto poco americano, ‘Obamacare’.
Era, è questa una ‘evoluzione’ (per molti, una ‘involuzione’) inevitabile in un mondo USA in dapprima lenta e infine precipitosa trasformazione in particolare dal punto di vista etnico?
È, pertanto, questa la necessaria, obbligata conseguenza del deflettere, del declinare dell’America di una volta, quella mitica e del ‘sogno’, del cosiddetto ‘eccezionalismo’, in conseguenza, nei differenti casi, dell’emergere, dell’arrivo e alla fine del prevalere di ‘non americani’ quali sono neri, ispanici e quanti altri non ‘wasp’ (white, anglosaxon, protestant) vanno conquistando – hanno già raggiunto? – nel Paese la maggioranza?
Non solo, naturalmente, infinite altre essendo le incidenze (e vanno sottolineate quella religiosa, l’ateismo apertamente professato, nonché, tra gli acculturati, tra gli intellettuali delle due coste, il tramonto per non dire il rifiuto irridente di dottrine quali quella del ‘destino manifesto’), ma fondamentalmente sì.
E lo si vede, lo si può constatare semplicemente dando un’occhiata non superficiale, non disattenta in giro, in particolare nei ‘Blue States’, quelli usi a votare democratico.
Quando mai la ‘vecchia America’ ci aveva, ci avrebbe, proposto, come oggi la prevalente ‘nuova America’ fa, milioni e milioni di grassoni nullafacenti, impegnati ad abbuffarsi di merendine e pollo fritto, che trascinano una vita senza neppure immaginate e quindi non ricercate prospettive in quartieri periferici degradati e degradanti o, a seconda della collocazione territoriale nell’immenso Paese, in roulotte oramai significativamente ancorate al terreno e casupole fatiscenti dipendendo praticamente in tutto e per tutto da uno Stato assistenziale?
Nessuno, in questi diffusissimi ambienti tanto ‘obamiani’, accetterebbe di far suo il dettato di Ronald Reagan che, all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, in opposizione all’allora già annunciato precipitare della situazione, disse ‘Lo Stato non è la soluzione, lo Stato è il problema’.
In un contesto quale quello or ora rappresentato e che piace tanto agli europei e a noi italiani che da tempo abbiamo adottato, spesso senza rendercene conto ed essendone stati conquistati surrettiziamente, un sostanziale socialismo legislativo e comportamentale, ripeto, quasi ‘inconsapevole’, quali le reali possibilità di vittoria il 6 novembre del ‘sorpassatissimo’ Mitt Romney?
Del candidato mormone che si batte contro il da tutti voluto, osannato, sognato e nei fatti deleterio ‘cambiamento’, che richiama ed esalta il Paese che fu, gli ideali e la spinta propulsiva, individualista di una volta?
Del candidato che, del tutto consapevole delle difficoltà, ha sottolineato di non poter contare su quel quasi cinquanta per cento della popolazione che non paga le tasse e vive a spese o alle dipendenze dello Stato?
Esiste un’America diversa, quella dei ‘Red States’ nei quali un Obama non può neppure immaginare, non può sognare di prevalere.
Se a questa non piccola ma periferica fetta del Paese si unissero larga parte degli ‘Swing States’, quelli in bilico, laddove le due anime, l’antica e la nuova si fronteggiano ancora, Romney potrebbe farcela.
A dispetto dei sondaggi che proponevano a tre giorni dal voto i due alla pari, penso e temo che questo non succederà e che Barack Obama sarà confermato, sia pure, probabilmente, con una ridotta maggioranza.
Potrebbe, con un Romney vincente, essere questo ‘il canto del cigno’ dell’America che fu, prospettando il futuro, comunque, una lunga prevalenza di un partito democratico destinato a trasformarsi in un movimento fondamentalmente socialista in grado di raccogliere larghe maggioranze in un Paese in qualche modo a quel punto non più ‘americano’!”
L’esito elettorale: Obama ancora quattro anni
9 novembre 2012
“Non tutti i voti sono stati conteggiati, ma già è possibile dire che Obama ha vinto perdendo a livello nazionale rispetto al 2008 circa tre punti percentuali e parecchi milioni di voti, tanto da conquistare con quasi certezza nell’occasione meno suffragi di quanti ne ebbe a catturare allora il bistrattato John McCain.
Romney, per parte sua, perde a propria volta e nettamente il confronto per somma di voti con il precedente candidato Gop.
La prima considerazione da fare
Il voto non è stato condizionato quanto si pensava dalla crisi economica e dagli alti livelli di disoccupazione.
Avevo previsto esattamente (si legga il capitolo che ho riservato appunto alle previsioni) l’esito delle elezioni USA del 6 novembre.
Riservandomi di tornare a breve alle riflessioni conseguenti (sul filo, peraltro, di quanto da me esposto nel saggio USA 2012), di seguito, espongo i dati maggiormente significativi.
I risultati (non ancora definitivi)
Nelle elezioni del 6 novembre 2012, Barack Obama ha sicuramente conquistato un totale di trecentotre delegati ed ha conseguentemente ottenuto l’investitura per un secondo mandato alla Casa Bianca (ricordo che la maggioranza assoluta è fissata a duecentosettanta).
Mitt Romney ha dalla propria con sicurezza duecentosei voti elettorali.
Incerta ancora in queste ore (è la mattina del 9 novembre) l’attribuzione dei ventinove delegati della Florida laddove i suffragi raccolti dai due sono talmente vicini da non permettere una sicura attribuzione dello Stato (“too close to call”).
Rispetto al 2008, Obama ha perso all’incirca undici milioni di voti popolari a livello nazionale prevalendo comunque sul rivale anche da questo punto di vista.
Sempre con riferimento al 2008, il Presidente ha dovuto sicuramente cedere a Romney l’Indiana e il North Carolina (vedremo, come detto, quanto alla Florida) dove allora aveva prevalso.
Guardando ai singoli Stati, i risultati percentualmente migliori colti dai due sfidanti sono, ovviamente ma non troppo (Al Gore, per esempio, nel 2000, perse proprio nel suo), nel loro Stato di nascita: Hawaii, settanta e sei per cento quanto ad Obama e Utah, settantadue e sette quanto a Romney.
Nel contempo, alla Camera dei Rappresentanti i repubblicani hanno mantenuto la maggioranza con duecentotrentadue deputati finora attribuiti (il totale dei Rappresentanti è di quattrocentotrentacinque).
Al Senato, i democratici restano il partito con il maggior numero di seggi.
Cosa è successo negli ‘Swing States’
Nel corso dell’intera campagna, si è parlato a mille riprese degli Stati in bilico, i cosiddetti ‘Swing States’.
Attribuendo, difatti, con un notevole margine di sicurezza al repubblicano e al democratico gli Stati tradizionalmente e in base ad univoci sondaggi rispettivamente ‘rossi’ e ‘blu’ (i colori dei due partiti), determinanti per la vittoria dell’uno o dell’altro risultavano sostanzialmente nove/dieci Stati.
Orbene, ripetuto che l’esito del voto in Florida è ancora ignoto, possiamo dire che Romney ha perso in ragione del fatto di non essere riuscito a sfondare proprio in questo ambito.
Il mormone ha alla fine prevalso in Indiana e North Carolina ma ha perso, a volte davvero di stretta misura, in bel altri sette territori: Nevada, Colorado, Iowa, Wisconsin, Ohio, Virginia e New Hampshire per un totale, decisivo, di sessantasei delegati.
Gli altri candidati
Due parole a proposito degli altri candidati soprattutto per sottolineare l’esito, buono e non scontato, della campagna di Gary Johnson.
L’esponente del Libertarian Party, benché non presente in tutti gli Stati, ha conseguito il miglior risultato ‘all times’ per il suo partito con circa un milione e centoquarantamila voti a livello nazionale e con punte anche del tre e mezzo per cento nel New Mexico e del due punto nove nel Montana.
Non male davvero.
Il voto: donne, neri, ispanici
Come previsto, alla fine, al fianco e a sostegno di Romney sono rimasti quasi solamente i bianchi maschi mentre le donne, di qualsivoglia etnia sia pure in percentuali diverse, hanno preferito Obama.
Detto che i neri si sono espressi per il Presidente in carica oltre il novanta per cento, va sottolineato che gli ispanici hanno costituito il dieci per cento dei votanti e votato Obama nella misura del sessantanove per cento e Romney solo in quella del ventinove.
Il web
È con ogni probabilità giunta l’ora di cancellare dalle nostre menti quanto occorso in una trascorsa circostanza ad Howard Dean, l’allora beniamino di internet per ciò stesso dato per favorito da tutti nelle Primarie democratiche e subito battuto quando dal suffragio della rete si passò a quello reale, nei seggi.
Già nel 2008, Obama aveva impostato parte notevole della sua campagna sul web e lo sforzo aveva dato confortanti esiti.
In questo 2012, viepiù.
Internet, facebook, twitter, sms: tutte le possibili diavolerie sono state brillantemente cavalcate dal suo entourage dando frutti copiosi.
Sempre più in futuro ci si combatterà in cotal modo.
Tempi e mezzi che, velocemente, assai velocemente, cambiano.
Michelle Robinson
Ho più volte sottolineato il particolare appeal di questa signora alla quale il Presidente deve davvero molto.
Ancora una volta in questa campagna, la First Lady si è dimostrata indispensabile.
Gradita alla gran parte dei cittadini, è stata capace di attirare sul coniuge il consenso non solo delle donne.
Ha combattuto per lui tenacemente credendo fortemente nella vittoria che, forse, lei assente, non sarebbe stata raggiunta.
Chapeau!”
Anche la Florida va a Obama
11 novembre 2012
“Mitt Romney ha perso anche la Florida.
È quanto ha ammesso il suo staff.
Il Presidente Barack Obama avrebbe dunque conquistato anche il Sunshine State, i cui risultati erano rimasti in sospeso da martedì notte.
Obama è in vantaggio di cinquantacinquemilaottocentoventicinque voti, e avrebbe ottenuto il quarantanove punto nove per cento delle preferenze contro il quarantanove punto due di Romney.
Secondo i membri dello staff però fra i voti rimasti da contare non ci sarebbero abbastanza aree repubblicane per far sperare in una, peraltro inutile, vittoria dello sfidante in Florida.
Romney aveva comunque già ammesso la sconfitta a livello nazionale nella notte di martedì, prima con una telefonata di congratulazioni a Obama, poi con un breve ‘concession speech’ da Boston.
Si chiude così per il mormone una campagna elettorale lunghissima, cominciata il 2 giugno 2011 in una fattoria di Stratham, in New Hampshire e andata avanti per un anno e mezzo fra Primarie ed elezioni presidenziali.
Con i ventinove Elettori della Florida Obama sale così a trecentotrentadue voti elettorali, mentre Romney si ferma a duecentosei.
Nel 2008 il Presidente in carica ne ottenne trecentosessantacinque, mentre lo sfidante repubblicano John McCain si fermò a centosettantatre”.
Le sfide del secondo mandato di un’anitra zoppa
“Dopo la non esaltante vittoria del 6 novembre, Barack Obama avrà poco tempo per riprendersi dalle fatiche della lunga campagna elettorale.
Il Presidente dovrà infatti rimettersi immediatamente al lavoro per affrontare le sfide principali del secondo mandato, a cominciare dall’enorme debito pubblico che ne ridurrà notevolmente la libertà di azione.
A minacciare i prossimi quattro anni di Obama sarà innanzitutto il pericolo del ‘fiscal cliff’, ovvero la combinazione della fine di sgravi fiscali e di tagli automatici alla spesa pubblica.
Per affrontare questo ‘precipizio fiscale’ in arrivo nei prossimi mesi, il Presidente dovrà infatti fare i conti con la Camera, a maggioranza repubblicana, probabilmente pronta a rendere difficile un accordo.
Per i prossimi due anni, fino alle elezioni di metà mandato del 2014 e ammesso che le cose allora cambino, Obama – da ‘anatra zoppa’ come viene definito un Presidente USA che si trovi nella sua situazione riguardo ad almeno uno dei rami del parlamento – dovrà continuare a confrontarsi con un Congresso diviso.
Martedì sera – come or ora ripetuto – i repubblicani hanno mantenuto il controllo della Camera, mentre il Senato è rimasto ai democratici.
Per Obama la difficoltà principale consisterà nel raggiungere un accordo fra i democratici, che non vogliono fermare l’espansione di programmi come Medicare e Medicaid, e i repubblicani, che sostengono invece come il debito debba essere ridotto attraverso tagli alla spesa e non con nuove tasse.
Obama incontrerà la disponibilità dei moderati in forza ai due partiti, ma si scontrerà con le frange più radicali.
Il 2 gennaio scadranno gli sgravi fiscali dell’era Bush e una serie di tagli automatici alla spesa potrebbero entrare in vigore immediatamente colpendo tutti i programmi federali fatta eccezione per il Social Security e il Medicaid.
Obama cercherà di imporre al Congresso l’estensione di detti sgravi fino alla fine del suo mandato e potrebbe cercare di far approvare un progetto di riduzione del debito che ritardi i tagli alla spesa almeno alla fine del 2013.
Un eventuale accordo potrebbe aumentare temporaneamente il tetto del debito che sarà raggiunto all’inizio del 2013.
Obama in campagna elettorale ha promesso di voler estendere gli sgravi fiscali per tutti, fatta eccezione per coloro che guadagnano oltre duecentomila dollari (duecentocinquantamila per le coppie).
I repubblicani vorrebbero invece mantenere gli sgravi per tutti, ma hanno poca possibilità di successo.
Il Presidente si impegnerà a mantenere la struttura di Medicare e Medicaid, i programmi di assistenza sanitaria gratuita per anziani e poveri.
In Senato però i moderati di entrambi i partiti stanno vagliando l’ipotesi di introdurre modifiche sostanziali ai due programmi.
Obama dovrà inoltre riuscire a portare avanti la riforma dell’immigrazione che aveva promesso durante il suo primo mandato.
Il Presidente potrebbe spingere per l’approvazione del Dream Act, la proposta di legge che aiuterebbe un milione settecentomila giovani immigrati, arrivati in America da bambini, ad ottenere la cittadinanza.
La legge era stata bocciata dal Senato nel 2010, ma l’amministrazione Obama si è impegnata a portarla avanti nel secondo mandato”.
Siamo sicuri che nel secondo quadriennio i Presidenti facciano meglio?
“Da sempre, si sostiene che una volta rieletto il capo dello Stato USA, svincolato dal problema e dai vincoli operativi relativi alla rielezione, possa dare il meglio di sé.
Ora, guardando ai precedenti, verrebbe voglia di dire il contrario visto che è praticamente sempre all’inizio che il Presidente americano gode di maggiore autorevolezza, non è stanco ed è in grado di agire.
Si pensi, per esempio e per restare a tempi a noi vicini, al pessimo, ingrato, pieno di trappole e problemi secondo mandato di George Walker Bush e a quello non certo esaltante del pur fortunato Bill Clinton.
In lontanissimi anni, nella prima metà dell’Ottocento, il partito whig sostenne inutilmente la proposta di ridurre ad un solo quadriennio l’impegno dell’eletto.
Come ho già scritto, i due whig effettivamente arrivati a White House, William Harrison e Zachary Taylor, mantennero fede all’impegno preso morendo nel corso appunto del primo mandato”.
Varese, 30 dicembre 2023
Attori e registi ‘Americani’? Ma quando mai?
Billy Wilder – sceneggiatore e regista di film straordinari quali almeno ‘Sabrina’, ‘A qualcuno piace caldo’, ‘L’asso nella manica’ e ‘L’appartamento’ – è in aereo.
Parla col vicino.
L’hostess lo ascolta e non può fare a meno di dirgli: “Lei mi ricorda Arnold Schwarzenegger”.
Billy, che sparirebbe nel confronto fisico con l’attore culturista, replica: “Sono bello e robusto come lui?”
“No”, conclude la signorina, “Parla come Schwarzy!”
Ed è vero: cinquant’anni negli USA e Wilder non ha perso l’accento natale, proprio come l’assai più di recente immigrato suo connazionale Arnold.
L’episodio mi è tornato alla mente tempo fa, dopo aver letto sul Corriere della Sera una didascalia che presentava l’effigiato Cary Grant definendolo “attore americano” mentre il divo in questione era inglese così come austriaco appunto Wilder.
D’altronde, infinite volte gli ignorantissimi (ovviamente, non solo in materia) media spacciano per ‘americani’ attori, sceneggiatori e registi quasi sempre invece europei.
E’ possibile affermare, a ben guardare e in qualche modo di contro, che senza i mille interpreti, scrittori e autori formatisi nel Vecchio Continente e approdati nel Nuovo, quasi tutti negli anni tra le due guerre mondiali, Hollywood sarebbe sì nata ma assai difficilmente sarebbe diventata quello che è (o, meglio, era, ove si guardi al livello culturale).
E valga il vero.
Charles Chaplin era inglese come James Whale e Alfred Hitchcock.
Erich von Stroheim, Fritz Lang, Josef von Sternberg, Otto Preminger, Edgar Ulmer anch’essi austriaci.
Lewis Milestone moldavo.
Ernst Lubitsch e William Wyler tedeschi.
Frank Capra italiano.
Michael Curtiz ungherese.
Rouben Mamoulian e Elia Kazan armeni.
Inglesi che vengono spacciati per ‘born in USA’, oltre al citato Grant, attori come Jean Simmons, Stewart Granger, Julie Andrews, Elizabeth Taylor, Jessica Tandy e via all’infinito in particolare se si guarda ai cast dei diversi telefilm.
D’altra parte, ‘americani’ e quindi in verità statunitensi (brutto vocabolo che non si usa mai) sono sempre detti anche i mille e mille canadesi che hanno, in alcuni casi, più di recente invaso la Mecca del cinema e, anch’essi, gli studi televisivi.
Sono nati nel freddo Canada (e mi limito ai nomi celebri o al giorno d’oggi più noti perché l’elenco, ove includessi tutti i divi d’antan, sarebbe lunghissimo) gli attori Dan Aykroyd, Raymond Burr, Neve Campbell, John Candy, Jim Carrey, Kim Cattral, Hume Cronyn, Lolita Davidovich, Yvonne De Carlo, Deanna Durbin, Michael J. Fox, Brendan Fraser, Ryan Gosling, Boris Karloff, Alexander Knox, Rick Moranis, Kate Nelligan, Leslie Nilsen, Sandra Oh, Matthew Perry, Mary Pickford, Walter Pidgeon, Oliver Platt, Christopher Plummer, Jason Priestley, Keanu Reeves, Ryan Raynolds, Saul Rubinek, Mack Sennett, William Shatner, Norma Shearer, Donald Sutherland, Nia Vardalos, Fay Wray.
E i registi James Cameron, David Cronenberg, Atom Egoyan, Sidney Furie, Paul Haggis, Arthur Hiller, Norman Jewison, Ted Kotcheff, Ivan Reitman, Mark Robson, Roger Spottiswood…
Dovessimo, poi, aggiungere all’elenco e detrarre dal numero gli australiani e i neozelandesi, quanti, infine, gli ‘americani’ di Hollywood e dintorni?
Varese, 30 dicembre 2023
El Morocco
Ai tempi di Reykjavik.
Sfida per il mondiale delle sessantaquattro caselle Boris Spasskij/Bobby Fischer.
Tutti a parlare del QI.
Di quello, incredibile, dell’americano, in specie.
E fiorivano le leggende.
E si raccontava di quella volta che Albert Einstein aveva spiegato la teoria della relatività al barman di El Morocco – il centro indiscutibile della ‘caffè society’ nella ‘Grande Mela’ (e non solo) tra i Trenta e i Cinquanta.
E quello l’aveva capita!
E ci si chiedeva quale mai livello di QI avesse.
El Morocco, con i suoi divani e i suoi specchi.
Con i divi, gli intellettuali, i miliardari.
I bicchieri di champagne e ii fumo delle immancabili sigarette
El Morocco’, opera di un magnifico piemontese trapiantato a New York, capace di creare uno stile, un modo.
John Perona, da Chiaverano.
Mitico!
Varese, 29 dicembre 2023
Il 15 gennaio con il Caucus dell’Iowa si apre la campagna per la Nomination repubblicana.
Ecco il sondaggio in proposito a ieri 28 dicembre secondo l’autorevole FiveThirthyEight:
Trump 50.0%
DeSantis 18.4%
Haley 15.7%
Ramaswamy 6.0%
Christie 3.7%
Hutchinson 0.5%
Varese, 29 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (ventiduesima parte)
2004
Si vota il 2 novembre.
Alle urne il cinquantasei e sette per cento degli aventi diritto con un aumento rispetto al 2000 del cinque e cinque, non poco.
Da notare, che per la prima volta dal 1988 – da quando aveva vinto suo padre – nel 2004 un Presidente, George Walker Bush, viene eletto con la vera maggioranza (non determinante, si sa) dei voti popolari.
Questo perché Bill Clinton sia nel 1992 che nel 1996 aveva ricevuto meno suffragi di quanti toccati in totale ai due rivali (prima George Herbert Bush e Ross Perot e poi Bob Dole e ancora Ross Perot) mentre lui stesso nel 2000 aveva collezionato poco più di mezzo milione di voti in meno di Al Gore.
Nel Partito Repubblicano tutto facile per il duo G.W.B/Dick Cheney, intorno al quale il GOP si schiera dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e dopo le conseguenti guerre ancora peraltro in corso.
Di certo, una spinta sia all’interno del suo partito che a livello elettorale finale la dette all’uscente anche la cattura verso la fine del 2003 di Saddam Hussein.
Tra i democratici, in una dapprima serrata e dipoi più tranquilla competizione, prevale il cattolico Senatore del Massachusetts John Kerry, in seguito, Segretario di Stato di Barack Obama nel secondo mandato.
Suoi oppositori, soprattutto, il Senatore del North Carolina John Edwards – alla fine, con lui nel ticket – e l’ex Governatore del Vermont Howard Dean, all’inizio della contesa favorito dai sondaggi per l’appoggio che risultava avesse nel web.
Stranamente – ma non molto, dato che nel mondo, con poche eccezioni, si sostiene sempre il candidato democratico, chiunque praticamente sia (a prescindere, direbbe Totò) – Kerry fu dato per vincente praticamente durante l’intera campagna, salvo finire, invece, sconfitto.
Da notare che il GOP vinse nella circostanza in Colorado, Nevada, New Mexico e Virginia.
Il risultato finale vide G.W.B prevalere in termini di voti popolari di circa tre milioni di suffragi mentre quanto agli Elettori il voto vide duecentoottantasei di loro esprimersi per Bush e duecentocinquantuno per Kerry.
Al totale di cinquecentotrentotto manca un suffragio che nell’occasione un delegato del Minnesota assegnò a John Edwards (fra l’altro, scrivendo erroneamente ‘Ewards’).
Quanto agli Stati, il repubblicano ne conquistò trentuno mentre al democratico ne andarono diciannove più il Distretto di Columbia.
2008
Si vota il 4 novembre e la percentuale dei partecipanti è pari al cinquantotto e due per cento degli aventi diritto.
Il Partito Democratico, a Denver, nomina Barack Obama, Senatore nero dell’Illinois (è la prima volta di un uomo di colore a tale livello).
Obama ha sconfitto dopo lunga e aspra contesa Hillary Rodham Clinton, già First Lady e Senatrice in termine di mandato del New York.
Il Partito Repubblicano, a Saint Paul, converge sul Senatore dell’Arizona ed eroe di guerra (Vietnam) John McCain, uscito vincitore dal confronto con un notevole numero di rivali tra i quali va segnalato l’ex Governatore del Massachusetts Mitt Romney.
Il democratico prevale nettamente (fra l’altro, catturando un numero eccezionale di elettori) e conquista trecentosessantacinque Elettori (iniziale maiuscola, come sapete) contro i centosettantatre dell’avversario.
Gli Stati sono ventotto più il Distretto di Columbia (più, per il vero, un delegato del Nebraska) a ventidue.
Annotazioni
Obama alla Casa Bianca
(il testo che segue è stato scritto d’impeto e pubblicato su Il Foglio il 5 novembre 2008, ventiquattro ore dopo la vittoria di Barack Obama)
“Non più di tre giorni fa, su queste medesime colonne, testualmente scrivevo:
‘Oggi, se la rimonta di John McCain in corso dovesse permettergli di vincere in Florida, Ohio e Pennsylvania – detentori in totale di sessantotto voti elettorali – potremmo scoprire che tutti quei giornalisti che da giorni bivaccano a Chicago per essere vicini al vincitore promesso hanno sbagliato indirizzo e meglio avrebbero fatto ad andare in Arizona.
Certo è che, mentre un successo del repubblicano, seppur clamoroso date le premesse, sarebbe alla fin fine per molti versi ‘normale’ (un altro Wasp a White House: che barba!), una vittoria del democratico sarebbe qualcosa di storicamente straordinario non tanto e non solo per il colore della sua pelle quanto appunto perché i bianchi, anglosassoni e protestanti (solo John Kennedy tra tutti gli eletti non era protestante) abdicherebbero e forse per sempre (asiatici e ispanici crescono di numero a vista d’occhio) al più alto segno del potere: lo scranno presidenziale’.
Potrei, quindi, ora, a bocce ferme, semplicemente cavarmela dicendo che avendo il 4 novembre John McCain perso proprio nei tre Stati sopra indicati era per lui impossibile conquistare lo scranno presidenziale.
È vero però che quanti mi hanno seguito leggendo le mie riflessioni in questi due lunghi anni di campagna per White House sanno che ritenevo l’America non ancora pronta a un tale, radicale cambiamento che temporalmente collocavo tra quattro/otto anni.
Quali, quindi, ad una prima analisi, le ragioni che hanno portato gli USA, oggi e non domani, a questo epocale risultato e, se mi è consentito, il sottoscritto a sbagliare il pronostico che ‘azzeccava’ dal 1956?
Per cominciare, addirittura dal 1928 era la prima volta che non partecipavano alla ‘corsa’ né un Presidente in cerca di un nuovo mandato né un Vice desideroso di subentrargli (nel 1952, Truman, apparentemente non in gara, in verità si era proposto all’inizio nelle Primarie salvo ritirarsi poco dopo).
Per questa ragione la campagna è stata tanto lunga (la più lunga di sempre!) e articolata in entrambi gli schieramenti dando il tempo ai candidati di illustrarsi al meglio e agli elettori di accettare più facilmente l’idea di una possibile, democraticissima ‘rivoluzione’.
Poi, Obama ha avuto l’accortezza, l’intelligenza di non proporsi mai come ‘il candidato nero o di colore’ ma semplicemente come un qualsiasi candidato.
Non ha in nessun caso sottolineato, come fece Jesse Jackson negli anni Ottanta del Novecento, la sua diversità, si è rivolto a tutti e ha in seguito scoperto (sconfiggendo Hillary Clinton nelle Primarie) che era davvero il momento giusto per in tal modo agire.
Poi ancora, a Nomination ottenuta e nel mentre i sondaggi nazionali davano comunque in vantaggio, sia pure a giorni alterni e di poco, il repubblicano, ecco scoppiare la latente e profonda crisi economica.
Come avevo in precedenza in più occasioni scritto, storicamente, proprio il deflagrare di una situazione economicamente difficile e pesante aveva già in passato favorito i democratici: così con Grover Cleveland nel 1884, con Franklin Delano Roosevelt, ovviamente nel 1932, e persino con Bill Clinton nel 1992.
Gli elettori, in tali frangenti, pensano che sia meglio cambiare cavallo addossando al partito in carica, giusto o meno che sia, gran parte della responsabilità.
Ha senza dubbio, inoltre, avuto un peso rilevante (vedremo quale allorquando saranno noti nello specifico i dati relativi alle affluenze) il fatto che McCain fosse un candidato repubblicano ‘di minoranza’ visto che il meccanismo in uso nelle Primarie nel GOP (‘winner take all’, in molti Stati) gli ha permesso di cogliere la Nomination essendo espressione non della maggioranza assoluta dei repubblicani ma solo di una consistente maggioranza relativa.
La successiva scelta di Sarah Palin alla ricerca della necessarissima ‘copertura’ a destra non ha convinto – certamente, lo scopriremo dai flussi elettorali – gli indispensabili, ai fini della vittoria e come si era visto quattro anni orsono, evangelici e conservatori.
E neppure ha avuto il da me ipotizzato forte impatto la questione concernente la futura nomina da parte dell’eletto di due giudici della Corte Suprema che sarà a breve chiamata a decidere in merito a questioni etiche di rilievo (aborto, matrimoni gay…).
Ed è a mio parere questa – una certa disattenzione nei confronti dei valori morali – la seconda ‘rivoluzione’ che può portare a concludere per una futura, magari lenta, ‘scristianizzazione’ USA.
Infine, possono avere avuto un impatto comunque significativo l’età dei due antagonisti (il giovane dinamico e il vecchio) e una certa stanchezza a proposito della continua sottolineatura da parte repubblicana dell’eroismo bellico di John McCain: non è forse ora, nel mentre ci si batte in Iraq e Afganistan, di dimenticare almeno il Vietnam?
Tutto questo e molto altro ancora e Barack Obama sarà a White House a partire dal prossimo 20 gennaio 2009.
Speriamo davvero che, come ha detto lo sconfitto riconoscendone il successo, tutta la nazione sappia sostenerlo e che egli, come ha affermato nel discorso seguente alla vittoria, sia sul serio in grado di degnamente rappresentare vincitori e vinti.
Abbiamo assistito ancora una volta alla concretizzazione del ‘sogno americano’ e che Dio ci aiuti!”
La terza rivoluzione
(Il testo che segue è stato vergato con qualche maggiore riflessione il 14 novembre 2008, dieci giorni dopo l’elezione di Obama)
“L’elezione, il trascorso 4 novembre, del Senatore democratico Barack Obama alla Presidenza degli Stati Uniti va considerata a tutti gli effetti rivoluzionaria, e questo non tanto e non solo per il colore della pelle del vincitore quanto perché per la prima volta dal 1788/89, allorché venne prescelto George Washington, con la sola parziale eccezione di John Kennedy (cattolico), gli Wasp – white, anglosaxon and protestant = bianchi, anglosassoni e protestanti – hanno perso lo scranno presidenziale.
Che la cosa dovesse avvenire, anche se (come ho più volte scritto) non così presto, era nell’aria considerato che altre e differenti etnie (si pensi, oltre ai neri, agli asiatici in genere, e a cinesi e indiani in particolare, nonché agli ispanici più degli altri in continua espansione) andavano nel Paese aumentando di numero fino a ridurre pressappoco in minoranza i predetti wasp.
A ben guardare, è questa la ‘terza rivoluzione americana’ ove per prima si intenda, ovviamente, quella che negli anni Settanta/Ottanta del Settecento portò all’Indipendenza e per seconda quella, pacifica ed assai meno conosciuta, datata 1828 anno in cui la sconfitta del Presidente in carica John Quincy Adams, ultimo esponente della classe politica (una specie di aristocrazia terriera) che aveva ideato e ‘fatto’ gli Stati Uniti, e il conseguente arrivo del nuovo Capo dello Stato Andrew Jackson segnò la conquista del potere da parte della borghesia.
Fatto è, comunque, che a partire dal mezzogiorno del prossimo 20 gennaio, Obama sarà ufficialmente a capo della (sia pur economicamente, forse, declinante) più grande potenza mondiale.
Al di là delle attese fuori luogo e ridicole di quanti vedono il lui il nuovo Messia e sono certi che porterà la pace e il cambiamento (qualsiasi cosa questo vocabolo abusatissimo in politica possa significare), l’impegno al quale il neo Presidente si accinge è, naturalmente, gravosissimo ed è in primo luogo assolutamente certo che, vista la crisi in atto e le conseguenti difficoltà, non potrà dare seguito e attuazione alle infinite promesse fatte nel corso della campagna elettorale.
Guardando, poi, con occhio attento alla realtà storica, ai precedenti che in quanto Senatore e in quanto democratico riguardano Obama, c’è da preoccuparsi.
I quattro Presidenti che, prima di lui, tali sono diventati passando direttamente dalla Camera Alta a White House si sono rivelati, nei fatti, tra i peggiori capi di Stato USA.
Si tratta, nell’ordine, di Franklin Pierce, Benjamin Harrison, Warren Harding e John Kennedy, due dei quali (Harding per un infarto e Kennedy a seguito del famosissimo attentato di Dallas), fra l’altro, morti in carica.
I suoi predecessori democratici afferenti al ventesimo secolo, con la sola eccezione di Jimmy Carter, hanno tutti portato il Paese in guerra: Woodrow Wilson nella Prima Mondiale, Franklin Delano Roosevelt nella Seconda, Harry Truman in quella di Corea, Kennedy e Lyndon Johnson in quella del Vietnam, Bill Clinton in quella della ex Jugoslavia.
Che Dio assista Obama, gli USA (che, del resto, secondo Bismarck, ‘con i bambini, gli ubriachi e i matti sono vegliati da un particolare tipo di Provvidenza divina’) e noi tutti”.
Varese, 29 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (ventunesima parte)
1992
Alle urne il 3 novembre.
Vota il cinquantacinque e due per cento degli aventi diritto con un aumento pari al cinque, dati i tempi, decisamente non poco.
Con ogni probabilità, a convogliare, sia pure relativamente, un numero maggiore di elettori è che per la prima volta da due decenni abbondanti (l’ultimo precedente serio data 1968 e riguarda George Wallace) un terzo candidato ha voce in capitolo.
Per il vero, l’indipendente miliardario texano Ross Perot, nella circostanza, conquista addirittura il diciannove per cento del voto popolare ma non vince neppure uno Stato, ragione per la quale incide solo togliendo a George Herbert Bush l’acqua nella quale nuota abitualmente o almeno così la maggior parte degli osservatori ritiene.
Da segnalare che, essendo il gradimento nei sondaggi del texano particolarmente rilevante viene ammesso ai dibattiti televisivi nazionali nella fase conclusiva della tornata.
Nel campo repubblicano, per quanto il Presidente uscente sia decisamente riproponibile e con buone possibilità (si è conclusa positivamente la Guerra del Golfo cosa che farà erratamente ritenere Bush imbattibile da parte dei big democratici che lasceranno strada a un outsider, come vedremo), non mancano le critiche che si incarnano nel giornalista e opinionista tv nonché ex consigliere presidenziale Patrick Buchanan.
Nominato comunque a Houston – sempre seguito dal criticatissimo Vice Dan Quayle – George Herbert Bush sarà protagonista di una campagna in tono minore che Maldwyn Jones afferma essere stata poco a contatto con la gente comune e distante dai problemi di tutti i giorni degli elettori.
Il Partito Democratico invece, fuori gioco come detto Gary Hart e incredibilmente assente il Governatore del New York Mario Cuomo che tutti i sondaggi davano per favorito, schiera nelle Primarie un notevole numero di candidati.
Tra gli altri, il Governatore della California Jerry Brown, l’ex Senatore del Massachusetts Paul Tsongas, il Senatore del Nebraska Bob Kerrey, il Senatore dell’Iowa Tom Harkin e, estremo outsider in quanto proveniente da uno Stato periferico e trascurato, il Governatore dell’Arkansas Bill Clinton.
Abilissimo e in grado di convincere un eschimese a comprare un frigorifero, mettendo in fila una serie di successi nelle Primarie, sarà quest’ultimo ad ottenere a Houston la Nomination.
Come altra volta detto, molto difficile la defenestrazione di un Presidente in carica e in cerca di rinnovo se quegli è un democratico.
Più facile, quando si tratti di un repubblicano.
Approfittando della citata malavoglia di Bush, della crisi economica e dei provvedimenti presi dalla sua amministrazione per contrastarla (il negato aumento delle tasse invece attuato), Clinton riuscirà a vincere nettamente in questo imitando i predecessori esponenti dell’Asinello Grover Cleveland (vittorioso su Benjamin Harrison), Woodrow Wilson (su William Taft), Franklin Delano Roosevelt (su Herbert Hoover) e Jimmy Carter (su Gerald Ford).
I risultati?
Clinton, trentadue Stati più il Distretto di Columbia e trecentosettanta Elettori,
G. H. Bush, diciotto Stati e centosessantotto voti al Collegio.
Per inciso, Bush – l’abbiamo già detto – era il secondo Vice capace di approdare a White House subito dopo avere esercitato il ruolo.
Prima di lui, addirittura nel 1836, Martin Van Buren.
Ebbene, proprio come Van Buren, non gli riuscì di essere confermato.
1996
Convocati alle urne il 5 novembre, gli elettori nella circostanza latitano e si scende al quarantanove per cento degli aventi diritto, la più bassa percentuale dal 1924.
Anche in questa occasione, corre Ross Perot, in rappresentanza però del Reform Party da lui fondato.
Non avrà lo stesso sostegno di quattro anni prima anche se comunque riceverà l’otto e quattro per cento del voto popolare.
Bill Clinton pare in difficoltà e il suo partito maggiormente.
Le Mid Term Elections datate 1994 sono andate male e il GOP – che ha scritto e stipulato il ‘Contratto con l’America’ – si è preso tutto: maggioranza al Senato, alla Camera, nei Governatorati.
Comunque, è ancora il ticket Clinton/Gore a ricevere la Nomination democratica in quel di Chicago.
E ricordo nuovamente che il Presidente in carica e in cerca di conferma se democratico di solito prevale.
Solo Jimmy Carter, nel 1980, alla fine, tra i membri eletti dell’Asinello non è riuscito nell’intento.
Non altrettanto si può in fondo e del tutto dire trattando di Grover Cleveland che fu sconfitto nel 1888 in termini di delegati ma vinse il voto popolare e comunque seppe tornare a White House nel successivo 1892 prendendosi la rivincita.
Nel campo avverso, l’ex Senatore Bob Dole, già leader della maggioranza alla Camera Alta e candidato Vice con Gerald Ford nel 1976, prevale in quel di San Diego su un discreto numero di rivali che si sciolgono prima o durante le Primarie e i Caucus come neve al sole.
Fra loro, l’editore Steve Forbes e di nuovo il già Consigliere presidenziale Pat Buchanan.
A comporre il ticket, l’ex campione di football e dipoi Ministro Jack Kemp.
Si intravvede il futuro Presidente George Walker Bush, Governatore del Texas, che declina l’invito a correre decidendo di aspettare.
Per il Green Party, in lizza Ralph Nader che ottiene meno di settecentomila voti.
Lo ritroveremo nel 2000.
Ed ecco i risultati:
Bill Clinton, trentuno Stati più il Distretto di Columbia e trecentosettantanove Elettori;
Bob Dole, diciannove Stati e centocinquantanove voti al Collegio.
2000
Si vota il 7 novembre.
Lieve aumento (poco più di un punto) del numero dei votanti che percentualmente risultano essere il cinquantuno e due per cento degli aventi diritto.
Cataclisma.
A distanza di centoventiquattro anni, si ripete – almeno per quanto riguarda la Florida – quanto accaduto appunto nel 1876.
Allora, il duro confronto per la Presidenza si risolse con un compromesso.
Ora, a decidere è la Corte Suprema.
Un passo indietro, per configurare il quadro del confronto che vede come sempre i democratici e i repubblicani in lotta.
Fuori gioco Bill Clinton, impossibilitato ad avere una terza chance visto il disposto dell’Emendamento del 1951 in merito, il Partito dell’Asino vede in gara per la Nomination il Vice Presidente uscente Al Gore e il grande ex giocatore di basket, già per diciotto anni Senatore per il New Jersey Bill Brady.
Il campione corre bene ottenendo nelle Primarie e nei Caucus democratici il ventuno per cento del voto popolare ma, contrariamente a quando giocava, non vince mai.
Terzo incomodo – si fa per dire – un classico ‘Perennial Candidate’, Alan Keyes.
Facile l’investitura di Gore in quel di Los Angeles.
Lo affianca, il Senatore del Connecticut Joe Lieberman.
Il Partito dell’Elefante, invece, vede scendere in pista il Governatore del Texas George Walker Bush, su posizioni conservatrici e abbastanza isolazioniste.
È figlio di George Herbert e nipote del Senatore Prescottt.
Suo fratello Jeb è Governatore della Florida (!?).
Il secondo Bush candidato a White House (il nonno non ci aveva provato) si scontra per la Nomination con il Senatore dell’Arizona ed eroe di guerra John McCain.
Prevale e nel ticket i repubblicani collocano Dick Cheney, già Segretario alla Difesa con Bush padre.
Corre anche il verde Ralph Nader e la sua candidatura, secondo i democratici, è causa della elezione alla Casa Bianca di G.W.B..
Fatto è – torniamo a bomba – che al termine dello scrutinio dei voti espressi in Florida la situazione è ‘too close to call’ e non è chiaro a quale dei due candidati principali debbano andare i ventinove Elettori dello Stato.
Chi li avrà, sarà Presidente.
Ebbene, mentre la differenza tra Bush e Gore è minima davvero, il citato verde riceve quasi centomila voti di preferenza nell’ex colonia spagnola, cosa che porterà dipoi l’Asinello a rammaricarsi della sua partecipazione.
Conteggi, comunque, e riconteggi.
Ricorsi fino alla Corte Suprema.
Una situazione che viene risolta proprio dalla Corte che aggiudica la Florida e pertanto la Presidenza al secondo Bush.
I controlli fatti più avanti daranno effettivamente vincente nello Stato con capitale Tallahassee per la miseria di cinquecentotrentasette suffragi il repubblicano.
Fra l’altro, lo sconfitto prevale per voti popolari sul piano nazionale.
Ecco i risultati finali:
George Walker Bush, trenta Stati e duecentosettantuno Elettori (uno solo più della maggioranza assoluta richiesta);
Al Gore, venti Stati e il Distretto di Columbia per un totale di duecentosessantasei suffragi al Collegio.
Come si vede, manca il voto di un membro del Collegio astenutosi nella circostanza.
Varese, 29 dicembre 2023
Lincoln già nel 1858 contro il “governo dei bianchi per i bianchi”
Dimenticato, trascurato dai più – del tutto dagli esperti tanto a un chilo che affollano i media – il forte, infine insanabile, contrasto ideale, ideologico, politico, istituzionale, tra Stephen Douglas, democratico, e Abraham Lincoln, repubblicano, datato 1858.
(I due, con John Breckinridge terzo incomodo a dividere il fronte dell’Asino quindi soccombente, si ritroveranno nel decisivo eccome 1860).
Assolutamente articolato il confronto – sette tra agosto e ottobre i pubblici dibattiti concorrendo l’uno contro l’altro per il Senato dell’Illinois (Douglas, incumbent, fu confermato) – brutalmente semplificando quanto alla fondamentale contrapposizione a proposito dei diritti umani, der Stand der Dinge può forse essere così cristallizzato:
Douglas: “Questo governo è stato creato dai nostri Padri su basi bianche.
È stato pensato da uomini bianchi per il beneficio di uomini bianchi e per i loro posteri!”
Lincoln: “Non c’è alcun motivo al mondo per cui i neri non debbano godere dei diritti naturali elencati nella Dichiarazione di Indipendenza: alla vita, alla libertà, al perseguimento della felicità.
Credo ne abbiano diritto quanto gli uomini bianchi!”
Sarà di lì a poco più di due anni – il primo repubblicano essendosi insediato alla Casa Bianca – guerra.
Varese, 29 dicembre 2023
Un Presidente USA dittatore ribelle in vista di un possibile impeachment?
(E mi viene in mente quanto ebbe a dire Bertolt Brecht e cioè che “un fascismo americano sarebbe democratico!”)
Uscito in coincidenza con l’Insediamento del 1933 (l’anno precedente il Dow Jones Industrial Average aveva raggiunto il minimo di mercato) di Franklin Delano Roosevelt, ‘Gabriel over the White House’ un film hollywoodiano diretto da Gregory La Cava e prodotto da William Randolph Hearst, narra di un Presidente degli Stati Uniti immaginario (interprete il grande Walter Huston) che, minacciato di essere sottoposto ad impeachment, irrompendo in una seduta congiunta del Congresso, dice:
“Avete sprecato giorni, settimane e mesi preziosi a discutere inutilmente.
È tempo di agire con prontezza ed efficacia!”
Dopodiché, rinvia la seduta e assume il totale controllo del governo.
Al successivo grido di un Senatore:
“Questa è una dittatura!”, risponderà:
“Le parole non mi spaventano!”
Varese, 28 dicembre 2023
Da 538, FiveThirtyEight, il sondaggio datato 27 dicembre riguardante i candidati alla Nomination repubblicana
Trump 61.2%
DeSantis 11.7%
Haley 11.0%
Ramaswamy 3.5%
Christie 3.4%
Hutchinson 0.6%
Varese, 28 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (ventesima parte)
1980
Al voto il 4 novembre.
Cinquantadue e sei per cento gli elettori effettivamente andati alle urne.
Quanto agli Elettori e alla maggioranza assoluta, lo sappiamo, a seguito dell’entrata nell’Unione di Alaska ed Hawaii e dopo l’approvazione dell’Emendamento che riconosce rappresentanza in materia anche al Distretto di Columbia, i numeri si sono stabilizzati e resteranno tali fino ad oggi (e cambieranno, salvo cataclismi non augurabili come la Guerra di Secessione, per carità, solo con l’entrata nell’Unione di un eventuale cinquantunesimo Stato): cinquecentotrentotto i membri del Collegio da eleggere e duecentosettanta il minimo da raggiungere.
Il sistema Primarie e Caucus per la scelta dei delegati alla Convention?
Certo, il Partito Repubblicano aveva introdotto le Primarie a livello appunto delle presidenziali già nella tornata del 1912 ma pochi gli Stati allora coinvolti.
Ancora nel 1968, solo il quaranta per cento dei citati delegati era effettivamente scelto dagli elettori.
È proprio nel 1980 che il meccanismo entra pienamente in funzione: trentasette Stati su cinquanta lo adottano.
Moltissimi i cittadini coinvolti, un trionfo della democrazia di base.
Il Presidente in carica, Jimmy Carter, era talmente poco difendibile per i numerosi insuccessi specie in politica estera da temere grandemente la sfida interna all’Asinello portatagli dal Senatore del Massachusetts Edward ‘Ted’ Kennedy, fratello di John e di Robert.
Corre per poco tempo anche il Governatore della California Jerry Brown .
Tra alti e bassi, malgrado la veemenza degli attacchi di Ted, Carter riesce a prevalere di poco nelle Primarie e ad essere nuovamente candidato in una Convention nuovaiorchese nella quale serpeggia una pesante aria di sconfitta.
A comporre il ticket, il Vice Presidente uscente Walter Mondale.
Nel GOP, corsa in testa dell’ex Governatore della California Ronald Reagan che mano mano acquista vantaggio nei confronti di uno sfidante certamente di valore quale l’ex Ambasciatore all’ONU e in Cina nonché Direttore della CIA George Herbert Bush.
Per il vero, esiste e si palesa un terzo incomodo: il Rappresentante dell’Illinois John Anderson il quale, sconfitto, esce dal partito e si candida come indipendente.
Alla sfida conclusiva per White House numerosi altri candidati, peraltro significativi solo al fine di rappresentare comunque una idea: un libertariano (il Libertarian Party è stato fondato nel 1971), un socialista, un comunista e via elencando.
Una campagna strana con due concorrenti maggiori poco amati (Reagan diventerà Reagan governando!).
Una campagna all’inizio della quale Anderson pare debba avere numerosi sostenitori in specie nelle Università tra docenti e studenti (raccoglierà un dignitoso sei e sei per cento dei suffragi popolari).
Alla fine, ulteriormente azzoppato dai fatti iraniani e dai fallimenti delle azioni intraprese per liberare gli ostaggi USA prigionieri nell’ambasciata di Teheran, Carter perde rovinosamente.
Da sottolineare il fatto che si tratta storicamente dell’unica occasione nella quale uno sfidante repubblicano riesce a defenestrare un Presidente uscente e ricandidato democratico.
Non può essere messo sullo stesso piano infatti quanto occorso nel 1888, allorquando l’Asinello Grover Cleveland era stato battuto ed estromesso dal GOP Benjamin Harrison in primo luogo perché Cleveland aveva comunque vinto quanto a voti popolari e in secondo luogo perché lo stesso sarà capace nel 1892 di rivincere arrivando pertanto a conquistare, caso unico, la Casa Bianca due volte con un intermezzo.
I voti?
Ronald Reagan, quarantaquattro stati e quattrocentoottantanove Elettori.
Jimmy Carter, sei Stati e quarantanove voti nel Collegio.
1984
Si vota il 6 novembre e alle urne si reca il cinquantatre e tre per cento degli aventi diritto.
Certo, nella temperie, il Partito Democratico (dovendo affrontare un Presidente uscente repubblicano in grandissimo spolvero che vantava successi in ogni campo, dalla politica economica a quella interna a quella internazionale) era sulla graticola.
Demolito, strabattuto – vedremo fra poco in quale misura e basti qui ricordare che il solo Alf Landon nel 1936, fra tutti i candidati a White House, aveva fatto peggio – il suo esponente, a cosa avrebbe potuto guardare per avere, nutrire speranze?
A due cose e mezzo di non poco conto, a dire il vero.
Al fatto che per la prima volta nella storia a far parte di un ticket di uno dei due partiti maggiori, sia pure solo come candidata alla Vicepresidenza, c’era una donna: Geraldine Ferraro, all’epoca alla Camera dei Rappresentanti, per di più cattolica.
Al fatto che ancora per la prima volta dalle sue fila usciva un candidato di colore di reale spessore: il reverendo Jesse Jackson, fra l’altro il primo nero capace di vincere qualche Primaria e, vedremo, ancora più performante quattro anni dopo.
Al fatto che il candidato interno alternativo sconfitto da Walter Mondale (sarà appunto l’ex Vice di Jimmy Carter a prevalere e ad ottenere la Nomination nella Convention di San Francisco) fosse il Senatore del Colorado Gary Hart – in seguito costretto ad abbandonare la scena politica nazionale per uno scandalo sessuale ma uomo di grandi capacità.
Dall’altra parte, Ronald Reagan è in cerca di primati e ottiene il novantotto e settantotto per cento dei voti nelle Primarie e nei Caucus, venendo candidato a Dallas per acclamazione.
E primati vari il GOP – il Vice in corsa è il confermatissimo George Herbert Bush – stabilirà o pareggerà anche nelle votazioni novembrine, nelle quali catturerà, come aveva fatto Nixon nel 1972, quarantanove Stati su cinquanta (lasciando a Mondale, oltre al Distretto di Columbia, che vota sempre democratico, solo il suo Stato natale e cioè il Minnesota) arrivando a poter contare in sede di Collegio Elettorale addirittura su cinquecentoventicinque Elettori contro tredici.
Anche in termini di voto popolare, la disfatta democratica è durissima visto che i suffragi dell’Asinello superano appena il quaranta per cento.
Da segnalare – a sottolineare l’impeto personale del Presidente uscente e rieletto – il fatto che dopo di allora il Massachusetts, il New York, l’Oregon, le Hawaii, il Rhode Island e il Washington non voteranno più repubblicano.
Con Ronald Reagan – il più anziano candidato fino ad allora (Joe Biden era lontano lontano oltre l’orizzonte) alla Casa Bianca e il più vecchio Presidente in carica (anche qui, Biden straccerà tale primato) – arriva al termine la cosiddetta ‘maledizione dell’anno zero’ che aveva visto morire nell’esercizio del mandato tutti i Presidenti eletti o rieletti appunto in un anno con finale zero dal 1840 in poi: William Harrison, Abraham Lincoln, James Garfield, William McKinley, Warren Harding, Franklin Delano Roosevelt, John Kennedy.
Per il vero, un attentatore cercò di dare continuità alla ‘maledizione’ predetta ma non riuscì nell’intento.
1988
Chiamati alle urne l’8 novembre, gli elettori – orfani di un Presidente di successo e carismatico come Ronald Reagan cui il famoso Emendamento del 1951 impedisce una terza elezione e del quale pertanto rende improponibile la candidatura – non accorrono numerosi e la percentuale dei votanti si ferma al cinquanta e due.
Una campagna particolare e probabilmente quella nella quale i sondaggi, in uso dal 1936 quanto alle presidenziali, furono maggiormente altalenanti.
(Per inciso, non semplicemente sbagliati, volutamente o meno, come nel 1948 e soprattutto nel 2016).
Il candidato democratico Michael Dukakis, difatti, a giugno risultava vincente con un margine stratosferico – il diciassette per cento – sul rivale GOP George Herbert Bush per dipoi declinare e perdere con un distacco netto del dieci.
La battaglia interna ai due schieramenti nel corso di Caucus e Primarie era stata incerta almeno inizialmente.
Dukakis, Governatore del Massachusetts, prima di essere investito con facilità alla Convention di Atlanta, aveva difatti dovuto contrastare il Reverendo Jesse Jackson, per la seconda volta in corsa per la Nomination dell’Asino.
Quanto al secondo componente il ticket dem, la scelta cade sul Senatore Lloyd Bentsen, texano e considerato utile al fine di conquistare gli Stati del Sud.
Guardando agli altri pretendenti – a quelli in corsa anche solo per un momento – almeno due i nomi da segnalare perché a loro l’Asinello ricorrerà più avanti: i Senatori Al Gore del Tennessee e Joe Biden del Delaware.
Tra i repubblicani, il Vice Presidente George Herbert Bush – infine, acclamato alla Convention di New Orleans – aveva a sua volta trovato nelle prime consultazioni un oppositore di qualche peso nel leader GOP al Senato Bob Dole.
Trascurabile, invece, la conflittualità con il predicatore Pat Robertson.
Bush (che sarà dopo Martin Van Buren nel 1836 il secondo Vice ad arrivare a White House nel mandato immediatamente successivo a quello nel quale aveva esercitato appunto da secondo) sceglie quale suo coequipier il giovane Senatore dell’Indiana Dan Quayle.
(Sarà, Quayle, talmente incolore e incapace che nel successivo 1992 la propaganda democratica, martellando, ripeterà il minacciosissimo slogan “Non votate Bush. Dovesse morire gli succederebbe Quayle!”).
Una campagna – quella finale tra Bush e Dukakis – tra le peggiori quanto a livello etico, visto che i due campi si rivolsero accuse, molte decisamente inventate – di ogni tipo e genere.
L’esito?
Bush, quaranta Stati e quattrocentoventisei Elettori.
Il Governatore del Massachusetts dieci Stati oltre al Distretto di Columbia e centoundici voti al Collegio.
Come si vede, all’appello (cinquecentotrentotto i membri del Collegio) manca un voto.
Ebbene, un ‘Grande Elettore’ del West Virginia si espresse infine non per Dukakis/Bentsen ma per Bentsen/Dukakis.
Contento lui…
Varese, 28 dicembre 2023
Montpellier e Montpelier, cosa vuol dire una elle in più o in meno
La capitale dello Stato americano del Vermont si chiama Montpelier, con una sola elle.
Vermont deriva dal francese ‘vert mont’, monte verde come dalla gallica Montpellier (con due elle) il nome della città.
È Montpelier davvero particolare: meno di ottomila essendo i suoi abitanti – la qual cosa la rende la capitale di Stato meno popolosa degli USA – non ha neppure un McDonald’s e conta su quella che sembra essere l’ultima fabbrica di mollette da bucato degli States.
Se la civettuola capitale è particolare, altrettanto specifico è lo Stato.
Per cominciare, si tratta del quattordicesimo membro dell’Unione e quindi del primo ad unirsi nel 1791 alle tredici ex colonie.
Poi, è con il Texas, che seguirà lo stesso percorso nel 1845, uno dei due territori entrati essendo in precedenza indipendenti.
Infine, molto spesso ha avuto esponenti politici di primo piano appartenenti a varie istanze socialiste.
Ultimo tra questi, il Senatore Bernie Sanders due volte in corsa per la Nomination democratica ma in verità appunto socialista.
Varese, 28 dicembre 2023
Queste verità
Thomas Jefferson, 1776, bozza della Dichiarazione di Indipendenza:
“Riteniamo che queste verità siano sacre e inviolabili …”
Lette queste parole, Benjamin Franklin con una penna cancella “sacre e inviolabili” e suggerisce che queste verità debbano essere considerate “di per sé evidenti”.
Una differenza fondamentale.
Le verità sacre e inviolabili derivano da Dio e pertengono alla religione.
Le verità di per sé evidenti sono invece leggi di natura e pertengono alla scienza.
Varese, 27 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (diciannovesima parte)
1968
Le votazioni hanno svolgimento il 5 novembre.
La percentuale dei votanti è pari al sessanta e nove per cento degli aventi diritto.
Il Partito Repubblicano, riunito a Miami Beach, sceglie Richard Nixon – già Vice di Eisenhower e candidato perdente nel 1960.
Al suo fianco, il Governatore del Maryland Spiro Agnew.
Nixon prevale su Nelson Rockfeller, George Wilcken Romney (padre del futuro candidato Mitt, 2012) mentre appare per la prima volta tra i maggiori esponenti GOP Ronald Reagan.
I democratici (riuniti a Chicago in una Convention particolarmente contestata) optano per il Vice Presidente in carica con Johnson Hubert Humphrey che – non più in corsa il defunto Robert Kennedy – ha la meglio su Eugene McCarthy e George McGovern.
Nel ticket con Humphrey, il futuro Segretario di stato e al momento Senatore del Maine Edmund Muskie, un personaggio del quale dovremo ancora parlare.
Terzo incomodo, il Governatore dell’Alabama George Wallace, segregazionista.
Nixon conquista trentadue Stati per un totale di trecentouno Elettori.
Humphrey vince in tredici Stati più il Distretto di Columbia e riporta centonovantuno delegati.
Wallace cattura cinque Stati del ‘profondo Sud’ per un totale di quarantacinque partecipanti al Collegio laddove verrà votato anche da un quarantaseiesimo delegato.
Annotazioni
La campagna elettorale del 1968: l’uscita di scena di Lyndon Johnson e quel che consegue
Novembre 1967, il generale William Childs Westmoreland, capo delle truppe americane impegnate in Vietnam, dichiara: “Le speranze del nemico sono alla fine”.
Il Presidente Johnson, convinto che in effetti le sorti del conflitto che, per le proteste e le opposizioni in essere, dilania internamente gli USA volgano a favore, si appresta a correre Primarie e Caucus in programma nel 1968 in vista delle elezioni novembrine.
Il XXII emendamento non lo riguarda avendo egli sostituito John Kennedy nella seconda parte del mandato.
Gli si contrappone da subito il leader dei pacifisti democratici, il già deputato e all’epoca Senatore Eugene McCarthy.
Due imprevisti fermano la apparentemente facile cavalcata del Presidente in carica verso la nuova Nomination.
Nella notte tra il 30 e il 31 gennaio 1968, in coincidenza con il loro capodanno, i vietnamiti sferrano una feroce e dinamica offensiva, denominata ‘del Tet’ (così nella loro lingua si chiama appunto il capodanno).
L’attacco dimostra che la guerra, lungi dall’essere agli sgoccioli, può continuare per chissà quanto tempo.
Ancora il 31 gennaio, i risultati della importante primaria del New Hampshire vedono il pur vincente Johnson inaspettatamente insidiato da McCarthy.
Così stando le cose, ritenendo necessario seguire l’andamento del conflitto in Indocina con grande attenzione e tenendo altresì conto del fatto che i sondaggi lo danno in pericolo nel prosieguo delle Primarie e nei Caucus, Johnson annuncia il ritiro dalla competizione elettorale.
Siederà a White House fino al termine del mandato – ore dodici del 20 gennaio 1969 – e non un minuto di più.
La svolta induce Robert Kennedy, fino a quel momento decisamente riluttante, a scendere nell’agone
Altrettanto, sia pure ancora più tardi tanto da partecipare ben poco alle Primarie, fa il vice di Johnson, Hubert Humphrey.
Il 6 giugno 1968, Bobby prevale di misura su McCarthy nella importantissima consultazione elettorale della California.
Dopo di che, muore sotto i colpi di un arabo, Shiran Bishara Shiran, che lo ritiene troppo vicino alle posizioni di Israele.
Solo in corsa, il Senatore McCarthy perde smalto e non riesce a conquistare di lì in poi un numero sufficiente di delegati, tale che gli consenta di ottenere la Nomination democratica.
La successiva Convention ha luogo a Chicago nel mese di agosto.
Nel mentre, all’esterno, la polizia carica ferocemente i pacifisti accorsi nell’intento di condizionarne i lavori, i convenuti scelgono proprio Hubert Humphrey, scelta che, anche in considerazione del fatto che il Vice Presidente era favorevole al conflitto asiatico, provoca dissensi e contrapposizioni non da poco nell’elettorato.
Nel frattempo, in quel di Miami, i repubblicani si pronunciano incredibilmente per Richard Nixon – che sembrava uscito dalla politica dopo la sconfitta contro Kennedy del 1960 e quella ancora più bruciante del 1962 per il Governatorato della California.
Le divisioni democratiche e il clima anche in merito alle sempre importantissime questioni razziali, in specie riguardo al segregazionismo ancora in opera nel Sud governato da esponenti della destra conservatrice del Partito dell’Asino, sfociano nella nascita di un terzo partito ‘indipendente’ che concede la Nomination al combattivo boss dell’Alabama George Wallace.
È intenzione di Wallace raccogliere un numero tale di delegati da impedire l’elezione – che si ottiene avendo almeno il voto del cinquanta per cento più uno dei voti elettorali – dei candidati dei due partiti principali e di far sì che la scelta passi dal Collegio composto dagli Elettori alla Camera dei Rappresentanti come determinato dal XII emendamento del 1804,
Alla fine – in effetti, lo avevano rilevato i sondaggi – Humphrey, partito come sconfitto senza rimedio, si avvicinò molto a Nixon in termini di voto popolare.
Perse per all’incirca solo mezzo milioni di suffragi su base nazionale.
Ciò non pertanto, il repubblicano prevalse nettamente in termini di delegati: trecentouno a centonovantuno.
Wallace, sia pure in parte e forse handicappato dalla presenza al suo fianco del generale Curtis LeMay – un guerrafondaio che sosteneva che in Vietnam si poteva vincere buttando un numero tale di bombe da ricondurre l’intero Paese asiatico all’età della pietra – fece benissimo.
Quasi dieci milioni di voti popolari, cinque Stati del Sud, quarantasei delegati: il miglior risultato di un ‘terzo’ dai tempi, 1912, di Theodore Roosevelt.
In sella, quindi, dal successivo 20 gennaio 1969, Richard Nixon, l’unico inquilino di White House in seguito dimissionario.
1972
Nel 1972 si votò il 7 novembre.
La partecipazione fu pari al cinquantacinque e due per cento degli aventi diritto.
Il risultato elettorale risultò catastrofico per i democratici che, contro il Presidente in carica Richard Nixon, avevano infine candidato il Senatore George McGovern.
Fuori gioco a causa di un attentato George Wallace, rientrato dopo la precedente tornata nei ranghi dell’Asinello, e costretto all’abbandono (vedremo come) Edmund Muskie, già candidato vice con Humphrey, il pacifista del South Carolina ottenne la Nomination.
Nixon vinse in quarantanove Stati su cinquanta lasciando al rivale il Massachusetts e il Distretto di Columbia.
Cinquecentoventi Elettori contro diciassette.
In sede di Collegio Elettorale un voto andò al ticket del Libertarian Party per la prima volta in competizione.
In questo modo ottennero un suffragio John Hospers e la sua running mate Theodora ‘Tonie’ Nathan che pertanto risulta essere la prima donna votata in un Collegio Elettorale.
Del resto, il 1972 vide altre due ‘prime volte’ entrambe in campo democratico.
Shirley Chisholm, Rappresentante, candidandosi fu la prima donna di colore a mettersi in gioco per White House.
Patsy Mink, a sua volta, fu la prima asiatica americana (Rappresentante per la Hawaii, per la precisione) a cercare la Nomination.
Annotazioni
1972, McGovern invece di Muskie
Il 25 marzo 1997, a settantotto anni di età, moriva l’ex Segretario di Stato americano (con Jimmy Carter) e candidato alla Presidenza Edmund Muskie.
Per quanto l’uomo sia indubbiamente da annoverare tra i più degni espressi nella seconda metà del Novecento dal Partito Democratico USA, di lui, forse, non metterebbe conto parlare non fosse per il fatto che fu, storicamente, il primo avversario contro il quale si dispiegò l’operato di quei poco raccomandabili ‘sostenitori’ di Richard Nixon successivamente protagonisti del Watergate in quel tristemente famoso anno elettorale 1972.
Alla vigilia dell’importantissima primaria del New Hampshire (che all’epoca aveva luogo in febbraio e che, tradizionalmente, è la numero uno e per ciò stesso una delle più importanti in calendario), tutti gli analisti, confortati dall’esito dei sondaggi, davano pressoché certa la scelta da parte democratica di Muskie quale antagonista del Presidente in carica nelle votazioni novembrine per White House.
Fu allora che, temendo il forte richiamo popolare che il candidato di origini polacche poteva vantare, gli ‘amici’ di Nixon decisero di usare ogni mezzo per screditarlo e per indurre i democratici a puntare, come in effetti avvenne, su un avversario più facilmente battibile.
Si cominciò introducendo tra i collaboratori di Muskie alcuni infiltrati che ne boicottarono le prime mosse e si proseguì, proprio nel New Hampshire (Stato abitato per la massima parte da bianchi conservatori, se non, addirittura, razzisti), facendo telefonare a tappeto, di notte, a diverse migliaia di elettori da parte di un fantomatico e sedicente gruppo battezzato ‘Harlem per Muskie’ che raccomandava di votarlo perché in precedenti occasioni si era dichiarato favorevole all’integrazione razziale e contrario ad ogni forma di emarginazione.
Ovviamente, visto il tipo di elettorato e l’ora prescelta per telefonare, l’esito per il candidato democratico fu disastroso.
Non ancora certi di averlo affossato a vantaggio di George McGovern (il suo rivale interno al Partito dell’Asino preferito dai nixoniani), ci si adoperò per il colpo finale.
Fu fatta circolare in tutto lo Stato, alla vigilia della votazione e senza che ci fosse il tempo per abbozzare una smentita, una copia falsificata di una lettera – nota, in seguito, come ‘la lettera canadese’ – nella quale Muskie risultava (e non era assolutamente vero) essersi espresso in termini spregiativi nei confronti della comunità franco canadese di cui moltissimi esponenti risiedono appunto nel New Hampshire.
La conclusione fu che le televisioni americane, alla proclamazione dei risultati della primaria in campo democratico, trasmisero in tutto il Paese l’immagine di un uomo in lacrime sotto la neve, sconfitto non dagli avversari sulla base di un leale confronto di programmi e idee, ma da una meschina e perfettamente riuscita macchinazione.
Così un uomo onesto e assolutamente in grado di ben governare gli Stati Uniti dovette rinunciare ai propri sogni costretto da allora a convivere con una profonda, inguaribile indignazione.
Così (nonché in conseguenza di un attentato che eliminò dalla competizione George Wallace che era rientrato nel Partito dell’Asino), l’assai meno temibile Senatore del Sud Dakota George McGovern ottenne la Nomination democratica.
Lo ‘scheletro nell’armadio’ del candidato alla Vicepresidenza
A rendere ancora più facile la vittoria di Nixon concorse non poco il fatto che la persona scelta dai rivali per affiancare McGovern nel ticket fosse il Senatore del Missouri Thomas Eagleton che in precedenza era stato sottoposto a cure psichiatriche e lo aveva tenuto nascosto (un classico ‘scheletro nell’armadio’).
La ritardata sostituzione – con l’ex Ambasciatore Sargent Shriver – del candidato Vice nonché alcune donchisciottesche e poco realistiche prese di posizione di McGovern consentirono al Presidente in carica – ancora abbinato a Spiro Agnew – di ottenere in carrozza la conferma.
1976
Si vota il 2 novembre.
Cinquecentotrentotto gli Elettori e duecentosettanta la maggioranza assoluta.
Alle urne il cinquantatre e sei per cento degli aventi diritto.
Confronto davvero strano, unico.
Da una parte, il GOP ripropone il Presidente uscente Gerald Ford che è arrivato a White House stravolgendo, legalmente per carità, ogni tradizionale metodo.
È difatti stato nominato Vice Presidente secondo quanto disposto dal XXV Emendamento – usato per la prima volta a tale fine – in sostituzione del titolare della Vicepresidenza Spiro Agnew, che si era dovuto dimettere per scandali risalenti alla sua precedente carriera politica locale.
È dipoi subentrato nell’agosto del 1974 a Richard Nixon dopo le dimissioni dello stesso conseguenti allo ‘Scandalo Watergate’.
La Nomination di Ford era stata molto contrastata in particolare dall’ex Governatore della California Ronald Reagan.
Alla Convention di Kansas City – una Brokered Convention – i due si erano presentati talmente vicini quanto a delegati da far dire che l’esito non era determinabile (gergalmente, ‘too close to call’).
Prevalse, come detto, Ford, rinunciando peraltro al Vice che si era in precedenza scelto (Nelson Rockfeller) e accettando un programma conservatore lontano dalle sue stesse idee.
Con lui nel ticket il Senatore del Kansas Robert ‘Bob’ Dole, futuro e sfortunato candidato a White House.
Molti tra i democratici i possibili pretendenti.
Fra gli altri, da citare almeno Sargent Shriver – già al fianco di McGovern nel 1972 – e il Senatore del Texas Lloyd Bentsen, più tardi in corsa con Michael Dukakis.
A sorpresa, tra i tanti, nel corso delle Primarie, emerse il nome di un ex Governatore della Georgia, Jimmy Carter.
Avendo il vantaggio di non essere stato in precedenza coinvolto in scandali a livello nazionale, infine, fu il prescelto nella Convention di New York City.
Lo ‘Scandalo Watergate’ e il fatto che il primo Presidente nella storia costretto a dare le dimissioni fosse repubblicano pesava, evidentemente, come un macigno sulle spalle del povero Ford
Tutti gli osservatori pensavano che il democratico avrebbe quindi vinto facilmente.
Così, peraltro, non fu.
Un Carter assai poco incisivo alla fine prevalse davvero per un soffio.
Si è calcolato che se ottomila persone avessero votato differentemente tra Ohio ed Hawaii l’uscente sarebbe restato in carica.
Tra i molti terzi esponenti di partiti decisamente minori, da segnalare una nuova candidatura come indipendente di Eugene McCarthy.
Al fianco di Carter, il partito indicò per la Vicepresidenza il Senatore del Minnesota Walter Mondale.
Alla fine, il Rappresentante dell’Asino vinse in ventitre Stati e nel Distretto di Columbia mentre il leader dell’Elefante prevalse in ventisette Stati purtroppo per lui dotati in totale di un minor numero di Elettori (duecentoquaranta) rispetto a quelli conquistati dal rivale (duecentonovantasette).
Il totale non è cinquecentotrentotto perché in sede di Collegio Elettorale un voto fu dato da un dissenziente a Ronald Reagan.
Varese, 27 dicembre 2023
Santo Stefano, certamente, ma anche San Zosimo Papa
(altresì, scendendo di categoria, nome nella versione portoghese Zozimo del grande centrocampista brasiliano mondiale da titolare nel 1962)
Di Acadia, Acadiensi e Cajuns e dell’errore dei cartografi che hanno ‘tradito’ Giovanni da Verrazzano
Nell’oramai lontano 1962, infatuato come da sempre ero degli Stati Uniti d’America e della loro storia, acquistai, non appena tradotto in italiano, l’allora celeberrimo ‘Le cinquanta Americhe’, pubblicato in Francia nella versione aggiornata (una precedente edizione si intitolava ‘Le quarantotto Americhe’ perché Alaska e Hawaii sono entrate a far parte dell’Unione solo nel 1959) l’anno prima ed opera dell’ottimo giornalista e divulgatore Raymond Cartier.
(E’ questo uno dei saggi che più volte durante l’anno rileggo e in ogni circostanza con avidità: documenta e cristallizza come pochissimi altri un ‘momento’ storico).
Era – pensavo e ritengo eccome – un libro assolutamente indispensabile per chi volesse davvero conoscere gli USA da un punto di vista geografico, storico e politico/sociale.
Naturalmente, le cinquanta Americhe del titolo erano gli Stati dell’Unione che venivano trattati – per la maggior parte con dovizia di particolari tranne alcuni meno approfonditamente in quanto ritenuti poco significativi (e quanti nel trascorrere del tempo i radicali, constatati mutamenti!) – uno per uno.
L’attenzione di Cartier, da buon francese, si appuntava, in particolare, su quei territori nei quali, in altri tempi, si era esercitato il dominio del suo Paese di cui cercava di segnalare le tracce ancora presenti.
Così, per esempio, a proposito della Louisiana, scrivendo dei mitici Cajuns, abitatori delle selve, delle paludi e delle acque stagnanti del delta del Mississippi, lo storico rammentava come essi fossero figli degli Acadiensi (Acadiens) che, a loro volta, erano colà arrivati, a partire dal 1755, nella seconda metà del Settecento, dall’Acadia (Acadie).
Fu in questo modo che appresi dell’esistenza di un territorio (da Cartier collocato dove oggi si trova la Nuova Scozia, in Canada) a me prima sostanzialmente, specie per questi versi, ignoto e di una migrazione obbligata – una vera deportazione – subita appunto dagli Acadiensi ad opera degli inglesi che avevano costretto quei francesi d’America a trasmigrare per tutti i futuri Stati Uniti e, la maggior parte, appunto in Louisiana laddove, quasi inselvatichiti, hanno abitato per secoli aumentando notevolmente di numero malgrado le evidenti – la natura palesandosi avversa – difficoltà del vivere.
Di Acadia e di Acadiensi, da allora, mi occorse, a volte, di sentir parlare in specie in quei, per il vero non molto numerosi, film che ambientavano la loro storia nella Louisiana più selvaggia, come tale ancora di recente rappresentata.
Naturalmente, mi ero premurato di scoprire l’origine del nome di quelle lontane terre oggi canadesi e mi ero trovato davanti a due differenti versioni.
Una, che parlava di un vocabolo forse di origine Micmac (una tribù pellerossa del gruppo algonchino stanziata in quelle zone).
Una seconda, assai più modesta ed insoddisfacente, che sosteneva come Acadia promanasse dal nome della città di La Cadie, situata nella citata Nuova Scozia.
Per il vero, anche a proposito dei territori compresi in quella regione le fonti divergevano: corrispondeva alle attuali Nuova Scozia e Nuovo Brunswick, secondo alcuni.
Solo alla prima, secondo altri.
Al territorio compreso tra il bacino del San Lorenzo e la stessa Nuova Scozia, secondo altri ancora.
Di recente, nel 2018, finalmente, avendo per le mani e leggendo l’ottimo e giustamente corposo saggio sulla Storia del Canada scritto da Luca Codignola e Luigi Bruti Liberati, mi è parso di poter sciogliere gli arcani.
I due autori, infatti, spiegano, con evidente dottrina, che l’Acadìa era una regione sì corrispondente alle attuali due province canadesi poco fa elencate, ma anche a parte dello Stato americano del Maine.
E, soprattutto, che il mitico appellativo di quello scomparso Paese derivava da Arcadia, terra idealizzata, in sostanza il Paradiso Terrestre della classicità.
Fu – dicono Codignola e Bruti – però a causa di un errore che così avvenne perché quel nome era stato attribuito dal Verrazzano, Chiantigiano quanto mai illustre, alla regione della Virginia e, colpa dei cartografi dell’epoca, trasferito molto più a Nord in un ambiente che con il Paradiso Terrestre, pur con ogni buona volontà, ha ben poco a che fare.
Varese, 26 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (diciottesima parte)
1960
Si vota l’8 novembre.
Gli Elettori da eleggere sono cinquecentotrentasette visto che per la prima volta sono ammessi alle urne i cittadini di Alaska ed Hawaii.
La maggioranza assoluta è collocata a duecentosessantanove.
I votanti sono il sessantadue e otto per cento degli aventi diritto.
I democratici si riuniscono a Los Angeles.
I repubblicani a Chicago.
Nel Partito dell’Asino i candidati sono metà di mille (perfino un Redivivo Adlai Stevenson alla ricerca di una terza, davvero improbabile, Nomination consecutiva): i Senatori John Kennedy del Massachusetts, Lyndon Johnson del Texas e leader della maggioranza alla stessa Camera Alta, Stuart Symington del Missouri, Hubert Humphrey del Minnesota, Wayne Morse dell’Oregon, George Smathers della Florida.
Come sotto riportato nelle annotazioni, infine, tra mille indugi, prevale il cattolico (secondo in pista dopo Al Smith) John Kennedy.
Con lui, incredibilmente dati i contrasti, Johnson.
Nell’Elefante, impossibile una terza candidatura di Dwight Eisenhower, in lizza il suo Vice Richard Nixon, il Governatore del New York Nelson Rockfeller e l’Ambasciatore Henry Cabot Lodge jr.
In una campagna elettorale estremamente serrata, Kennedy prevale di pochissimo in termini di voti popolari, perde in ragione di Stati (Nixon si afferma in ventisei contro i ventidue del Senatore del Massachusetts, questo perché gli Elettori del Mississippi e la maggioranza di quelli dell’Alabama si espressero in sede di Collegio per una terza personalità politica, Harry Flood Byrrd), ma vince in termini di Elettori: trecentotre a duecentodiciannove (quindici quelli ottenuti dal citato Byrd).
Per inciso, pochissime le circostanze nelle quali il vincitore si impone in un numero minore di Stati rispetto allo sconfitto.
È accaduto solo nel 1824 (John Quincy Adams sette Stati e Andrew Jackson dodici) e nel 1976 (Jimmy Carter ventitre più il Distretto di Columbia e Gerald Ford ventisette).
In altre due occasioni, i contendenti, da questo punto di vista, pareggiarono: 1848, Taylor e Cass quindici Stati a testa; 1880, Garfield e Hancock diciannove ciascuno.
Da segnalare infine che quella del 1960 è l’ultima elezione fino al 2020 nella quale l’Ohio non ha votato per il vincitore.
Annotazioni
Arrivato che fu il 1960 e non potendosi più ricandidare Eisenhower per il disposto del XXII Emendamento, un nutrito gruppo di democratici annunciò l’intenzione di scendere in lizza per ottenere la Nomination: il Senatore del Massachusetts John Kennedy, il leader della maggioranza al Senato Lyndon Johnson, il Senatore del Missouri Stuart Symington, il Senatore del Minnesota Hubert Humphrey, il Senatore dell’Oregon Wayne Morse e il Governatore della California Pat Brown.
In più, senza proporsi nelle Primarie ma sperando di arrivare comunque alla sua terza candidatura consecutiva in sede di Convention se nessuno tra i contendenti si fosse dimostrato un vincente, ancora e di nuovo Adlai Stevenson.
La Convenzione era stata fissata dall’11 al 15 luglio a Los Angeles.
Al termine delle Primarie e dei Caucus, nessuno tra i predetti candidati aveva conquistato un numero sufficiente di delegati per essere scelto al primo scrutino.
Si trattava, quindi, di una kermesse ‘aperta’, nel corso della quale le più diverse e improbabili alleanze avrebbero portato ad una scelta di compromesso ma definitiva.
I tre candidati di maggior peso, quelli davvero in corsa a quel punto, erano Kennedy, Johnson e Stevenson.
Harry Truman entrò allora in gioco sostenendo che per superare l’impasse i tre avrebbero dovuto fare un passo indietro e dare spazio e strada a Stuart Symington, che era stato Segretario all’Aviazione nel suo governo ed era missouriano, sia pure di adozione, come lui.
Gli andò male: ‘Stu’ fu sconfitto, l’ipotesi Stevenson non decollò, Johnson accettò, contro le previsioni perfino dell’entourage di Kennedy, di correre nel ticket per la Vice Presidenza.
Il fatto che fosse cattolico fu certamente un impedimento per il futuro Presidente della ‘Nuova frontiera’ ma, e già lo avevano dimostrato gli esiti delle Primarie, non insuperabile come era stato nel 1928 per Alfred Smith accusato di essere un ‘papista’.
Sul tema, allorquando i giochi a favore del Senatore del Massachusetts apparvero fatti, il vecchio Truman se ne uscì con una battuta rimasta celebre:
“It’s not the Pope I’m worried abaut, It’s the Pop” (“Non è il Papa che mi preoccupa, ma il papà”).
Chiunque conoscesse il padre di John, Joseph Kennedy, il suo carattere, la provenienza del suo denaro poteva concordare con lui!
1964
Alle urne il 3 novembre.
Per la prima volta, a seguito della approvazione del XXIII Emendamento datato 1961, votano anche i cittadini del Distretto di Columbia.
Dal 1964 ad oggi – 2020 compreso e sarà così anche nel 2024 – il numero degli Elettori è fissato a cinquecentotrentotto e la maggioranza assoluta degli stessi è duecentosettanta.
Il Partito Democratico ha in casa un cavallo di razza vincente, il Presidente Lyndon Johnson, la cui azione riformatrice è apprezzata praticamente ovunque e da larghissimi strati popolari.
È pertanto naturale che in quel di Atlantic City il successore di Kennedy venga candidato all’unanimità sulla base di un programma assolutamente progressista (ed erano quelli i tempi giusti per, in quella direzione, operare fattivamente).
Il Partito Repubblicano – decisamente non cogliendo il momento storico – rifiuta il candidato cautamente aperturista Nelson Rockfeller, Governatore del New York, e si affida al Senatore dell’Arizona Barry Goldwater.
Mentre a fianco di Johnson corre Hubert Humphrey, con Goldawater ecco il primo candidato cattolico che mai il GOP abbia inserito in un ticket: Warren Miller.
È questa la tornata politica che cambia alla radice la geopolitica americana.
Lyndon Johnson, lungi dal limitarsi a vincere negli Stati normalmente democratici (anzi, perdendone alcuni nel Meridione), conquista l’intero Nord del Paese, un numero incredibile di Stati che da sempre votavano repubblicano.
È una rivoluzione duratura: da allora, normalmente ma non sempre, il Nord si esprimerà per il Partito dell’Asino e il Sud per il GOP.
L’Elefantino, di contro, è demolito.
Goldwater vince in soli sei Stati cinque dei quali nel Sud.
Quanto agli Elettori, saranno quattrocentoottantasei (nessun altro democratico, dopo, ritoccherà questo record) per Johnson contro i cinquantadue del Senatore dell’Arizona.
Va qui sottolineato che il trionfo di Johnson è assolutamente personale.
Lo dimostra il fatto che dopo il 1964 nessun candidato democratico sarà in grado di vincere come lui fece nell’occasione in Alaska, Idaho, Kansas, Nebraska, North Dakota, Oklahoma, South Dakota, Utah e Wyoming!
Divertente, poi, il fatto che la candidatura di Goldwater fosse messa in discussione in relazione al requisito richiesto dalla Costituzione relativamente alla citaddinanza USA dalla nascita.
Il Nostro, infatti, era nato in Arizona prima che quel territorio fosse accolto nell’Unione.I puristi, quindi, eccepivano al riguardo
Sia i campioni dello sport, sia i grandi imprenditori hanno ottenuto il successo anche grazie a fattori esterni indipendenti dalle loro attitudini
Mattia Darni
per il Corriere del Ticino
Una persona nata in un contesto sociale difficile che grazie all’ingegno e al duro lavoro riesce a ottenere il successo e la prosperità economica: è il mito dell’uomo che si è fatto da sé, quello che in inglese chiamano self made man. Una visione romanzata e idealistica che da generazioni nutre il sogno americano e che, attraverso i film hollywoodiani, si è imposta anche nel Vecchio Continente.
E se vi dicessero che non esistono uomini che si sono fatti da soli e che il sogno americano altro non è che una leggenda? È ciò che sostiene Malcolm Gladwell in Fuoriclasse – Storia naturale del successo (ed. Mondadori). Nel saggio, il giornalista scientifico del Washington Post e collaboratore del New Yorker dimostra la sua teoria analizzando i dettagli in apparenza insignificanti delle biografie dei campioni dello sport, dei geni della scienza e degli uomini d’affari multimilionari. Secondo Gladwell, infatti, «c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel nostro modo di interpretare il successo» in quanto, guardando ai fuoriclasse, «vogliamo sapere come sono, conoscerne la personalità, sapere quanto sono intelligenti, che vita conducono, quali talenti innati possiedono» dando «per scontato che le caratteristiche individuali spieghino perché una certa persona abbia raggiunto l’apice».
Quello sportivo è nell’immaginario collettivo il luogo perfetto per realizzare il sogno americano. Quanti grandi campioni sono arrivati all’apice partendo da quartieri poveri e malfamati. Sembrerebbe insomma che, con un certo talento e una buona dose di impegno e di sacrificio, l’accesso all’olimpo sportivo sia garantito. E se a determinare il futuro successo di un giovane atleta non fossero le sue abilità, bensì il mese in cui è nato?
Già, perché per essere un campione sarebbe necessario essere nati tra gennaio e marzo. A rendersene conto, spiega Gladwell, fu, a metà degli anni Ottanta, lo psicologo canadese Roger Barnsley. Analizzando la composizione di diverse leghe d’élite juniores di hockey del suo Paese, Barnsley si accorse che il numero di atleti nati nei primi tre mesi dell’anno era nettamente superiore a quello degli atleti nati nei nove mesi successivi. La stessa cosa valeva per la National Hockey League (NHL).
Per sperare di diventare un campione, insomma, bisogna esser nati all’inizio dell’anno; ma perché? Il dato, all’apparenza curioso, ha in realtà una spiegazione razionale. Nell’hockey canadese il limite minimo per rientrare in una classe di età è il 1. gennaio: ciò significa che un ragazzo nato il 2 gennaio può avere in spogliatoio compagni nati alla fine di dicembre. Ora, soprattutto durante la preadolescenza, una differenza anagrafica di dodici mesi comporta un grande scarto dal punto di vista della maturità fisica: il giovane nato all’inizio dell’anno sarà molto più sviluppato rispetto a quello nato alla fine dello stesso. Al momento di selezionare i giocatori più idonei a entrare nelle squadre d’élite, dunque, gli allenatori sceglieranno quei ragazzi che, oltre a mostrare un certo talento, sono più maturi dal punto di vista fisico, ovvero quelli nati all’inizio dell’anno.
Questa prima scelta arbitraria è foriera di una serie di conseguenze in base a cui gli atleti già considerati forti lo diventano ancora di più. Una volta entrati nelle selezioni d’élite, infatti, questi ragazzi si allenano in modo migliore, per più tempo e a fianco di compagni migliori e quindi lo scarto rispetto ai coetanei nati nella seconda parte dell’anno aumenta.
Il fenomeno descritto da Barnsley non si limita solo all’hockey canadese, ma lo si ritrova anche nel calcio in Europa e nel baseball negli Stati Uniti. Gladwell sottolinea in particolare come «in Inghilterra la data di idoneità coincida con il 1. settembre e negli anni Novanta sia accaduto che nel massimo campionato di calcio ci fossero 288 giocatori nati tra settembre e novembre e soltanto 136 nati tra giugno e agosto». Nel calcio internazionale, osserva sempre il giornalista scientifico del Washington Post, la data per il calcio giovanile è il 1. gennaio e, dando uno sguardo alla rosa della selezione Under 20 della Repubblica Ceca del 2007, si può notare come 15 dei 21 giocatori selezionati fossero nati nei primi tre mesi dell’anno.
Si potrebbe pensare che quella dello sport professionistico sia un’eccezione: non è così. Anche in ambito imprenditoriale, a determinare il successo di una persona è, oltre al talento e al duro lavoro, tutta una serie di fattori esterni.
L’esempio lampante, in questo senso, è Bill Gates. L’informatico statunitense certamente possiede un’intelligenza fuori dal comune, ma, evidenzia Gladwell nel suo libro, nel corso della vita ha potuto beneficiare di opportunità negate ad altri suoi coetanei magari dotati dello stesso genio. Innanzitutto, i genitori di Gates erano facoltosi e ciò ha permesso loro di iscrivere il figlio alla Lakeside Academy, una scuola privata per le famiglie bene di Seattle. Il dato è rilevante perché la scuola possedeva un club di informatica quando, siamo negli anni Sessanta, nemmeno la maggior parte delle università ne possedeva uno. Il computer della Lakeside era poi all’avanguardia: in un’epoca in cui il metodo di programmazione usato praticamente da tutti era quello a schede perforate, quello della scuola di Seattle era basato sul «time sharing», tecnologia che permetteva di programmare «in tempo reale» e perciò di razionalizzare il tempo rispetto a coloro che lavoravano ancora sul sistema a schede perforate.
Quando la Lakeside Academy esaurì i fondi destinati al club informatico, per Gates si presentò un’altra opportunità: la madre di uno degli studenti della scuola aveva fondato, con un gruppo di programmatori dell’Università di Washington, un’impresa dal nome C-Cubed: se i ragazzi della Lakeside avessero verificato i software prodotti dall’azienda, in cambio avrebbero potuto utilizzarne gratuitamente il computer. Grazie alla frequentazione del centro informatico dell’Università di Washington, Gates entrò in contatto con la Information Sciences Inc. che, una volta che la C-Cubed andò in bancarotta, gli acconsentì di utilizzare gratuitamente il proprio computer in cambio dello sviluppo di un programma di gestione automatizzata dei libri paga dei dipendenti.
Le concatenazioni fortunate per Gates non finiscono comunque qui. Quando l’azienda tecnologica TRW contattò uno dei fondatori della Information Sciences Inc., Bud Pembroke, per chiedere se fosse a conoscenza di programmatori che potessero sviluppare un software per la gestione della centrale elettrica di Bonneville, Pembroke fece il nome di Gates in quanto, agli albori della rivoluzione informatica, era difficile trovare persone con un’esperienza tanto specialistica quanto la sua.
E se oltre a questa concatenazione di eventi fortuiti vi dicessero, proprio come per i campioni dello sport, che a determinare il successo di Bill Gates è stata anche la sua data di nascita? Già, perché la rivoluzione del personal computer iniziò nel 1975 quando la rivista Popular Electronics dedicò la copertina all’Altair 8800. Per non essere né troppo giovani né troppo vecchi e poter così sfruttare appieno le opportunità portate dalla rivoluzione informatica era auspicabile che nel 1975 si avessero circa una ventina di anni, cioè che si fosse nati nel 1954/1955. Ora, quando è nato Bill Gates? Il 28 ottobre 1955. A conferma di ciò, solo per fare alcuni esempi, troviamo poi la data di nascita di Steve Jobs, 24 febbraio 1955, e quella del presidente esecutivo (2015-2017) e consigliere tecnico (2017-2020) di Alphabet Eric Schmidt, 27 aprile 1955.
Quelli degli sportivi d’élite e di Bill Gates sono solamente due tra i numerosissimi esempi portati da Malcolm Gladwell in Fuoriclasse – Storia naturale del successo. L’uomo che si è fatto da sé, lo abbiamo capito, non esiste. Ciò non significa che si debba rinunciare a inseguire i propri sogni abbandonandosi a un atteggiamento di rassegnato fatalismo. Quello che intende fare Gladwell nel suo libro è sottolineare come «per creare un mondo migliore occorra sostituire la combinazione di colpi di fortuna e vantaggi arbitrari – la data di nascita favorevole e gli eventi storici propizi – con una società che conceda a tutti le stesse opportunità». Un ideale utopico, insomma, al quale non è tuttavia sbagliato tendere.
Varese, 26 dicembre 2023
Flash elettorale
Il risultato dei sondaggi interni ai repubblicani raccolti da FiveThirtyEight alla vigilia di Natale:
Trump 62.4%
DeSantis 11.7%
Haley 10.8%
Ramaswamy 4.0%
Christie 3.1%
Hutchinson 0.6%.
Come si vede, gli attacchi di ogni genere, in particolare giudiziari, a Trump lo fortificano!
Varese, 25 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (diciassettesima parte)
1952
Alle urne il 4 novembre.
Il numero degli Elettori è fermo a cinquecentotrentuno e il limite della maggioranza assoluta resta fissato a duecentosessantasei.
Notevole l’incremento della percentuale dei votanti (dieci e tre in più) che arrivano al sessantatre e tre per cento degli aventi diritto.
Due campagne interne ai partiti e due Convention (entrambe a Chicago) decisamente lottate, quelle datate 1952.
Il Partito Democratico – che governa dal 4 marzo 1933, momento dell’entrata in carica di Franklin Delano Roosevelt (dal successivo 1937, si ricorda, l’Insediamento fu anticipato al 20 gennaio sempre dell’anno seguente quello elettorale) – teoricamente dovrebbe dare nuovamente fiducia all’uscente Truman (l’Emendamento del 1951 non lo riguarderebbe comunque visto che uno degli articoli prevede proprio che il Presidente in carica possa ripresentarsi).
Capita, però, che Harry, indebolito dall’andamento della Guerra di Corea in corso, venga battuto nella Primaria del New Hampshire dal Senatore populista del Tennessee Estes Kefauver, che aveva acquistato larga fama a livello nazionale presiedendo la Commissione contro il Crimine Organizzato seguita dalle già importanti televisioni.
Ritirato Truman (il quale, comunque, nelle memorie, affermerà di non essersi messo da parte per la sconfitta rimediata ma perché lo aveva già deciso prima – e a tale riguardo ricordo che Raymond Cartier in ‘Le cinquanta Americhe’ sostiene che il ritiro fosse voluto dalla First Lady), Kefauver appare il favorito.
Deve peraltro scontrarsi con agguerriti rivali, tra i quali, per quanto nella circostanza perdenti, vanno ricordati il futuro Vice Presidente e candidato Hubert Humphrey al momento Senatore del Minnesota, Averell Harriman del New York e William Fullbright dell’Arkansas.
Apparentemente e forse realmente non interessato ma infine di contro vincente, il Governatore dell’Illinois Adlai Stevenson II, nipote del Vice Presidente con Grover Cleveland Adlai Stevenson I.
Uomo di notevole cultura e di spirito (durante la campagna, dopo un comizio, avvicinato da una sostenitrice che gli diceva “Tutte le persone intelligenti voteranno per lei” rispose “Cara Signora, non basterà. Occorre la maggioranza”), decisamente gradito agli intellettuali, fu nell’occasione lasciato dalla moglie fervente repubblicana che non poteva accettarne la scelta.
Al suo fianco, il Senatore dell’Alabama John Sparkman.
In campo repubblicano, sceso in campo, il Generale Dwight Eisenhower credeva dall’alto del suo prestigio di ottenere facilmente la consacrazione.
Si trovò invece a lottare con il Senatore Robert Taft, sconfitto infine di stretta misura e solo perché i GOP della costa atlantica ne temevano il fiero isolazionismo e le posizioni fortemente conservatrici.
E non il solo Taft il Comandante delle Forze Alleate dovette sconfiggere.
Anche il Governatore della California Earl Warren – già in corsa come Vice di Dewey nel 1948 e futuro grande Presidente della Corte Suprema – e l’ex Governatore del Minnesota Harold Stassen.
Il partito pensò bene di collocargli a fianco Richard Nixon, un Senatore di stampo conservatore.
Difficili, come si è visto, le scelte.
Facilissima – una valanga – la vittoria di Eisenhower che, primo tra i GOP, andò a fare campagna nel Sud sempre democratico ottenendo anche in quelle bande non poco successo.
Facile altresì per avere garantito se eletto una pace onorevole in Corea.
Risultati:
Eisenhower, trentanove Stati e quattrocentoquarantadue Elettori;
Stevenson, nove Stati e ottantanove membri del Collegio a favore.
1956
Si vota il 6 novembre ed è questa l’ultima occasione nella quale gli Stati chiamati alle urne sono quarantotto.
Nella tornata 1960, infatti, voteranno anche i cittadini delle Hawaii e dell’Alaska.
Tutto come quattro anni prima quanto ai numeri degli Elettori e della maggioranza assoluta.
Sessanta e sei la percentuale di affluenza ai seggi.
I due partiti maggiori ripropongono i medesimi candidati ottenendo lo stesso risultato.
Il Presidente uscente Eisenhower ha garantito al Paese la promessa pace e ha amministrato con saggezza.
Proprio nel 1956 viene colpito da un infarto ma si rimette completamente.
Qualche problema in più nel campo repubblicano incontra e supera – visto che sarà comunque confermato nel ticket – il Vice in carica Richard Nixon che il titolare invero vorrebbe sostituire.
Fatto è, però, che il più accreditato quale possibile alternativa, il preferito da Ike Christian Herter, allora Governatore del Massachusetts, è nato a Parigi e forti sono i dubbi in merito al reale possesso da parte sua dei prescritti requisiti.
Il Partito Democratico finisce di bel nuovo per convergere su Adlai Stevenson che nel corso delle Primarie, dopo un avvio stentato, riesce a superare Estes Kefauver, il Senatore del Tennessee che già quattro anni prima era stato in corsa.
(Fra l’altro, la prima ripresa televisiva di un confronto tra candidati riguarda proprio i due contendenti democratici citati che saranno immortalati dalle telecamere in vista delle Primarie della Florida.
Corre il 21 maggio).
Alla Convention l’Asinello deciderà di contare su tutti e due mettendo in lizza il duo Stevenson/Kefauver.
Si arriva a questa determinazione dopo il ritiro dalla competizione per il secondo posto nel ticket del giovane Senatore del Massachusetts John Kennedy.
Tra i contendenti di minor peso, si nota Lyndon Johnson.
Divertente il fatto che Elvis Presley, il grande cantante rock, conquisti nel corso di Primarie e Caucus cinquemila voti con il sistema ‘write in’ (che in alcuni Stati consente agli elettori di votare altri rispetto ai candidati riportati nella scheda scrivendone il nome).
In conclusione, un Adlai Stevenson meno compassato e più aperto non riesce a conquistare l’elettorato per così dire comune e finisce per perdere in modo più rovinoso rispetto al 1952.
Eisenhower vince in quarantuno stati riportando quattrocentocinquantasette voti al Collegio.
Il democratico, conquista solo sette Stati e settantatre delegati nazionali.
Varese, 25 dicembre 2023
Franklin, lo Stato USA che avrebbe potuto essere e non fu
1784, particolari evoluzioni storiche consentono al colonnello John Sevier di costituire uno Stato e di diventarne Governatore l’anno successivo.
(L’intento è quello di entrare a far parte della appena nata Unione).
Dove si colloca la nuova entità?
In otto contee sui monti Appalachi non ufficialmente appartenenti al North Carolina, Stato che aveva finito per concederle poco prima al governo federale (e che poi ne tornerà brevemente in possesso).
Non avendo il Congresso ratificato subito l’acquisizione, essendo quindi il territorio in questione ‘terra di nessuno’, non solo per iniziativa di Sevier ma sotto la sua guida, nasce l’effimero ‘extra legal state’ di cui si tratta.
Era allora Benjamin Franklin il più noto ed apprezzato americano.
Ed è per questo che il nuovo Stato viene chiamato ‘Franklin’.
Breve la sua storia dato che cesserà di esistere già nel 1788.
Varese, 25 dicembre 2023
Dalle ‘Olive’ alla Florida: storia del primo africano arrivato nel Nuovo Mondo
24 maggio del 1520.
In una località collocabile nell’attuale Stato di Vera Cruz, Panfilo Narvaez – inviato dal governatore di Cuba Diego Velasquez nel regno azteco al fine di mettere in riga Hernan Cortes – le busca e, ferito, viene fatto prigioniero dal conquistador.
Passano sette anni e lo stesso Narvaez, per ordine di Carlo V, parte dalla Spagna con navi, marinai e armigeri alla volta della Florida.
Non molte davvero le spedizioni militari altrettanto disastrose.
I drammi, le tragedie, le disfatte, le morti, l’infinito peregrinazione via terra dei pochissimi sopravvissuti sono note attraverso le cronache di uno tra loro: Alvar Nunez Cabeza de Vaca.
Quattro i predetti superstiti spagnoli.
Con loro, però, uno schiavo berbero noto col nome di Estebanico.
Era costui – in verità chiamato Mustapha Zemmouri – nato in Marocco, ad Azemmour (enclave portoghese il cui nome nella lingua locale significa ‘Le Olive’) nel 1500.
Non contento di essere uscito vivo dalla disastrosa spedizione capitanata da Narvaez, il Nostro, oramai uomo libero, nel 1539, si unì a frate Marco da Nizza – esploratore e francescano originario appunto della città oggi francese e a suo tempo in Perù con Francisco Pizarro – per cercare oro e fortuna nelle terre abitate dagli Zuni.
Mal gliene incolse perché fu colà che, violentemente, passò a miglior vita.
Varese, 25 dicembre 2023
La teoria del domino
1954, il Presidente USA Dwight Eisenhower – che ha da non molto chiuso con un armistizio il conflitto coreano mantenendo l’impegno in tal senso preso nella campagna elettorale che nel 1952 lo ha portato a White House – esprime il timore che nel Sud Est Asiatico la caduta in mano comunista di un singolo Stato possa provocare la successiva presa di potere da parte ‘rossa’ degli Stati circonvicini.
Occorre pertanto impedire ovunque e comunque nell’area che questo accada ad evitare che la teoria, definita subito ‘del domino’, trovi attuazione.
Durante le due successive amministrazioni democratiche di Kennedy e Johnson questa teoria fu considerata un assunto fondamentale e contribuì grandemente a giustificare l’intervento americano nella Guerra del Vietnam.
Varese, 25 dicembre 2023
Quando gli schiavi fuggiaschi riparavano in Messico
La Carta Costituzionale Federale degli Stati Uniti Messicani del 1857 fu una Costituzione liberale scritta durante la presidenza di Ignacio Comonfort. Promulgata il 5 febbraio del 1857 garantì
la libertà di espressione
quella di coscienza
di assemblea
di scelta sulla leva militare
le libertà sociali di base ai cittadini
riaffermò l’abolizione della schiavitù
separò l’educazione dalla religione
colpì i beni della Chiesa cattolica
eliminò tutte le forme di violenza corporale inclusa la pena di morte
eliminò tutte le alcabala (imposte particolari che venivano riscosse in favore dei reggenti spagnoli)
proibì l’uso dei titoli nobiliari, gli onori ereditari e i monopòli.
Inoltre stabilì che qualsiasi schiavo mettesse piede all’interno del territorio messicano venisse immediatamente considerato libero.
Questo fece sì che il Messico divenisse meta ambita dagli afroamericani che scappavano dalla schiavitù negli Stati Uniti.
Varese, 24 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (sedicesima parte)
1944
Si vota il 7 novembre.
Cinquecentotrentuno gli Elettori da eleggere.
Duecentosessantasei i voti necessari per raggiungere la maggioranza assoluta.
Cinquantacinque e nove per cento i votanti con un netto calo – sei e sei in percentuale – rispetto alla precedente tornata.
Entrambe le Convention si svolgono a Chicago.
Per quanto si dubiti del suo reale stato di salute, Franklin Delano Roosevelt, per la quarta volta consecutiva, ottiene il mandato dal Partito Democratico.
(Si ricorda qui incidentalmente che a seguito del successivo Emendamento del 1951 nessuno potrà più essere eletto Presidente più di due volte).
Il Vice Presidente Henry Wallace – troppo liberal e progressista secondo molti componenti l’establishment – per quanto non sia malvisto da F.D.R., viene sostituito nel ticket dal Senatore del Missouri Harry Truman, un chiacchieratissimo uomo politico, in origine legato al boss della malavita organizzata del suo Stato Tom Pendergast, entrato in Senato nel 1935 ma quivi ben inserito.
Il Partito Repubblicano nutre fiducia riguardo all’esito elettorale visto il successo conseguito nelle Mid Term Elections di due anni prima.
Fuori gioco il conservatore Robert Taft che preferisce al momento restare alla Camera Alta, esclusa l’ipotesi Generale Douglas McArthur essendo fra l’altro il capo delle Forze Armate del Pacifico ancora impegnato in Oriente, cancellato il candidato del 1940 Wendell Wilkie sconfitto nettamente nelle Primarie e ritirato, l’investitura GOP va al nel frattempo (era prima, nel 1940, all’epoca della precedente Convention, Procuratore del Distretto di New York) diventato Governatore dello Stato che ospita la Grande Mela Thomas Dewey.
A temperare il peraltro tenue suo liberalismo, con lui il Senatore dell’Ohio, l’isolazionista John Bricker.
Campagna elettorale intensa, nella quale un brillante e all’apparenza sanissimo Roosevelt respinge bene l’assalto del rivale.
Da segnalare, comunque, che in questa quarta occasione il Presidente confermato otterrà meno delegati al Collegio Elettorale e vincerà in un minor numero di Stati.
Ecco i numeri:
F.D.R., trentasei Stati e quattrocentotrentadue voti al Collegio.
Thomas Dewey, dodici Stati e novantanove Elettori.
Tipico ‘perennial candidate’ – è in cotal modo denominato nel gergo elettorale americano colui che costantemente e invano si ripropone per una carica pubblica – nella circostanza per il Partito Socialista corre per la quinta volta (nel 1948 chiuderà con la sesta discesa in campo) Norman Thomas.
1948
Nel 1948, le elezioni si svolgono il 2 novembre.
Gli Elettori sono nel complesso cinquecentotrentuno e conseguentemente la maggioranza assoluta è fissata a duecentosessantasei.
Il Presidente uscente Harry Truman vince rocambolescamente, come fra poco verrà narrato: ventotto gli Stati che lo preferiscono e trecentotre i delegati catturati.
Il Governatore repubblicano del New York Thomas Dewey, al secondo tentativo, conquista sedici Stati e centoottantanove Elettori.
Il terzo incomodo Dixiecrat J. Strom Thurmond vince in quattro Stati e colleziona trentanove delegati al Collegio Elettorale, un risultato di notevole portata.
Il quarto candidato, in rappresentanza di un effimero Progressive Party, Henry Wallace si ferma a zero Stati e zero Elettori.
Per inciso, essendo il candidato alla Vice Presidenza per il Partito Repubblicano Earl Warren Governatore della California, il ticket GOP nell’occasione era straordinariamente formato da due Governatori in carica.
Annotazioni
Luglio 1948, in vista delle elezioni novembrine, Convention del Partito Democratico a Filadelfia.
Laceranti le divisioni interne.
L’ala liberal, pur apprezzando le idee e l’azione del Presidente in carica Harry Truman a proposito dei diritti civili e in particolare della lotta al segregazionismo sudista, chiede che nella ‘platform’ programmatica vengano indicate proposte e indicazioni maggiormente incisive.
L’aria che si respira è quella che normalmente precede una sconfitta, tanto che alcuni inutilmente sperano di riuscire a convincere il generale Eisenhower (che scenderà in campo quattro anni dopo tra i repubblicani) o il giudice William O. Douglas a proporsi in alternativa a Truman.
L’ala conservatrice, sudista, popolarmente da subito nota con l’appellativo ‘Dixiecrats’, avendo ottenuto i liberal quanto richiesto, abbandona il Congresso, si riunisce a Birmingham, Alabama, fonda il ‘Partito Democratico per i Diritti dei singoli Stati’ e sceglie come candidato a White House J. Strom Thurmond, all’epoca Governatore del South Carolina e in seguito, per lunghissimi decenni, Senatore.
Intanto, alla guida di un Partito Progressista (ricorrente tale definizione), l’ex Vice Presidente, nel terzo mandato, di F.D. Roosevelt, Henry Agard Wallace – favorevole in politica estera a migliori rapporti con l’Unione Sovietica, naturalmente ai diritti civili e in campo economico alla proprietà pubblica in molto settori chiave – lancia a sua volta il guanto di sfida.
Quando Wallace – 7 ottobre 1888/18 novembre 1965 – annunciò la propria candidatura si dimise da direttore di ‘New Republic’ e dichiarò, tra l’altro, che se fosse stato obbligato alle elezioni a scegliere tra Truman e Robert Taft (repubblicano e a quel momento possibile candidato) avrebbe optato per il GOP “come l’uomo più adatto a mantenere la pace”.
Non solo per questo atteggiamento ma in generale per le sue posizioni ‘sinistre’ (ricevette l’appoggio del partito comunista) e per il carattere – fu definito “uomo sgradevole, eccentrico, ambizioso, moralista” – fu fortemente avversato proprio dai democratici dalle cui fila proveniva.
Eleanor Roosevelt, che in passato lo aveva lodato pubblicamente, il giorno dopo l’annuncio della sua discesa in campo scrisse:
“Che cose strane spinge a fare il desiderio di essere Presidente…
(Wallace) non è mai stato un buon politico, non è mai stato capace di valutare l’opinione pubblica…
Come leader di un terzo partito non combinerà niente.
Distruggerà semplicemente proprio le cose che desidera raggiungere”.
I repubblicani, convinti di vincere a causa delle divisioni del campo avverso, scelsero l’ultimo rivale del citato F.D.R., il Governatore del New York Thomas E. Dewey, al quale affiancarono il Governatore della California Earl Warren, in seguito eccezionale e determinante, in tema di lotta alle leggi razziali e segregazioniste, Presidente della Corte Suprema.
Al termine di una campagna che vide pertanto affrontarsi ben quattro candidati, tutti di un qualche peso, per quanto i primi risultati dessero per vincente Dewey, Harry Truman, che aveva percorso in treno oltre cinquantamila chilometri e tenuto più di trecentocinquanta discorsi nelle stazioni (ultimo Presidente a proporsi in cotal, antica guisa) ottenne la riconferma.
Non male, peraltro, i ‘Dixiecrats’ il cui vessillifero Thurmond conquistò trentotto delegati, tutti provenienti dal Sud dove prevalse in quattro Stati, al Collegio Elettorale.
Non altrettanto bene andò invece a Henry Wallace che non ottenne risultato alcuno appunto in termini di delegati.
Varese, 24 dicembre 2023
‘Tierras de ningun provecho’
L’America Latina, quella spagnola e portoghese.
Peraltro, quella spagnola fino al Messico, non più a Nord.
Ecco le terre del Nuovo Mondo che secondo i cronisti e i cartografi del Cinquecento e del Seicento valeva la pena conoscere, conquistare, soprattutto sfruttare.
Il Nord?
Non dava speranze di arricchimenti neppure a lungo termine.
‘Tierras de ningun provecho’ (‘Terre che non promettono proventi, guadagni’) era quindi la scritta che i cartografi iberici vergavano laddove in futuro sarebbero nati gli Stati Uniti.
Le cose cambiano, vero?
Varese, 24 dicembre 2023
Madeleine Albright
Madeleine Albright, democratica, studiosa e docente di grandi capacità, agli inizi della carriera vicina quale consigliera per la politica internazionale ad Edmund Muskie, poi membro del National Security Council con Zbigniev Brzezinski, negli anni di Bill Clinton Ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU e in seguito Segretario di Stato (la prima donna a ricoprire l’incarico)…
Un curriculum eccezionale sulla base del quale una sua candidatura alla Presidenza negli anni che l’hanno vista operare con sapienza a quei massimi livelli sarebbe parsa normale…
Normale e invece impossibile, perché Marie Jana Korbelová (questo il suo nome all’anagrafe) era nata a Praga, era quindi in origine una cittadina cecoslovacca arrivata negli USA (nel 1948) e non possedeva uno dei tre requisiti dettati e richiesti dalla Costituzione americana per aspirare alla Presidenza: la cittadinanza USA dalla nascita.
Da questo punto di vista, nella medesima situazione di un suo illustre predecessore agli Esteri: il tedesco d’origine Henry Kissinger (1).
Una regola ferrea alla quale, per quanto la Signora Albright si fosse grandemente distinta, dovette sottostare.
Chapeau, ovviamente e comunque.
(1) I due, per questa ragione, pur essendo il Segretario di Stato ai primi posti nella Lista di Successione alla Casa Bianca, erano dalla stessa linea personalmente esclusi.
Varese, 24 dicembre 2023
Quando nacque la Costituzione Americana
16 maggio 1787.
Siamo a casa di Benjamin Franklin, ovviamente a Philadelphia.
Con lui, i primi cinque tra i settantacinque delegati – solo cinquantacinque dei quali parteciperanno effettivamente e, tra andare e venire, in verità una trentina circa, alternandosi, saranno presenti di giorno in giorno – eletti in rappresentanza di dodici (il Rhode Island si è rifiutato di partecipare) dei tredici Stati.
Sono questi sei Signori che nell’occasione, discutendo, decidono che lungi dal revisionare semplicemente gli Articoli di Confederazione come stabilito l’assemblea dovrà ideare e istituire un governo nazionale.
Scrivere pertanto una Costituzione.
Erano gli indicati
Benjamin Franklin
James Madison
Gouverneur Morris
Edmund Randolph
George Washington
James Wilson.
Il giorno dopo, Madison si mise al lavoro stendendo quello che sarà noto come il Piano della Virginia (Virginia Plan) dato che verrà poi presentato da Edmund Randolph, Governatore appunto dello Stato con capitale Richmond.
Varese, 23 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (quindicesima parte)
1936
Alle urne il 3 novembre.
Tutto come nella precedente tornata quanto a componenti del Collegio da eleggere e quanto alla maggioranza assoluta da raggiungere.
Un deciso aumento dei votanti che arrivano al sessantuno per cento.
Guardando al risultato – una valanga a favore dell’uscente democratico Franklin Delano Roosevelt che travolge il povero repubblicano Alf Landon (vince in quarantasei Stati su quarantotto e lascia al rivale la miseria di otto Elettori) – verrebbe fatto di trascurare questa tornata elettorale.
Non poche, invece, le necessarie sottolineature.
Per cominciare, la vera possibile spina nel fianco di F.D.R., la sola concepibile e temibile concorrenza all’interno dei democratici era il Senatore ed ex Governatore della Louisiana Huey Long.
Magnifico oratore, populista e grande demagogo, aveva appoggiato il Presidente nel 1932 per criticarne dipoi aspramente l’operato e pensare seriamente di scalzarlo appunto nel 1936.
Fra l’altro – va ricordato perché da quel momento in poi tutti i candidati parleranno (e a tutti i candidati verrà richiesto di indicare) dei primi impegni da rispettare una volta eletti in un ben determinato lasso di tempo – Long aveva pubblicato un libello intitolato ‘I miei primi cento giorni alla Casa Bianca’.
L’impetuosa corsa del Nostro fu però troncata nel settembre del 1935 dalle pallottole di un attentatore.
Poi, nel corso delle Primarie, un altro contendente cercò di sbarrare la strada a F.D.R.: si tratta di Henry Skillman Breckinridge, che aveva raggiunto una notevole popolarità essendo il Procuratore nel celeberrimo e sfortunato rapimento del figlio di Charles Lindbergh.
Comunque, il capo dello Stato, per fortuna (il vero oppositore era stato eliminato non certo politicamente) e per merito (alla fine, nelle Primarie, la sua superiorità fu schiacciante) fu confermato come candidato a White House a Philadelphia.
Con lui, il Vice a sua volta uscente, il vecchio rivale a lui affiancatosi quattro anni prima, John Garner, ‘Cactus Jack’, politico texano di forte tempra.
Qualche parola va spesa a suo riguardo dopo quelle riportate trattando della tornata 1932.
Difatti, l’avventura politica di Garner dopo la conferma è rimarchevole per due motivi.
Primo: si oppose (ed ebbe buon gioco) ai desiderata di F.D.R. quando il Presidente – in conflitto con la Corte Suprema – pensò bene di proporre la possibilità di una nomina da parte sua di Giudici, appunto dell’Alta Corte, ‘supplenti’ al fine di mettere in minoranza gli oppositori che si trovavano all’interno del consesso.
Secondo: pensando che Roosevelt non avrebbe chiesto un terzo incarico (nessuno, prima, lo aveva fatto), si propose in vista della Convention del partito del 1940.
Andando assai diversamente le cose, eliminato dal ticket con una manovra dal Presidente, riposti i sogni di gloria, abbandonò la scena.
Guardando al GOP, Alf Landon, il Governatore del Kansas uscito vincente dalla Convention di Cleveland, come si è detto travolto da F.D.R. nella circostanza, vinse solo nel Maine e nel Vermont.
Da segnalare il fatto che Frank Knox, con lui nel frangente a comporre la formazione repubblicana, sarà successivamente Segretario alla Marina proprio con il rivale Roosevelt.
1940
Alle urne il 5 novembre.
Ancora cinquecentotrentuno i componenti il Collegio Elettorale da eleggere.
Di nuovo duecentosessantasei la maggioranza assoluta degli stessi da raggiungere.
Sessantadue e cinque per cento gli aventi diritto al voto effettivamente recatisi ai seggi.
Per la prima volta nella storia delle presidenziali USA, il Presidente in carica cerca ed ottiene una terza investitura dal suo partito.
È Franklin Delano Roosevelt che tradisce la tradizione.
Nessuno prima (salvo, per il vero, soccombendo in sede di Convention, Ulysses Grant nel 1880) si era riproposto per un terzo mandato non perché esistesse una norma limitante in proposito.
No, solo per dare seguito alle parole del Padre della Patria George Washington il quale, nel 1796, aveva rifiutato una nuova candidatura (ed una certa elezione) dicendo che nessun uomo poteva sopportare con profitto per la Nazione e fisicamente più di due mandati presidenziali.
Sarà, per inciso, proprio a seguito della decisione di F.D.R. – che si riproporrà poi anche nel 1944 – che il Congresso nel 1951 approverà il XXII Emendamento che vieta una terza elezione, per non parlare ovviamente di una quarta.
Non essendo chiaro – tutt’altro – se davvero F.D.R. avrebbe chiesto una terza chance, il Partito Democratico sembrava dover scegliere tra lo storico Vice Presidente John Garner e il Postmaster General James Farley.
Alla fine, nella Convention riunita in Chicago, l’Asinello confermò invece Roosevelt: si disse (lo stesso Presidente in qualche modo sostenne) che essendo in corso in Europa la guerra, alla Casa Bianca doveva restare un uomo di esperienza, non subentrare un novellino.
Non pochi, comunque, accettarono con difficoltà l’accadimento.
Non pochi pensarono ad una manovra studiata e corrispondente alla “tipica tortuosità di comportamento” del due volte Capo dello Stato.
A sostituire Garner nel ticket, il Segretario all’Agricoltura Henry Wallace, un progressista.
Il Partito Repubblicano, in quel di Philadelphia, sembrava dovesse scegliere obbligatoriamente tra due possibili candidati: l’attivissimo Procuratore del Distretto di New York Thomas Dewey e il Senatore dell’Ohio Robert Taft, figlio dell’ex Presidente William ma personalmente di grande spessore, tanto che più tardi una commissione a tale incombenza delegata lo indicherà tra i cinque più importanti e incisivi Senatori della storia americana.
Nella contrapposizione, Dewey e Taft accettarono di ritirare la candidatura e la Convention, al sesto ballottaggio, elesse il businessman dell’Indiana Wendell Wilkie.
Con lui, nella formazione, il Senatore dell’Oregon Charles McNary.
Argomento principale della campagna, ovviamente, la possibile entrata nel conflitto degli Stati Uniti.
Wilkie accusò F.D.R. di essere pronto a portare il Paese a combattere.
Roosevelt, promise che i giovani non avrebbero partecipato “ad alcuna guerra straniera”, qualunque cosa ciò significasse.
Per quanto il GOP si battesse al meglio conquistando decisamente più voti rispetto a Landon, il Presidente uscente ottenne una comoda rielezione.
Questo l’esito:
Franklin Delano Roosevelt, trentotto Stati e quattrocentoquarantanove Elettori
Wendell Wilkie, dieci Stati e ottantadue voti al Collegio.
Varese, 23 dicembre 2023
Il 30 aprile del 1789 George Washington, insediandosi, non giurò nelle mani del Presidente della Corte Suprema ma in quelle del Cancelliere dello Stato di New York Robert Livingston.
Questo perché la cerimonia – che aveva svolgimento nel luogo nel quale successivamente sorgerà la Federal Hall nuovaiorchese – non poteva essere ufficializzata da un membro di un organismo non ancora costituito.
Sarà difatti lo stesso Washington a nominare successivamente i Giudici della Corte, Chief compreso.
Varese, 23 dicembre 2023
Democratici e Repubblicani USA
Le origini, le ragioni storiche, le antiche contrapposizioni, i primi confronti elettorali diretti dei due partiti che competono tra loro per White House dal 1856, egemoni negli Stati Uniti d’America e alla cui eternità, peraltro tra alti e bassi, concediamo tuttora ogni credito.
Per cominciare, John Quincy Adams vs Andrew Jackson e Andrew Jackson vs John Quincy Adams.
All’inizio pertanto e, nella indispensabile Annotazione finale, ben prima dell’inizio, dei Democratici (Asini e/o Asinelli, essendo questo animale il loro simbolo) e dei Repubblicani (Elefanti e/o Elefantini, considerato che il pachiderma li rappresenta) americani.
Negli Apparati, poi, in conclusione, pochi dati ritenuti essenziali ma, nella voluta compendiosità, non esaustivi per una sia pure solo accennata più avvertita, specifica e no, conoscenza.
Parliamone.
Due persone, due personalità diversissime.
Origini e percorsi assolutamente opposti.
‘Aristocratico’ per nascita, nel senso americano del termine, il nativo di Braintree, Massachusetts.
Destinato naturalmente alla guida della Nazione e in tale prospettiva educato.
(Non era forse il genitore John Adams uno dei Padri della Patria, ‘Founding Father’, come si dice, autorevolissimo, cardine del Federalismo, primo a ricoprire l’incarico di Vice Presidente, successore di George Washington e pertanto secondo Capo di Stato dell’Unione?
Non era forse la Madre, Abigail Smith, Donna di assoluto livello, culturalmente strutturata?)
Necessariamente quindi laureato ad Harvard con ogni onore avendo alle spalle la Sorbona e l’Università olandese, docente universitario, poliglotta, diplomatico di vero successo a livello internazionale, politico di altissimo profilo, Segretario di Stato e in tale ambito principale autore della cosiddetta ‘Dottrina Monroe’ che contribuirà a regolare lungamente la politica estera degli States, infine Presidente (il sesto) come suo Padre.
John Quincy Adams, questi.
Umili le origini (nato in un’area geografica tra North e South Carolina) e travagliato il percorso formativo (ovviamente al confronto decisamente più debole tanto che l’aristocratico rivale arriverà a sostenere un suo celato analfabetismo!) del futuro e in tale veste capacissimo soldato e Generale le cui celebrate vittorie sul campo in specie contro gli inglesi (si veda nella Annotazione) e sui pellerossa furono base e corpo della decisione di entrare, per quella certamente opposta ma praticabile via, in politica.
Andrew Jackson, questi.
1824, le decime cosiddette elezioni presidenziali (che in verità tali non sono dato che concludono con l’investitura Stato per Stato degli Elettori – iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni – che dipoi riuniti in Collegio effettivamente nomineranno il Presidente, essendo questa non una elezione ‘diretta’ ma ‘di secondo grado’) sono in programma dal 26 ottobre al 2 dicembre (è a far luogo dal successivo 1848 che ebbero ed hanno svolgimento in un solo giorno).
Duecentosessantuno gli Elettori e per conseguenza centotrentuno la maggioranza assoluta tra costoro da raggiungere o superare.
Quattro i candidati alla successione di James Monroe che, seguendo la prassi inaugurata da George Washington di non cercare un terzo quadriennio, ha autonomamente determinato di lasciare l’Executive Mansion il 4 marzo del prossimo 1825.
Tutti appartenenti al dominante (il Federalista, lungamente avverso, è da tempo inesorabilmente avviato alla dissoluzione e del resto dallo stesso era uscito anni avanti il medesimo J. Q. A.) Partito Democratico-Repubblicano, voluto in primis e a lungo capeggiato da Thomas Jefferson.
Sono:
il Segretario di Stato in carica John Quincy Adams,
il Segretario al Tesoro in atto William Crawford, favorito dell’uscente Monroe che lo vorrebbe suo successore.
lo Speaker della Camera dei Rappresentanti in esercizio Henry Clay,
il Generale Andrew Jackson.
Un vero ‘Parterre de Rois’.
Per la prima ed unica volta (per quanto i Whig nel 1836 abbiano dipoi vagheggiato di arrivare allo stesso esito proponendo anch’essi più pretendenti e fallendo), nessuno dei candidati allo scranno ottiene sufficiente consenso e il Collegio degli Elettori così formato non può determinare l’elezione.
Risultato:
Jackson, primo per voti popolari (oltre il quarantuno per cento) e per Delegati (novantanove),
Adams, secondo (trenta e nove per cento e ottantaquattro Delegati),
Crawford, terzo (undici e due per cento e quarantuno Delegati),
Clay, quarto (tredici per cento e trentasette Delegati).
La situazione quale determinata è prevista e debitamente regolata dal XII Emendamento alla Carta Costituzionale, datato 1804.
La competenza quanto alla nomina del Presidente in questo estremo caso passa dal Collegio Elettorale alla Camera dei Rappresentanti.
(Nell’ipotesi in cui a non raggiungere la maggioranza assoluta sia il candidato alla Vice Presidenza – accadrà nel 1836 – la scelta spetta invece al Senato).
La quale Camera deve votare per Delegazione statale valendo – le fondamenta federali dell’Unione riemergono e fanno sì che nell’ambito la dignità degli Stati sia la medesima, come nel caso della uguale consistenza del numero dei Senatori a prescindere da quello degli abitanti – allo stesso modo sia il deliberato, per dire, del più popolato tra i membri (ai nostri giorni la California) che quello del più disabitato (Wyoming).
E deve obbligatoriamente scegliere tra i primi tre preferiti in graduatoria guardando non ai voti popolari ma al numero di Delegati Nazionali conquistati.
(A chiarimento: nell’occasione 1824, quarto per Elettori ed escluso Clay che se si fosse invece tenuto conto del suffragio nelle urne sarebbe risultato, superando Crawford, terzo e pertanto votabile).
Escluso quindi, come or ora detto, dal certame Henry Clay (eccezionale uomo politico la cui capacità di perdere resta pressoché unica visto che gli riuscirà tre volte nella sfida finale ed altre per la nomination), Andrew Jackson ritiene di dover essere necessariamente e comunque il designato.
Le cose però non vanno affatto così.
Il 9 febbraio del 1825 (si entrava in carica allora il 4 marzo dell’anno successivo a quello elettorale) il consesso camerale composto dai Rappresentanti dei ventiquattro allora membri nell’Unione, mentre sulla capitale Washington infuria una epocale nevicata, elegge al primo ballottaggio John Quincy Adams.
Tredici Stati lo votano, contro i sette per Jackson e i quattro per Crawford (sul quale incombeva il ricordo di un vecchio, datato ictus che lo metteva comunque in un cono d’ombra).
Decisivo assolutamente nella temperie lo Speaker Clay che non sopporta politicamente e per contrapposizione ideale, perfino ‘a pelle’, il Generale e manovra per arrivare in porto secondo le proprie preferenze.
Sarà poi lo stesso Clay, effettivamente Segretario di Stato al fianco di J. Q. Adams, la qual cosa darà luogo a dissensi e ad accuse varie, in prima battuta da parte dello scioccato Generale convinto di essere stato con quel ‘mercato’ defraudato.
(Fra l’altro, va ricordato, ai tempi, l’incarico agli Esteri preludeva quasi necessariamente ad una successione presidenziale che però nello specifico – come si evince da quanto detto sopra riguardo alle sorti elettorali di Clay – non avvenne).
È a seguito di tali evenienze, nel bailamme, che il movimento Democratico-Repubblicano perde rapidissimamente aderenza.
Nasce ad opera di molti delusi sostenitori dello stesso Andrew Jackson il Partito Democratico, ancora (ben lo vediamo, con Joe Biden) e del tutto felicemente in essere.
Sarà proprio il Generale Jackson a prendersi nella tornata elettorale del 1828 una clamorosa rivincita.
Straordinariamente importante la vittoria in esame perché consente ad una nascente e non ancora convenientemente articolata borghesia di prendere (una ‘Seconda Rivoluzione’, ovviamente non armata, la mia definizione dell’accadimento) le redini del Governo.
È John Quincy Adams infatti l’ultimo fra gli ‘aristocratici’ a detenere, sia pure tra grandi difficoltà negli anni che trascorrerà a White House, le leve del comando.
(Per inciso, non certamente il solo uomo politico che tutti ai suoi tempi ritenevano il massimo possibile per l’incarico il quale, per le più diverse ragioni o contingenze, arrivato alla Executive Mansion, fallisce.
Ancora, e di contro, non poche le ‘riuscite’ anche clamorose di personaggi ritenuti decisamente ‘minori’.
È guardando a questo che si deve dare atto a Otto von Bismarck-Schoenhausen di avere ben compreso gli States quando affermava che “esiste una particolare Provvidenza divina a favore dei bambini, degli ubriachi, dei pazzi e degli Stati Uniti d’America!”)
Primo fra gli ex Presidenti a muoversi in tale direzione (lo imiterà anni dopo per un solo momento dato che verrà quasi subito a morte, facendosi eleggere al Senato, unicamente Andrew Johnson), J. Q. Adams non lascia affatto la politica attiva e siede, da eletto come si deve ogni due anni dal proprio Distretto del Massachusetts, alla Camera dei Rappresentanti, e questo dal 1831 (vincente l’anno prima nelle Mid Term) alla dipartita (1848).
Importante oltre modo l’azione portata nobilmente avanti in quell’ambito a favore dell’abolizione dello schiavismo e non trascurabile (il momento vedeva i Massoni politicamente molto attivi) l’impegno antimassonico.
Entrato tra i Whig nel 1834, ne influenzò fortemente la linea politica a proposito della prima eticamente fondamentale questione.
Ancora nel 1839 intervenne davanti alla Corte Suprema sul ‘Caso Amistad’, in materia estremamente significante (caso trattato assai degnamente da Steven Spielberg nel 1997 sul grande schermo, essendo J. Q. A. nella circostanza impersonato da un ottimo Anthony Hopkins).
Assolutamente certa l’incidenza del suo pensiero e dell’opera svolta sul Partito Repubblicano che sei anni dopo la di lui morte, nel 1854, nascerà avendo quale primo e assoluto intento proprio l’abolizione della schiavitù – trista istituzione che (ricordiamolo perché la sinistra volutamente, faziosamente, lo sottace), storicamente e incontestabilmente, il Partito Democratico americano sosterrà, sostituendola con la Segregazione dopo la Guerra di Secessione, nel Sud addirittura fino ai Settanta del Novecento – dopo avere perso presentando John Fremont le sempre cosiddette Presidenziali del 1856 (primo confronto diretto tra i due movimenti che da allora egemoni si alternano a White House), con Abraham Lincoln, conquisterà nel 1860 la Casa Bianca.
Da dove parte il confronto ancora oggi in atto tra Democratici e Repubblicani.
Ecco.
Annotazione
che è altresì una necessaria premessa:
Le origini del Partito Democratico americano. (fossero all’epoca stati in uso i cellulari, da ultimo – un petit divertissement – mi chiedo, esisterebbe?)
È il Generale Andrew Jackson che guida, a New Orleans, ad una clamorosa vittoria l’8 gennaio del 1815 contro gli Inglesi le truppe americane.
Lo scontro però era assolutamente fuori tempo massimo visto che il ‘Trattato di Gent’ (o Gand, le due delegazioni si confrontavano colà, in Belgio) che aveva posto ufficialmente termine alla Guerra del 1812 (anno nel quale era scoppiata) era stato firmato il precedente 24 dicembre 1814.
Jackson pertanto assurse a grande e duratura fama nazionale per avere vinto una battaglia che mai avrebbe dovuto avere luogo e che solo la lentezza dei mezzi di comunicazione dei tempi aveva permesso si svolgesse.
Fu sulla base – certamente, distinguendosi anche successivamente in specie combattendo i Seminole – di tale notorietà che nel 1824 il Generale originario del North Carolina si candidò per la Presidenza.
Primo (si riepiloga) per voti popolari, essendo peraltro quattro lui compreso i candidati, non gli riuscì di conquistare se non la maggioranza relativa (necessita l’assoluta) degli Elettori e, a seguito del ballottaggio davanti alla Camera che secondo dettato costituzionale in casi del genere deve avere svolgimento (fu in effetti la sola volta che la straordinaria ma corretta procedura venne portata a compimento), in quella sede, battuto dal Segretario di Stato in carica John Quincy Adams.
Ritenendo ingiusta e conseguente ad un intrallazzo politico la sconfitta, Jackson uscì dal Partito Democratico Repubblicano (che governava il
Paese dai tempi di Thomas Jefferson e venne dipoi rapidamente a morte) del quale, con lo stesso J. Q. A., faceva parte e nel 1828 si presentò e vinse come esponente del con lui – invero soprattutto ad opera dei suoi seguaci – nato Partito Democratico.
Tutto ciò detto, può essere con ragione sostenuto che il tuttora (eccome!) co egemone (col Repubblicano, fondato nel 1854 e – come sopra detto – contrapposto a partire dal 1856) Partito Democratico non avrebbe mai visto la luce del mondo se il citato confronto di New Orleans, correttamente, non avesse avuto svolgimento.
Sarebbe bastato avere un telefonino…
(Va qui ricordato che J. Q., il 4 marzo 1829, si rifiuterà di accogliere ufficialmente – per carità, neppure in altro modo – Jackson e non sarà presente all’Insediamento.
Lo stesso aveva fatto il padre John Adams all’atto del subentro di Jefferson il 4 marzo 1801).
Apparati:
A)
Il numero degli Elettori’ elezione dopo elezione come determinato dall’ingresso di nuovi Stati nell’Unione, dalla Guerra di Secessione – che ne determinò una momentanea diminuzione – e da altri di volta in volta necessari aggiustamenti.
(Ovviamente, l’eletto sarà tale solo conseguendo la maggioranza assoluta degli stessi):
1788/89 sessantanove
1792 centotrentadue
1796 centotrentotto
1800 centotrentotto
1804 centosettantasei
1808 centosettantacinque
1812 duecentodiciassette
1816 duecentodiciassette
1820 duecentotrentadue
1824 duecentosessantuno
1828 duecentosessantuno
1832 duecentoottantasei
1836 duecentonovantaquattro
1840 duecentonovantaquattro
1844 duecentosettantacinque
1848 duecentonovanta
1852 duecentonovantasei
1856 duecentonovantasei
1860 trecentotre
1864 duecentotrentatre
1868 duecentonovantaquattro
1872 trecentocinquantadue
1876 trecentosessantanove
1880 trecentosessantanove
1884 quattrocentouno
1888 quattrocentouno
1892 quattrocentoquarantaquattro
1896 quattrocentoquarantasette
1900 quattrocentoquarantasette
1904 quattrocentosettantasei
1908 quattrocentoottantatre
1912 cinquecentotrentuno
1916 cinquecentotrentuno
1920 cinquecentotrentuno
1924 cinquecentotrentuno
1928 cinquecentotrentuno
1932 cinquecentotrentuno
1936 cinquecentotrentuno
1940 cinquecentotrentuno
1944 cinquecentotrentuno
1948 cinquecentotrentuno
1952 cinquecentotrentuno
1956 cinquecentotrentuno
1960 cinquecentotrentasette
1964 cinquecentotrentotto
1968 cinquecentotrentotto
1972 cinquecentotrentotto
1976 cinquecentotrentotto
1980 cinquecentotrentotto
1984 cinquecentotrentotto
1988 cinquecentotrentotto
1992 cinquecentotrentotto
1996 cinquecentotrentotto
2000 cinquecentotrentotto
2004 cinquecentotrentotto
2008 cinquecentotrentotto
2012 cinquecentotrentotto
2016 cinquecentotrentotto
2020 cinquecentotrentotto
In ogni caso, il numero corrispondeva alla somma dei Congressisti spettanti ai singoli Stati.
Dal 1964 è pari a cinquecentotrentotto perché ai cinquecentotrentacinque (cento i Senatori, essendo cinquanta i membri dell’Unione dopo l’entrata di Alaska ed Hawaii nel 1959 e due i Laticlavi per ciascuno, più i voluti dalla Legge quattrocentotrentacinque Rappresentanti) si sono aggiunti i tre, a seguito di un Emendamento, spettanti al District of Columbia.
Ciò implica ovviamente che la maggioranza assoluta da raggiungere nel Collegio sia pari a duecentosettanta.
B)
Di seguito i nominativi di tutti i candidati degli Asinelli e degli Elefantini (il Partito Repubblicano USA è anche chiamato ‘Grand Old Party’ e i suoi esponenti, come gli elettori, spesso sono indicati con il corrispondente acronimo GOP) con i risultati ottenuti.
È peraltro qui necessario ricordare che altri Partiti, in precedenza dello stesso Democratico e confrontandosi con questo grosso modo tra il 1832 e il 1852, sono arrivati – dopo l’indipendente Padre della Patria George Washington – ad esprimere un Capo dello Stato.
Esattamente:
i Federalisti, il solo John Adams, eletto nel 1796;
i Democratico-Repubblicani, di seguito Thomas Jefferson, James Madison e James Monroe per due mandati ciascuno in carica dal 1801 al 1825 più l’infinite volte citato John Quincy Adams fino al 1829;
due i Whig, il primo William Harrison (eletto nel 1840 è detentore del record della Presidenza più corta, un mese esatto) e il secondo Zachary Taylor (vincente nel 1848 e a sua volta deceduto in corso di quadriennio).
1) Elenco dei Candidati Democratici alla Presidenza:
1828, Andrew Jackson, Vincente (d’ora in avanti V)
1832, Andrew Jackson, V
1836, Martin Van Buren, V
1840, Martin Van Buren, Perdente (d’ora in avanti P)
1844, James Polk, V
1848, Lewis Cass, P
1852, Franklin Pierce, V
1856, James Buchanan, V
1860, per il Northern Democrat Party Stephen Douglas, P, per il Southern Democrat Party John Breckinridge, P
1864, George McClellan, P
1868, Horatio Seymour, P
1872, nessun candidato
1876, Samuel Tilden, P
1880, Winfield Scott Hancock, P
1884, Grover Cleveland, V
1888, Grover Cleveland, P
1892, Grover Cleveland, V
1896, William Jennings Bryan, P
1900, William Jennings Bryan, P
1904, Alton Parker, P
1908, William Jennings Bryan, P
1912, Woodrow Wilson, V
1916, Woodrow Wilson, V
1920, James Cox, P
1924, John Davis, P
1928, Alfred Smith, P
1932, Franklin Delano Roosevelt, V
1936, Franklin Delano Roosevelt, V
1940, Franklin Delano Roosevelt, V
1944, Franklin Delano Roosevelt, V
1948, Harry Truman, V
1952, Adlai Stevenson II, P
1956, Adlai Stevenson II, P
1960, John Kennedy, V
1964, Lyndon Johnson, V
1968, Hubert Humphrey, P
1972, George McGovern, P
1976, Jimmy Carter, V
1980, Jimmy Carter, P
1984, Walter Mondale, P
1988, Michael Dukakis, P
1992, Bill Clinton, V
1996, Bill Clinton, V
2000, Al Gore, P
2004, John Kerry, P
2008, Barack Obama, V
2012, Barack Obama, V
2016, Hillary Rodham Clinton, P.
2020, Joe Biden, V
2) Elenco dei Candidati Repubblicani alla Presidenza:
1856, John Fremont, perdente (d’ora in avanti P)
1860, Abraham Lincoln, vincente (d’ora in avanti V) 1864, Abraham Lincoln, V
1868, Ulysses Grant, V
1872, Ulysses Grant, V
1876, Rutherford Hayes, V
1880, James Garfield, V
1884, James Blaine, P
1888, Benjamin Harrison, V
1892, Benjamin Harrison, P
1896, William McKinley, V
1900, William McKinley, V
1904, Theodore Roosevelt, V
1908, William Taft, V
1912, William Taft, P
1916, Charles Evans Hughes, P
1920, Warren Harding, V
1924, Calvin Coolidge, V
1928, Herbert Hoover, V
1932, Herbert Hoover, P
1936, Alf Landon, P
1940, Wendell Wilkie, P
1944, Thomas Dewey, P
1948, Thomas Dewey, P
1952, Dwight Eisenhower, V
1956, Dwight Eisenhower, V
1960, Richard Nixon, P
1964, Barry Goldwater, P
1968, Richard Nixon, V
1972, Richard Nixon, V
1976, Gerald Ford, P
1980, Ronald Reagan, V
1984, Ronald Reagan, V
1988, George Herbert Bush, V
1992, George Herbert Bush, P
1996, Bob Dole, P
2000. George Walker Bush, V
2004, George Walker Bush, V
2008, John McCain, P
2012, Mitt Romney, P
2016, Donald Trump, V
2020, Donald Trump, P
3) Ovviamente, vanno tenuti in considerazione i Vice Presidenti subentrati mortis causa nel corso dell’Ottocento e poi non più (o del tutto ininfluentemente avendo altresì cambiato partito) ricandidatisi:
John Tyler, Whig particolare successore del citato William Harrison;
Millard Fillmore, altrettanto, e successore di Zachary Taylor;
Andrew Jackson, un democratico che prende il posto del repubblicano assassinato Abraham Lincoln?
È che nel 1864 a completare il ticket, per dimostrare che non tutti i democratici erano secessionisti, Lincoln aveva voluto appunto un Asinello al fianco, per cui, assassinato che fu…
Chester Arthur, repubblicano, in luogo dell’altrettanto ucciso James Garfield.
Nel Novecento, a seguito però delle dimissioni del titolare Richard Nixon (unico costretto a darle a seguito del celeberrimo ‘scandalo Watergate’) Gerald Ford, repubblicano naturalmente come Nixon, in seguito candidato nel 1976 e defenestrato da Jimmy Carter.
Quanto al nativo di Omaha, è il solo inquilino della Executive Mansion che vi sia arrivato senza essere stato eletto.
Subentrato come detto a Nixon – nell’agosto 1974, esattamente l’8 – in precedenza aveva sostituito seguendo le procedure previste da un Emendamento introdotto nel 1967, l’altrettanto dimissionario Vice Spiro Agnew.
C)
Duemilanovecentoventidue:
Quanti i giorni di massima permanenza alla Casa Bianca?
Dalla approvazione nel 1951 dell’Emendamento che limita a due le possibili elezioni, duemilanovecentoventidue, pari alla somma delle singole ventiquattr’ore che compongono due quadrienni.
(In precedenza, l’unico Capo dello Stato USA che avesse superato i due mandati, Franklin Delano Roosevelt, era rimasto a White House – fino alla morte – quattromilaquattrocentoventidue giorni, primato ovviamente inavvicinabile).
Dal 1992 – due quadrienni di Bill Clinton seguiti dai due di George Walker Bush e dagli altrettanti di Barack Obama – tre i successivi Presidenti (un democratico, un repubblicano, un altro democratico) che hanno raggiunto il predetto traguardo.
In precedenza, era occorso tra il 1801 (4 marzo, insediamento di Thomas Jefferson) e il 4 marzo 1825, quando James Monroe – tra i due James Madison – aveva lasciato la carica.
I tre appartenevano allo stesso partito, il Democratico-Repubblicano.
Ove Donald Trump fosse stato confermato e arrivato al 20 gennaio – dal 1937 si entra in carica il 20 del primo mese dell’anno successivo alla elezione, non più dal 4 marzo – 2025, sarebbe stato stabilito il record di quattro Two Terms Presidents consecutivamente in carica!
E infine
un tema poco frequentato ma certamente dal punto di vista elettorale incidente:
Il Sud dopo la Guerra di Secessione.
Impiegò davvero molto tempo a riprendersi finita la Guerra di Secessione il Sud degli Stati Uniti ridotto a servire come mercato le attività industriali del Nord.
La certamente non rosea situazione è con amara ironia raccontata da un giornale di Atlanta datato 1890 (parecchio dopo il termine del predetto conflitto) che narra del funerale di un Georgiano.
Ecco in quali termini:
“Si dovette spezzare del marmo per scavargli la fossa e tuttavia la pietra tombale che fu collocata sulla stessa veniva dal Vermont.
Fu sotterrato nel centro di una foresta di abeti e tuttavia la bara di abete era stata importata dal Michigan.
Fu seppellito sul bordo di una miniera di ferro e tuttavia i chiodi della bara e la pala del becchino provenivano da Pittsburgh.
Fu seppellito in mezzo alla migliore terra per ovini del mondo e tuttavia il rivestimento della cassa proveniva dal Nord.
Fu seppellito con un abito di New York, mutande di Chicago, una camicia di Cincinnati e un paio di scarpe di Boston.
Il Sud aveva fornito soltanto il cadavere e la fossa nel terreno!”
Varese, 23 dicembre 2023
Flash elettorale
Corte Suprema: no all’esame rapido dell’immunità di Trump
La bocciatura rischia di far slittare l’inizio dei processi a carico dell’ex Presidente
La Corte Suprema statunitense respinge la richiesta del procuratore speciale Jack Smith di esaminare in tempi stretti il nodo dell’immunità presidenziale rivendicata da Donald Trump nel procedimento per l’assalto al Congresso.
Smith aveva chiesto ai saggi di valutare con l’urgenza l’immunità, aggirando il normale processo nelle corti di appello. Una richiesta di esame accelerato respinta dalla Corte Suprema senza alcuna spiegazione. La bocciatura rischia di far slittare l’inizio dei processi a carico di Trump.
La decisione della Corte Suprema di non esaminare in via rapida il nodo dell’immunità di Trump rappresenta una vittoria per l’ex presidente, che aveva chiesto ai saggi di non accelerare l’esame. Senza spiegazione e senza dissensi pubblici, la Corte Suprema ha indicato che lascerà alle corti di appello guardare la questione per prime. Il mancato intervento in tempi rapidi rischia di far slittare i processi a carico di Trump con conseguenze anche sulla campagna elettorale.
Smith chiedendo alla Corte Suprema di accelerare l’esame aveva legato il caso Trump a quello di Richard Nixon del 1974, quando l’allora presidente fu costretto su decisione dei saggi a consegnare informazioni della Casa Bianca da usare nel processo per il Watergate.
Varese, 22 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (quattordicesima parte)
1928
Alle urne il 6 novembre.
Cinquecentotrentuno ancora (sarà così fino al 1956 compreso) gli Elettori.
Duecentosessantasei il limite minimo per ottenere la maggioranza assoluta.
Cinquantasei e nove per cento (un aumento dell’otto rispetto alle precedenti consultazioni) la percentuale degli aventi diritto al voto recatisi ai seggi.
Il Partito Repubblicano, riunito in Convention a Kansas City, essendosi dichiarato non disponibile il Presidente uscente Calvin Coolidge, nomina il Segretario al Commercio in carica Herbert Hoover.
Prevale sull’ex Governatore dell’Illinois Frank Orren Lowden e sul Senatore del Kansas Charles Curtis (fra l’altro, il solo pellerossa arrivato a tale vertice politico) che sarà con lui nel ticket come candidato Vice Presidente.
Il Partito Democratico, a Houston, sceglie il Governatore del New York Alfred Smith.
Suo Running Mate il Senatore dell’Arkansas Joseph Robinson.
Entrambi i candidati a White House nonché i motivi del contendere meritano l’approfondimento che segue.
Prima, comunque, il risultato elettorale:
Herbert Hoover – vincitore ‘a valanga’, conquista quaranta Stati e quattrocentoquarantaquattro delegati al Collegio;
ad Alfred Smith, otto Stati e ottantasette Elettori.
Annotazioni
Il vincitore: Un tipo davvero in gamba
Ingegnere attivo a livello internazionale.
Milionario in giovane età.
Capacissimo Presidente del consiglio interalleato per gli aiuti alle popolazioni colpite dagli eventi bellici durante e dopo la Prima Guerra Mondiale.
Uomo politico che aveva saputo tessere ottime relazioni in particolare con i Paesi latino americani.
Ministro del Commercio sotto Warren Harding e il suo successore.
Un curriculum eccezionale, senza la minima pecca, quello del candidato scelto dai repubblicani in vista delle elezioni del 1928.
Demolito il democratico cattolico (‘papista’, secondo i denigratori) Alfred Smith, eccolo a White House.
È il 4 marzo del 1929.
Non molti mesi dopo, il terribile ‘crollo di Wall Street’.
Poi, la Grande Depressione.
Qualcuno può davvero pensare che Herbert Hoover abbia avuto a disposizione tra l’ottobre 1929 e il 1932 – quando sarà defenestrato da Franklin Delano Roosevelt – anni di Presidenza felici?
Anche un solo giorno fausto?
La famosissima e terribile, visto quanto accadde da lì a poco, frase che pronunciò nel corso del discorso di Insediamento: “In America siamo vicini, oggigiorno, al trionfo finale sulla povertà, come mai era accaduto prima nella storia di qualsiasi altro Paese”, dimostra abbondantemente come i politici, per quanto in gamba possano essere, per quanto adeguatamente informati, non siano assolutamente in grado di prevedere il futuro in campo economico, e non solo.
Lo sconfitto.
Il ‘papista’ Alfred Smith
Il primo cattolico che pensò seriamente alla Presidenza non fu, come molti credono, John F. Kennedy ma Alfred E. Smith.
Orfano a quindici anni e costretto a lasciare la scuola per lavorare come contabile per mantenere la madre e i quattro fratelli minori, Smith si dimostrò subito un vero ‘animale’ politico.
Membro dell’assemblea dello Stato di New York per i democratici nel 1902, in seguito Sceriffo della Contea (sempre di New York) e Presidente del circolo comunale, Alfred, nel 1918, arrivò facilmente al Governatorato dello Stato venendo di poi rieletto, con l’eccezione del 1920, altre tre volte.
Contrapposto, come visto, nel 1924, nella Convention nazionale del Partito dell’Asino che si svolgeva al Madison Square Garden, a William Gibbs McAdoo (genero dell’ex Presidente Wilson e già Ministro del Tesoro), risultati inutili ben centodue scrutini, si vide obbligato, insieme al rivale, a ritirare la candidatura a favore di John Davis che venne così nominato alla centotreesima votazione per essere poi battuto dal capo dello Stato uscente il repubblicano Calvin Coolidge.
Tornato alla carica nel 1928, ‘l’eroico guerriero’ (in tal modo lo aveva battezzato, presentandolo ufficialmente in questa seconda occasione ai delegati, Franklin Delano Roosevelt), sia pure con difficoltà, ottenne la tanto sospirata Nomination ed ingaggiò un aspro duello con il concorrente prescelto dal GOP Herbert Hoover.
Come scrive Michael Parrish in ‘L’età dell’ansia’, “lo scontro tra Hoover e Smith è stata l’ultima epica battaglia culturale degli anni Venti, una battaglia tra opposte realtà religiose, etniche e geografiche. Cattolicesimo irlandese (quello di Smith), contro Protestantesimo, città contro campagna, proibizionisti contro antiproibizionisti…
Smith rappresentava le classi lavoratrici urbane, Hoover il management capitalista illuminato”.
I due fattori che decisero – rovinosamente per il Nostro che si affermò solo in otto Stati su quarantotto – la tenzone furono la sua posizione sul Proibizionismo (voleva abrogare l’Emendamento che lo aveva introdotto e perciò fu brutalmente accusato di essere un ubriacone) e, soprattutto il conclamato cattolicesimo (nel suo ufficio di governatore ad Albany campeggiava un ritratto di papa Pio XI con la dedica: ‘Al mio amatissimo figlio Alfred Smith’).
Dai più fanatici tra gli avversari fu addirittura accusato di cospirare con il papa per distruggere la libertà religiosa e politica del Paese!
1932
Si vota l’8 novembre e i partecipanti al voto sono il cinquantasei e nove per cento degli aventi diritto.
Gli Elettori componenti il Collegio sono cinquecentotrentuno e per conseguenza la maggioranza assoluta è fissata a duecentosessantasei.
Le due Convention principali (saranno candidati anche esponenti del Partito Socialista e dei comunisti) si svolgono a Chicago.
Il Presidente uscente Herbert Hoover viene nominato dal GOP al primo ballottaggio quasi all’unanimità.
L’andamento della Convention democratica che vedrà infine prevalere Franklin Delano Roosevelt è descritto nelle righe che seguono.
Roosevelt prevarrà in quarantadue Stati collezionando quattrocentonovantadue Elettori.
Hoover vincerà in sei Stati, tutti nel Nord sulla costa atlantica, e potrà contare solo su cinquantanove delegati al Collegio Elettorale.
Uno dei peggiori risultati di ogni tempo da parte di un Presidente in cerca di conferma.
Annotazioni
La campagna del 1932
Nel 1932, dopo che per tre mandati consecutivi i repubblicani avevano occupato la Casa Bianca, le elezioni presidenziali americane si prospettavano come assolutamente favorevoli (si era in piena Grande Depressione) al candidato democratico, chiunque egli fosse.
Di conseguenza, la lotta per la Nomination all’interno del Partito dell’Asino fu particolarmente violenta.
Alla fine, però – pur essendo stato sconfitto nelle Primarie del Massachusetts da Alfred Smith e in quelle della California dallo speaker della Camera John Garner – Franklin Delano Roosevelt, forte di una bella serie di affermazioni, si presentò alla Convention estiva di Chicago con un seguito di delegati superiore al cinquanta per cento.
Ciò, peraltro, non bastava: all’epoca, infatti, per vincere, occorreva ottenere i due terzi dei voti dei delegati stessi.
Esauriti senza esito i primi scrutini, la situazione fu sbloccata da due diversi accadimenti.
Roosevelt, che già aveva l’appoggio entusiasta di Huey Long e quello più sofferto di McAdoo, raggiunse un insperato accordo con Garner al quale offrì la Vice Presidenza, e, soprattutto, il magnate della carta stampata William Randolph Hearst si decise a sostenerlo temendo che una sconfitta di Franklin potesse aprire la strada alla candidatura di Newton Baker le cui posizioni politiche erano in netto contrasto con le sue.
Conclusa una campagna elettorale ‘in discesa’ contro il Presidente uscente Herbert Hoover (una vera ‘anitra zoppa’, se mai ve ne fu una) e due candidati ‘minori’: il socialista Norman Thomas e il comunista William Zebulon Foster, l’8 novembre 1932, il secondo Roosevelt trionfava alle presidenziali con una valanga di suffragi.
Crollo di Wall Street?
Tutta colpa di Herbert Hoover!
Elezioni presidenziali del 1932.
Si avvicina il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre, esattamente il giorno 8, quello fissato per le votazioni.
Il Presidente uscente, Herbert Hoover, è talmente impopolare che gli autostoppisti per costringere le auto a fermarsi e a caricarli esibiscono cartelli con la scritta “se non mi date un passaggio, voto Hoover!”
Broadway, seconda metà degli anni Settanta del Novecento.
In scena il musical di grande successo ‘Annie’, musica Charle Strouse e parole di Martin Charnin.
La storia è ambientata nel pieno della depressione conseguente al crollo di Wall Street.
In una scena, un gruppo di senzatetto e di barboni si stringono intorno ai fuochi accesi nei bidoni per le immondizie per cuocere qualcosa e per riscaldarsi.
In coro, cantano ‘We’d Like to Thank You, Herbert Hoover’ che recita:
“Oggi viviamo in una baracca,
oggi frughiamo dovunque per trovare da mangiare,
oggi rubo il carbone per il fuoco,
chi lo sapeva che sarei stato capace di rubare?
Un tempo svernavo ai tropici
Passavo le estati al mare…
Vorremmo ringraziarti Herbert Hoover ,
per averci guidati tanto bene…
Verme schifoso, burocrate,
è grazie a te che ora siamo quello che siamo!”
Ecco come e in qual modo era considerato il Presidente in carica ai tempi delle elezioni che lo videro perdere da Franklin Delano Roosevelt.
(E il fatto che, ciò malgrado, gli sia riuscito di catturare nell’occasione oltre quindici milioni e settecentomila voti sa del miracoloso).
Ecco come e in qual modo a distanza di oltre quarant’anni lo considerassero i più.
Il peso politico degli intellettuali e la candidatura del comunista Foster
1932, in corsa Herbert Hoover e Franklin Delano Roosevelt.
I più importanti intellettuali del Paese – poeti di chiara fama, filosofi ben noti, scrittori assai apprezzati, critici di notorietà e carisma indiscutibili quali Sherwood Anderson, Erskine Caldwell, Malcolm Cowley, Countee Cullen, John Dos Passos, Langston Hughes, grace Lumpkin, Sidney Hook e Lincoln Steffens, per fare qualche nome – si schierano ben altrimenti: firmano infatti il documento stilato da Edmund Wilson a sostegno della candidatura di William Zebulon Foster.
In ‘Culture and Crisis’, il celebrato e tanto ben appoggiato critico che si esprimeva sulle pagine del ‘New Yorker’, su quelle di ‘The New Repubblic’ e di ‘Vanity Fair’ sostiene a spada tratta, con perizia e con stringente logica appunto Foster, esponente di primissimo piano e candidato ufficiale dei comunisti americani.
Risultato a novembre?
Centotremilatrecentosette, voti pari allo zero tre per cento.
Questo il ‘peso’ degli intellettuali in quella occasione.
Questo il ‘peso’ in politica degli intellettuali in ogni occasione!
Varese, 22 dicembre 2023
Gli Yuppie.
I segni del Novecento: dal rampantismo alla débâcle.
di Romano Giuffrida
per RSI
Da yippie a yuppie? Sembrerebbe una contraddizione in termini, eppure pare proprio che il termine yuppie abbia a che fare, anche se indirettamente, con Jerry Rubin, leader del movimento yippie durante la contestazione negli Stati Uniti.
Rubin, il ‘sovversivo’ autore nel 1970 di Fallo!, uno dei testi più radicali del mouvement USA, negli anni Ottanta del secolo scorso, divenne infatti businessman convinto.
Davanti alla parabola esistenziale che aveva portato il “ribelle” a passare dall’altra parte della barricata, l’opinionista del Chicago Tribune, Bob Greene, partendo da Y.U.P., acronimo di Young Urban Professionals che definisce appunto i giovani professionisti urbani (ciò che era diventato Rubin), trasformò ironicamente il termine yippie in yuppie.
Il neologismo non solo ebbe successo ma definì un fenomeno destinato a condizionare la scena sociale occidentale degli anni Ottanta del secolo scorso.
Ma chi erano gli yuppie?
Da dove arrivavano?
Per capirlo bisogna tornare al 20 gennaio del 1981, data in cui Ronald Reagan si insediò alla Casa Bianca.
Con l’ex attore hollywoodiano, infatti, al vertice degli Stati Uniti “spuntò il sole”, come ebbe a dire Reagan stesso, ossia si affermò una filosofia di vita che, tra le righe, corrispondeva al motto “consumare è bello!”.
Alla base di questa nuova way of life fu la Reaganomics, ossia un pensiero economico fondato sull’ideologia del massimo profitto individuale (coerentemente con questa impostazione, già dal primo periodo della presidenza Reagan, le imposte sul reddito vennero ridotte del venticinque per cento).
Era la nuova versione dell’american dream: tutti potevano diventare ricchi, bastava avere quella determinazione e forza che alla fine del decennio verranno simboleggiate da Charging Bull, il “toro in carica” che campeggia davanti alla Borsa di Wall Street.
Questa diventò la filosofia di uomini e donne, di età compresa tra i venticinque e i trentacinque anni, prevalentemente laureati, avidi di successo e denaro (e generalmente senza scrupoli).
Inconfondibili per il look composto da abiti firmati (nella top ten: Armani, Valentino e Versace), da camicie su misura, da scarpe italiane fatte a mano e da auto sportive, ovviamente costose.
Molto spesso, tutto ciò, veniva acquistato a credito (leasing, rateizzazioni, ecc.), in attesa che il “colpo giusto”, soprattutto in Borsa, portasse il denaro tanto agognato.
Esibire la ricchezza piaceva agli yuppie.
E allora, grandi feste nei migliori ristoranti o nei loft arredati dai designer più in voga o ancora nelle discoteche esclusive come lo Studio 54 di New York, meta internazionale per tutti gli ‘emergenti’ alla ricerca dei famosi “quindici minuti di notorietà” di warholiana memoria.
Sia chiara però una cosa: la vita gaudente degli yuppie non aveva nulla a che fare con l‘epicureismo ozioso tipico dei flâneurs di inizio secolo, al contrario.
Per loro, feste e divertimenti erano la “giusta ricompensa” dopo giornate dedicate freneticamente al lavoro. Null’altro contava: il lavoro, inteso come mezzo per poter accrescere sempre più il proprio status economico, era al centro della loro vita.
Che lavorassero nella finanza, nell’advertising, nella moda o in qualsiasi altro ambito in, il loro potenziale fisico e psicologico doveva essere sempre pronto a dare il massimo.
C’è da meravigliarsi se la cocaina divenne la droga emblematica degli anni Ottanta?
Paradigmatiche, a questo proposito, le parole che pronuncia Jordan Belfort (alias Leonardo Di Caprio) nel film Il lupo di Wall Street di Martin Scorsese del 2013: “Uso lo xanax per concentrarmi, l’ambien per dormire, l’erba per calmarmi, la cocaina per tirarmi su e la morfina perché è ottima.
Ma, tra tutte queste, la mia droga preferita beh… sono i soldi”.
Inutile dire che Di Caprio, nella pellicola ambientata nel 1987, impersonasse un classico yuppie ‘all’arrembaggio’.
Gli anni Ottanta sono gli anni dell’Aids, di Chernobil, del naufragio della ExxonMobil, ma per gli yuppie tutto ciò era un brusio di fondo da prendere in considerazione solo se avesse un qualche riflesso sugli andamenti della Borsa o sul loro lavoro.
Lo yuppismo si diffuse un po’ in tutto il mondo occidentale, ma fu in Italia che, quasi a voler esorcizzare il decennio precedente di contestazione e lotta armata, il fenomeno assunse caratteristiche di una mutazione culturale. L’edonismo reaganiano, espressione nata ironicamente durante uno show televisivo, divenne un modus vivendi imprescindibile. Improvvisamente l’apparire fu molto più importante che l’essere: palestre, saune, raggi U.V.A., sartorie o negozi d’abbigliamento esclusivi, locali e discoteche à la page divennero tappe obbligate dei percorsi degli italici yuppie.
Dice però un vecchio proverbio: “Un bel gioco dura poco” e, dura lex sed lex, lo dovettero imparare anche gli yuppie.
Dopo anni di consumismo incontrollato e di denaro sperperato, il gioco infatti finì improvvisamente il 19 ottobre del 1987, con il crash della Borsa americana.
Quel Lunedì, non per nulla chiamato ‘nero’, il Dow Jones, l’indice azionario della Borsa di New York, perse infatti il ventidue e sei per cento in un solo giorno, comportando perdite per cinquecento miliardi di dollari e scatenando una crisi finanziaria globale costata circa mille centosettanta miliardi di dollari.
Sì, il gioco era finito, ed era finito male.
Poco tempo dopo il crollo, la rivista statunitense Newsweek dichiarò che gli yuppie si erano “estinti”.
Così era, perché chi ne aveva indossati i panni, dovette improvvisamente togliersi la maschera, riconoscersi sul lastrico e soprattutto rispondere degli incalcolabili debiti che nell’euforia di quel
la stagione aveva contratto.
Si erano “estinti ” gli
yuppie, ma non il virus della “ricchezza facile” fondata sul credito, dell’apparire “altro” da ciò che si è, dello spendere oltre le proprie possibilità: tutto ciò è ancor oggi lo scenario che ci circonda.
Sarà per questo motivo che gli analisti finanziari temono che un altro black monday
sia dietro l’angolo?
Varese, 21 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (tredicesima parte)
1920
Per la prima volta a livello federale (alcuni Stati lo avevano già consentito precedentemente), votano anche le donne.
Brusco, il calo (il dodici e quattro per cento in meno) della partecipazione al voto che scende al quarantanove e due.
Si vota il 2 novembre.
Gli Elettori sono cinquecentotrentuno e la maggioranza assoluta è fissata a duecentosessantasei.
Il Partito Repubblicano tiene la Convention a Chicago.
Il Partito democratico a San Francisco ed è la prima volta che una città della costa pacifica ospita un evento politico di tale portata.
Ancora una volta in corsa il Partito Socialista che, ancora una volta, propone Eugene Debs.
In discussione in particolare l’adesione degli Stati Uniti alla Società delle Nazioni.
Wilson fu colto in settembre da un ictus che lo rese semiparalitico e, ammesso volesse un terzo mandato, da questo punto di vista uscì di scena.
Il candidato democratico uscito dalle lotte californiane fece comunque dell’adesione uno dei suoi maggiori argomenti elettorali.
La travolgente vittoria conseguita dal repubblicano Warren Harding che al riguardo aveva pressoché taciuto fu interpretata dallo stesso come la pietra tombale sul Trattato da approvare.
Il GOP, sicuro di prevalere nella circostanza, lottò molto duramente al proprio interno.
Fra i candidati di maggior peso, il generale Leonard Woods, già Governatore di Cuba, e il Governatore dell’Illinois Frank Orren Lowden.
Al decimo ballottaggio, però, la Nomination va al poco noto Senatore dell’Ohio Warren Harding.
Con lui, a formare il ticket, il Governatore del Massachusetts Calvin Coolidge.
Sul fronte opposto, fuori gioco non solo Wilson ma anche, per differenti motivi, il suo Vice Thomas Marshall, favorito sembra l’ex Segretario di Stato William Gibbs McAdoo.
Fra i mille (parrebbe) competitors, un cattolico di statura politica notevole, l’emergente Governatore del New York Alfred Smith.
Al quarantaquattresimo scrutinio, superando reciproci altolà e inganni, prevale il Governatore dell’Ohio James Cox (in ragione di ciò, a novembre, si confrontarono due politici provenienti dallo stesso Stato).
Suo Vice, Franklin Delano Roosevelt, allora poco noto e destinato a grandi cose.
Da sottolineare il fatto che F.D.R. è l’unico candidato Vice componente di un ticket sconfitto capace di arrivare dipoi personalmente alla Casa Bianca.
Il risultato?
Sottolineato il fatto che il citato Eugene Debs arrivò al tre e quattro per cento superando i novecentomila voti popolari, per la seconda volta dai tempi iniziali delle votazioni, si parlò di landslide e più correttamente.
Il GOP prevalse in trentasette Stati contro undici e catturò quattrocentoquattro voti dei Elettori lasciandone a Cox solo centoventisette.
Annotazioni
La ‘normalcy’ di Warren Harding
Campagna per la Casa Bianca del 1920.
A Boston, in maggio, un nutrito gruppo di uomini d’affari ascolta un non molto conosciuto Senatore eletto in Ohio: Warren Harding.
L’America, gli americani sono stanchi di eccezionalismo (Theodore Roosevelt, in particolare) e di guerre (Woodrow Wilson, l’uscente e non riproposto Wilson).
Vogliono tranquillità e pace, vogliono prosperare e cercano un Capo dello Stato che li porti su ben differenti strade.
Ed ecco che quell’uomo politico repubblicano parla loro di ‘normalcy’, un vocabolo che ha inventato e che preferisce usare al posto di ‘normality’.
E cosa è la ‘normalcy’?
“Ciò di cui l’America ha bisogno”, disse allora, “non sono gli eroismi, ma la guarigione.
Non le panacee, ma la normalità.
Non la rivoluzione, ma la ripresa.
Non le agitazioni, ma l’adattamento.
Non le operazioni chirurgiche, ma la tranquillità.
Non i drammi, ma la serena imparzialità.
Non gli esperimenti, ma l’equilibrio.
Non l’annullamento dell’internazionalismo, ma il mantenimento di una trionfale nazionalità”.
Raccomanda, poi, di diffidare del potere del Governo e della ‘falsa economia’.
Sostiene occorra mettere l’America avanti a tutto, affidarsi in Patria al laissez-faire e all’estero al protezionismo.
Il successivo primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre quel Senatore arrivava alla Casa Bianca facilmente.
Cercherà di governare secondo quanto a suo tempo dichiarato.
1924
Si vota il 4 novembre.
Cinquecentotrentuno gli Elettori da eleggere.
Duecentosessantasei la maggioranza assoluta da raggiungere.
Quarantotto e nove per cento gli aventi diritto al voto effettivamente recatisi alle urne.
Tra i repubblicani, Calvin Coolidge, succeduto al defunto in corso di mandato Warren Harding, nella Convention di Cleveland, ottiene facilmente la Nomination.
Suo contendente, per quanto possibile nella situazione, il Senatore e in precedenza Governatore della California Hiram Johnson, già Running Mate di Theodore Roosevelt nel 1912.
Dal Partito Repubblicano – che a suo modo di vedere non abbraccia le idee populiste e progressiste che lo animano da sempre e non si schiera debitamente a favore degli agrari – esce Robert La Follette.
Nasce il Progressive Party del quale l’ex Governatore del Wisconsin, all’epoca Senatore, sarà il battagliero vessillifero.
Il Partito Democratico, riunito in quel di New York, affronta nella circostanza una delle Convention più complicate e infinite della storia.
Sedici giorni di votazioni (all’epoca, la Nomination si conquistava ottenendo i voti di due terzi dei delegati).
Equilibrio tra i due maggiori pretendenti: l’ex Segretario al Tesoro William Gibbs McAdoo e il Governatore cattolico del New York Alfred Al Smith.
Dopo centodue (!?) ballottaggi non concludenti, McAdoo e Smith si accordarono per far convergere i loro voti sull’ex Ambasciatore a Londra John Davis, del West Virginia, che risultò pertanto ufficialmente investito.
Con Davis, a definire la squadra dell’Asinello, il Governatore del Nebraska Charles Wayland Bryan, fratello minore del tre volte invano candidato e successivamente Segretario di Stato William Jennings Bryan.
Da sottolineare il fatto che i due Bryan sono nella storia gli unici fratelli inclusi in un ticket presidenziale da uno dei partiti maggiori.
Al termine di un confronto nel quale molto si adoperò secondo carattere La Follette, in cui Davis fu scarsamente incisivo, il Presidente uscente prevalse con grande facilità.
L’esito fu il seguente:
Coolidge, trentacinque Stati e trecentoottantadue delegati al Collegio Elettorale;
Davis, dodici Stati e centotrentasei Elettori;
La Follette, uno Stato (il suo Wisconsin) e soli tredici voti nel predetto Collegio.
Da sottolineare che lo Stesso La Follette arrivò nell’occasione secondo in altri tredici Stati.
Varese, 21 dicembre 2023
Biden e la ‘Sindrome Ruth Bader Ginsburg’
Ultimi tempi del secondo mandato di Barack Obama.
Con molto tatto, per quanto si ritenga che a succedere al Presidente sia Hillary Clinton, si chiede alla anziana e non molto in arnese Giudice della Corte Suprema Ruth Bader Ginsberg di dare le dimissioni di modo che il successore sia alla sua stregua un giudice di parte democratica.
La Signora ignora bellamente ogni suggerimento e giunge a morte nel settembre del 2020, dando modo e tempo a Donald Trump, inaspettato inquilino della Casa Bianca, di nominare e far ratificare dal Senato la conservatrice Amy Coney Barrett che entra nel consesso il successivo ottobre.
Conseguenza, tra l’altro e soprattutto, la sentenza della Corte che ribalta la Roe v. Wade in tema di aborto.
I democratici temono fortemente che Joe Biden sia avviato a percorrere lo stesso cammino.
Non accettando di mettersi da parte a favore di un candidato più giovane (e con qualche ferita in meno nell’armatura), favorisce il ritorno in sella di Trump.
Probabile che in tale situazione non pochi altri esponenti democratici imitino David Axelrod che qualche tempo fa si è pubblicamente chiesto se la ricandidatura di Biden sia un bene per il partito e non un dannoso atto di egoismo.
Varese, 21 dicembre 2023
L’espressione ‘Founding Fathers’ è dovuta a Warren Harding, Presidente dal 1921 al 1923 (morto in carica per cause naturali).
Fa riferimento nell’uso comune agli uomini politici di maggior rilievo del periodo fondativo degli Stati Uniti d’America ma viene utilizzata anche per indicare semplicemente i firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza.
Thomas Jefferson definì coloro che idearono gli Stati Uniti, scrissero la predetta Dichiarazione, vergarono la Costituzione, approvarono il Bill of Rights nonché, in particolare ad opera di John Marshall, composero il Diritto Costituzionale, impostarono la giurisprudenza e la Giustizia americana ‘Cinquanta Semidei’.
Difficile molto, dopo, quando gli esponenti di questa vera ‘aristocrazia terriera’ declinarono e scomparvero, trovare uomini politici USA colti e preparati di pari livello!
A memoria:
George Washington
John Adams
Benjamin Franklin
Thomas Jefferson
Alexander Hamilton
James Madison
James Monroe
Gouverneur Morris
John Jay
John Marshall
George Clinton
DeWitt Clinton
Elbridge Gerry
Timothy Pickering
Robert Livingston
Roger Sherman
Aaron Burr
Samuel Huntington
John Hancock
Benjamin Harrison (primo della dinastia)
William Paca (probabilmente di origini abruzzesi)
John Quincy Adams, la cui sconfitta per mano di Andrew Jackson nel 1828 (la ‘seconda rivoluzione americana’ come l’ho chiamata io) segna la fine del Fondatori e l’avvento di una sia pure incompiuta borghesia.
Varese, 21 dicembre 2023
Quanti in totale in palio votazione per votazione i Delegati Nazionali (Electors) componenti il Collegio Elettorale che in seguito nomina il Presidente.
Si ricorda che la distribuzione proporzionale degli stessi Stato per Stato è sulla base dell’esito quanto al complesso degli abitanti secondo il Censimento che dal 1790 si svolge ogni dieci anni.
L’ultimo il trascorso 2020.
È guardando al loro numero che si ha viva rappresentazione della evoluzione storica, sociale, economica e istituzionale del Paese.
L’aumento che deriva dalle adesioni di nuovi Stati non è ininterrotto per alcuni aggiustamenti e ovviamente soprattutto a seguito della Guerra di Secessione.
I due periodi più lunghi nei quali gli ‘Electors’ non sono cambiati di consistenza sono il 1912/1956 – dodici votazioni consecutive che hanno riguardato i cosiddetti ‘quarantotto Stati Continentali’ – e il 1964/2020, allorché hanno partecipato alle consultazioni gli annessi nel 1959 Alaska ed Hawaii e il District of Columbia – quindici l’una dopo l’altra.
Nel 2024 gli Elettori saranno ancora Cinquecentotrentotto.
1788/89 Sessantanove
1792 Centotrentadue
1796 Centotrentotto
1800 Centotrentotto
1804 Centosettantasei
1808 Centosettantacinque
1812 Duecentodiciassette
1816 Duecentodiciassette
1820 Duecentoventinove
1824 Duecentosessantuno
1828 Duecentosessantuno
1832 Duecentoottantotto
1836 Duecentonovantaquattro
1840 Duecentonovantaquattro
1844 Duecentosettantacinque
1848 Duecentonovanta
1852 Duecentonovantasei
1856 Duecentonovantasei
1860 Trecentotre
1864 Duecentotrentaquattro
1868 Duecentonovantaquattro
1872 Trecentosessantanove
1876 Trecentosessantanove
1880 Trecentosessantanove
1884 Quattrocentouno
1888 Quattrocentouno
1892 Quattrocentoquarantaquattro
1896 Quattrocentoquarantasette
1900 Quattrocentoquarantasette
1904 Quattrocentosettantasei
1908 Quattrocentotrentoottantatre
1912 Cinquecentotrentuno
1916 Cinquecentotrentuno
1920 Cinquecentotrentuno
1924 Cinquecentotrentuno
1928 Cinquecentotrentuno
1932 Cinquecentotrentuno
1936 Cinquecentotrentuno
1940 Cinquecentotrentuno
1944 Cinquecentotrentuno
1948 Cinquecentotrentuno
1952 Cinquecentotrentuno
1956 Cinquecentotrentuno
1960 Cinquecentotrentasette
1964 Cinquecentotrentotto
1968 Cinquecentotrentotto
1972 Cinquecentotrentotto
1976 Cinquecentotrentotto
1980 Cinquecentotrentotto
1984 Cinquecentotrentotto
1988 Cinquecentotrentotto
1992 Cinquecentotrentotto
1996 Cinquecentotrentotto
2000 Cinquecentotrentotto
2004 Cinquecentotrentotto
2008 Cinquecentotrentotto
2012 Cinquecentotrentotto
2016 Cinquecentotrentotto
2020 Cinquecentotrentotto
2024 Cinquecentotrentotto
Varese, 20 dicembre 2023
Attacchi navali, Yemen sotto i riflettori.
I ribelli Houthi assaltano e colpiscono con missili le imbarcazioni da carico nel Canale di Suez.
Chi sono?
Che legame hanno con il conflitto in Israele?
da RSI
La guerra in Yemen riconquista l’attenzione internazionale in seguito a una serie di audaci attacchi condotti dal gruppo ribelle Houthi nelle scorse settimane contro navi mercantili nel Canale di Suez, nel Mar Rosso. L’intento è quello di esercitare pressione su Israele e altri attori internazionali riguardo la questione palestinese, e riportare l’attenzione sulla prolungata crisi presente nel Paese.
Gli attentati, che includono l’uso di droni e tecnologie sofisticate, hanno messo in evidenza la capacità di questo gruppo di influenzare non solo la geopolitica regionale ma anche l’economia globale. Alla luce di questi recenti eventi sono emersi diversi interrogativi sulla sicurezza delle rotte commerciali vitali e sul ruolo dell’Iran – sostenitore degli Houthi – nel conflitto più ampio del Medio Oriente.
L’intervento USA e le reazioni dei ribelli
In risposta agli attacchi, gli Stati Uniti hanno formato lunedì una coalizione di dieci nazioni con Gran Bretagna, Francia, Italia e Bahrein, per proteggere la navigazione commerciale nel Mar Rosso.
Il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin ha enfatizzato l’importanza della libertà di navigazione.
Gli Houthi hanno reagito alla notizia dichiarando la loro prontezza a contrastare qualsiasi coalizione guidata dagli USA nel Mar Rosso. Hanno minacciato di intensificare gli attacchi, con operazioni “ogni dodici ore”, mirando in particolare alle navi dirette verso Israele.
Gli attacchi sono motivati dal desiderio di esercitare pressione su Israele per fermare la sua politica in Gaza.
Chi sono gli Houthi?
Gli Houthi, formalmente noti come Ansar Allah (“Sostenitori di Dio”), sono un gruppo ribelle islamico di orientamento principalmente zaidita – una branca dello sciismo – che ha avuto origine nel nord dello Yemen.
Questo gruppo prende il nome dal carismatico leader Hussein Badreddin al-Houthi, che ne ha guidato le prime fasi.
Le radici del movimento affondano nelle comunità zaidite dello Yemen, che storicamente hanno vissuto un senso di emarginazione e oppressione sotto governi a maggioranza sunnita almeno dalla seconda metà del Novecento.
Un movimento di protesta
Nato nel 2004 per protestare su questioni locali nell’area di Sa’dah – nucleo della comunità zaidita – il movimento Huthi mirava inizialmente a conquistare rappresentanza politica e autonomia.
Tra gli scopi principali c’era quello di proteggere gli interessi culturali e religiosi.
Il gruppo ha inoltre tentato di opporsi all’influenza esterna, in particolare saudita – e quindi sunnita – in Yemen, in quella che rapidamente è diventata una vera e propria ribellione armata contro il governo in carica.
Questa evoluzione ha marcato un significativo cambiamento da rivendicazioni locali e culturali a una più ampia sfida politica e militare.
L’ascesa al potere degli Houthi è strettamente legata alla Primavera Araba e alla successiva instabilità politica del Paese: quando le proteste di massa nel 2011 hanno portato alle dimissioni del presidente a lungo termine Ali Abdullah Saleh, lo Yemen è entrato in un periodo di incertezza e di vuoti di potere. Approfittando del caos politico i ribelli hanno esteso la loro influenza, culminando con la presa della capitale Sana’a, nel settembre 2014.
Questo atto ha portato ad intensificare il conflitto con il governo yemenita di Aden e i suoi alleati regionali, e allo scoppio della guerra civile.
L’influenza saudita in Yemen.
Il gruppo al potere vede l’influenza saudita nello Yemen come un tentativo di marginalizzare ulteriormente gli zaiditi e di imporre una versione più conservatrice dell’Islam sunnita.
Con il progredire del conflitto, gli obiettivi degli Huthi si sono espansi per includere un controllo più ampio sullo Yemen. Nonostante la retorica iniziale si concentrasse sulla difesa dei diritti degli zaiditi, con il tempo lo scopo si è concentrto quasi ed esclusivamente sulla conquista e sul mantenimento del potere politico.
La guerra civile in Yemen e il successivo conflitto con l’Arabia Saudita sono il risultato di una complessa serie di eventi storici, politici e sociali.
L’instabilità del Paese dura da più di un decennio. In risposta alle crisi regionali, il gruppo ha utilizzato il proprio potere opponendosi a Israele e sostenendo la causa palestinese come strumento di legittimazione politica e di appello alla solidarietà islamica. Sebbene gli Houthi mantengano una certa autonomia, hanno stretto alleanze con l’Iran, che vede nel gruppo un partner strategico nel suo confronto con l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti nella regione.
Alleanza con l’Iran e sostegno ai palestinesi
Il legame tra gli Houthi e l’attuale conflitto in Israele è di natura simbolica e ideologica, e si inserisce nel più ampio contesto geopolitico in Medio Oriente.
Gli Houthi, come molti altri gruppi islamici nella regione, esprimono solidarietà verso la causa palestinese: attaccare navi dirette verso Israele è anzitutto un modo per manifestare sostegno alla Palestina e opporsi a Israele, che è un attore chiave nel Medio Oriente e spesso è al centro di controversie e conflitti regionali.
Attraverso atti di ostilità come gli attacchi alle navi, il gruppo esprime la propria opposizione alla politica di Israele nella regione, specialmente riguardo al trattamento dei palestinesi. L’Iran, che è considerato un sostenitore degli Houthi, è in aperto conflitto con Israele.
Prendere di mira le navi dirette a Israele è inoltre una tattica per guadagnare visibilità sul palcoscenico internazionale.
Questi atti attirano l’attenzione mondiale, mettendo in evidenza la loro capacità di influenzare eventi significativi oltre i confini dello Yemen.
Infine, questi attacchi possono essere intesi come parte della lotta degli Houthi per la legittimità e il riconoscimento nel contesto più ampio del conflitto yemenita.
Attraverso azioni audaci come l’attacco a navi internazionali, gli Houthi cercano di rafforzare la loro posizione sia a livello regionale sia internazionale.
Una delle peggiori crisi umanitarie
Nonostante i numerosi tentativi di mediazione e cessate il fuoco, nessuna delle parti in conflitto in Yemen è riuscita finora a ottenere una vittoria decisiva.
Il conflitto ha causato una delle peggiori crisi umanitarie al mondo, con milioni di yemeniti che soffrono di fame, malattie e mancanza di servizi essenziali.
La guerra ha avuto anche significative implicazioni regionali, alimentando le tensioni tra Arabia Saudita e Iran, e influenzando la sicurezza e la stabilità dell’intero Medio Oriente.
A livello internazionale, ci sono state pressioni crescenti per una risoluzione del conflitto e per affrontare la crisi umanitaria.
Diversi tentativi di negoziati di pace sotto l’egida delle Nazioni Unite hanno cercato di porre fine al conflitto, ma finora senza successo duraturo.
Le discussioni continuano, ma la soluzione del conflitto rimane incerta.
La guerra civile in Yemen e il conflitto con l’Arabia Saudita sono profondamente intrecciati e rappresentano una crisi prolungata con gravi conseguenze umanitarie e regionali. La situazione attuale è di stallo, con una soluzione pacifica che appare ancora lontana.
Varese, 20 dicembre 2023
Usa 2024, la Corte Suprema del Colorado esclude Trump dalle primarie dello Stato.
Secondo i giudici, il tycoon non sarebbe idoneo a diventare una seconda volta presidente a causa del suo ruolo nell’assalto a Capitol Hill.
I suoi legali: “Decisione antidemocratica, faremo ricorso”
da TGCOM24
Duro colpo per Donald Trump in vista delle elezioni di Usa 2024.
La Corte suprema del Colorado ha infatti escluso il tycoon dal voto delle primarie repubblicane nello Stato a causa del suo ruolo nell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.
Si tratta del primo candidato presidenziale della storia americano a essere dichiarato ineleggibile in base al comma 3 del 14esimo emendamento, che esclude dalle cariche pubbliche i funzionari coinvolti in “insurrezioni o rivolte” contro il governo americano.
Le primarie si terranno il 5 marzo.
La disposizione è stata utilizzata in passato principalmente dopo la guerra civile per tenere gli ex confederati fuori dal governo.
La decisione della Corte, presa a maggioranza con 4 voti favorevoli e 3 contrari, si applica solo alle primarie repubblicane in Colorado nel Super Tuesday del prossimo 5 marzo.
Il Colorado è considerato uno Stato saldamente democratico e quindi Joe Biden dovrebbe vincere a prescindere dalle sorti del tycoon, ma la sentenza potrebbe comunque influenzare lo ‘status’ dell’ex presidente nelle elezioni generale del 5 novembre 2024.
L’iter dell’azione legale.
Il caso è stato portato avanti da un gruppo di elettori del Colorado, aiutati dall’associazione Citizens for Responsibility and Ethics di Washington: la loro tesi, bocciata in prima istanza, è che Trump dovrebbe essere squalificato per aver incitato i suoi sostenitori ad attaccare il Campidoglio nel tentativo fallito di ostacolare il trasferimento del potere a Biden dopo la vittoria delle elezioni del 2020.
Il pericolo per l’ex presidente è proprio quello dato dal fatto che altri tribunali seguano l’esempio del Colorado ed escludano Trump dalla corsa in altri Stati dove deve vincere per tornare alla Casa Bianca. Dozzine di cause legali sono state intentate a livello nazionale per bandire Trump per effetto del Comma 3 del 14esimo emendamento.
I legali di Trump: “Decisione sbagliata e antidemocratica, faremo ricorso”.
Gli avvocati di Donald Trump hanno annunciato che presenteranno ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti contro la sentenza della Corte Suprema del Colorado.
“La Corte Suprema del Colorado ha emesso una decisione completamente errata e presenteremo rapidamente un ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti e una contestuale richiesta di sospensione di questa decisione profondamente antidemocratica”, hanno detto i legali di Trump.
Decisione sospesa in attesa del pronunciamento della Corte Suprema.
La Corte Suprema del Colorado ha quindi sospeso la sua decisione fino al 4 gennaio, o fino a quando la Corte Suprema degli Stati Uniti non si pronuncerà sul caso.
Funzionari del Colorado affermano che la questione deve essere risolta entro il 5 gennaio, termine ultimo entro il quale lo Stato deve stampare le schede delle primarie presidenziali. “Siamo consapevoli della portata e del peso delle domande che abbiamo di fronte.
Siamo allo stesso modo consapevoli del nostro solenne dovere di applicare la legge, senza timore o favore, e senza lasciarci influenzare dalla reazione pubblica alle decisioni che la legge ci impone di prendere”, hanno scritto i giudici della Corte Suprema del Colorado.
L’emendamento che esclude Trump dalle primarie in Colorado: cos’è e quando fu adottato.
Il 14esimo emendamento fu adottato nel 1868, dopo la Guerra civile americana. Affronta i diritti di cittadinanza e la pari tutela delle leggi.
Ma la sezione terza dell’emendamento afferma che i funzionari pubblici che hanno giurato di sostenere la Costituzione sono banditi da futuri incarichi se coinvolti in una “insurrezione” o “rivolta”.
La formulazione è considerata vaga e non menziona esplicitamente la presidenza.
Finora è stata applicata solo due volte dal 1919.
La sezione terza fu introdotta per impedire che qualsiasi funzionario civile o militare che aveva servito negli Stati Uniti prima della Guerra civile riguadagnasse posizioni di autorità se aveva tradito il suo Paese sostenendo la Confederazione sudista.
Varese, 20 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (dodicesima parte)
1912
Nel 1912, le votazioni si svolsero il 5 novembre.
I votanti furono il cinquantotto e otto per cento degli aventi diritto.
Il candidato democratico fu Woodrow Wilson, Governatore del New Jersey.
Prevalse in una infuocata e combattuta elezione tenuta a Baltimora.
Dovette la nomina in particolare a William Jennings Bryan, già tre volte invano candidato a White House.
Bryan – in seguito Segretario di Stato – dirottò per motivi etici su di lui i voti dei delegati progressisti che controllava togliendoli allo Speaker Champ Clark per il quale aveva all’inizio votato.
Il campo repubblicano fu ferocemente dilaniato tanto che, come si legge articolatamente qui sotto, l’ex Presidente Theodore Roosevelt uscì dal GOP e si propose come terzo per un improvvisato Progressive Party.
Il predetto 5 novembre, Wilson vinse in quaranta Stati riportando quattrocentotrentacinque Elettori.
Teddy conquistò sei Stati per un totale di ottantotto delegati.
Il Presidente uscente William Taft prevalse solamente in due Stati ottenendo la miseria di otto partecipanti al Collegio Elettorale.
Era altresì in corsa per il Partito Socialista Eugene Debs.
Per la prima volta a livello di elezioni per la Casa Bianca si tennero le Primarie – da parte repubblicana e in soli tredici Stati.
Annotazioni
La campagna del 1912
In occasione delle Mid Term Elections del 1910, il Partito Repubblicano (al cui interno molti criticavano aspramente – tanto da essere definiti ‘insorti’ – il Presidente William Taft che pure era espressione del GOP) fu gravemente sconfitto e i democratici, dal 1894 in minoranza, ripresero il controllo del Congresso.
Era chiaro a quel punto che riproponendo nel 1912 il delfino di Theodore Roosevelt (tale era definibile Taft) gli aderenti al movimento dell’Elefante avrebbero perso White House e sarebbero andati incontro ad un disastro.
Alla ricerca di un candidato alternativo, gli ‘insorti’ fondarono la National Progressive Republican League e, per un istante, pensarono di proporre per la Nomination Robert M. La Follette, il quale, peraltro, benché idolatrato nel Middle West, non aveva la necessaria statura a livello nazionale.
Fu così che decisero di fare le opportune pressioni su Theodore Roosevelt perché tornasse sulle proprie decisioni e a fare politica.
L’ex Presidente, per quasi otto anni con grande successo alla Casa Bianca e Premio Nobel per la Pace, aveva volontariamente rifiutato un nuovo mandato nel 1908 ed indicato il suo Ministro della Guerra Taft come successore.
Era quindi partito per un lungo viaggio, seguitissimo dalla stampa americana e non solo, in Africa e in Europa e, rientrato in patria nel 1910, era stato accolto come un trionfatore a New York.
Scontento della politica conservatrice della nuova amministrazione, dopo averne criticato l’operato durante tutto il 1911, nel febbraio successivo, cedendo alle mille insistenze, Roosevelt annunciò la propria discesa in campo e l’intenzione di contendere a Taft la Nomination repubblicana.
Nettamente preferito al rivale dagli elettori del GOP, nei tredici Stati nei quali, per la prima volta, si tennero le Primarie stravinse e si presentò alla Convenzione di giugno a Chicago con duecentosettantotto delegati, contro i quarantotto del Presidente in carica e i trentasei di La Follette.
Taft, però, controllava l’establishment e, con un sotterfugio, ottenne che alcuni seggi contestati fossero sottratti all’avversario così da essere prescelto al primo ballottaggio.
I sostenitori di Roosevelt lasciarono la Convention e due mesi dopo fondarono il Partito Progressista del quale, naturalmente, l’ex Capo dello Stato era il portabandiera.
Il programma del nuovo movimento (che aveva come emblema l’alce – Bull Moose – e che risentiva non solamente delle idee di Theodore ma anche di quelle di La Follette e degli altri numerosi riformatori che dall’inizio del secolo avevano preso in mano molti Stati conquistandone la guida) prevedeva tra l’altro il referendum, la revoca dei mandati, il voto alle donne (che ancora non l’avevano), le Primarie e vastissime riforme sociali quali il salario minimo garantito alle donne, la legge sul lavoro minorile, l’indennizzo ai lavoratori e i sussidi di disoccupazione, la pensione agli anziani e la creazione di apposite agenzie federali per il controllo e il regolamento del mondo degli affari, dell’industria e della finanza.
La fuoriuscita dei seguaci di Roosevelt dal GOP aumentò enormemente le possibilità democratiche di riconquistare la Presidenza.
Riuniti a Baltimora, alla fine, i delegati del Partito dell’Asino, respinta l’autorevole candidatura dello Speaker della Camera Champ Clark, al quarantaseiesimo scrutinio, scelsero il Governatore del New Jersey Woodrow Wilson che affrontò i rivali sulla base di un programma non molto difforme da quello rooseveltiano e comunque dettato da William Jennings Bryan che rimaneva pur sempre uno degli uomini di punta del movimento.
Benché fossero quattro i contendenti (a Wilson, Taft e Theodore Roosevelt si era aggiunto, come quasi sempre in quegli anni, il socialista Eugene Debs), la lotta in quel 1912 si risolse in un duello tra il democratico e il progressista come sempre scatenato al punto che, ferito da un esaltato con un colpo di pistola al torace a Milwakee, si fece curare solo al termine del comizio.
La divisione in campo repubblicano consentì a Wilson (che ottenne solo il quarantadue per cento dei voti popolari) di vincere, ma ‘Teddy’ conseguì il miglior risultato mai raggiunto, neppure successivamente, da un ‘terzo uomo’ alle presidenziali e stracciò Taft che riuscì ad affermarsi in soli due Stati.
Poco dopo, il Partito Progressista (troppo legato alle sorti del proprio candidato a White House) si dissolse e i suoi aderenti, pian piano, rientrarono tra i repubblicani.
Da notare che il Vice Presidente di Taft nel mandato 1909/1913 James Sherman morì il 30 ottobre 1912, cioè cinque soli giorni prima del voto, essendo a quel momento il candidato compreso nel ticket repubblicano.
Si tratta dell’ultimo decesso di un Vice Presidente in carica.
Il Comitato Repubblicano chiamato in quel frangente a sostituirlo (non sulle schede elettorali, evidentemente) decise che i suoi voti dovessero convergere su Nicholas Murray Butler, Presidente della Columbia University e storicamente l’unico candidato alla Presidenza o al ruolo di Vice sostituito a così pochi giorni dal voto.
1916
Quarantotto (all’appello, rispetto ad oggi, mancano solo Alaska e Hawaii) gli Stati chiamati alle urne il 7 novembre 1916.
Cinquecentotrentuno (oggi, sette in più) i membri del Collegio Elettorale.
Duecentosessantasei (quattro in più adesso) il numero minimo di Elettori da conquistare per ottenere la nomina.
Sarà questa l’ultima volta nella quale le donne sono escluse dal corpo elettorale.
La Prima Guerra Mondiale – a quel momento, definibile negli USA ‘Guerra Europea’ – è in pieno svolgimento e certamente il tema di un possibile, deprecabile per i più, intervento americano è uno dei temi di fondo se non il maggiore.
È, per il vero, in atto anche la Rivoluzione Messicana, ma il coinvolgimento degli Stati Uniti nel feroce conflitto è e resta marginale a dir poco.
Il Presidente uscente democratico Woodrow Wilson appare battibile.
Nel 1912 ha potuto approfittare della divisione repubblicana per prevalere ma di certo i voti a lui arrivati in quella circostanza erano molto inferiori rispetto a quelli collezionati da Teddy Roosevelt e da William Taft.
In tale felice prospettiva, il GOP, riunito in Convention a Chicago, al termine di un confronto che vede sconfitti il Senatore del New York Elihu Root e quello del Massachusetts John Weeks, incorona il Giudice della Corte Suprema (è l’unica volta che questo accade) Charles Evans Hughes, peraltro in precedenza Governatore del New York.
A completare il ticket, l’ex Vice di Teddy Roosevelt Charles Fairbanks.
Il Partito dell’Asino si riunisce a St Louis e conferma il duo Wilson/Marshall.
V’è da dare conto degli ultimi atti del Partito Progressista, nato nel 1912 sostanzialmente per sostenere Teddy uscito dal GOP.
Ebbene, cercherà di correre, alla fine indicando come proprio candidato ancora il medesimo Roosevelt, il quale rifiuta esprimendo il proprio endorsement a favore di Hughes.
Alla fine, il repubblicano andrà a dormire convinto di avere vinto (accadrà di bel nuovo a Thomas Dewey nel 1948) per svegliarsi sconfitto.
Decisiva una serie di affermazioni tutte sul filo di lana di Wilson negli ‘Swing States’.
È questa la prima volta, addirittura dal 1832, che un Presidente uscente democratico riesce nell’impresa di ottenere un mandato successivo (Cleveland lo aveva ottenuto ma con un intervallo di quattro anni).
Segnalato che il perenne candidato socialista Eugene Debs in questo frangente preferisce correre per il Congresso nel natio Indiana e che pertanto il Partito Socialista designa Allan Benson in sua vece, ecco i risultati:
Woodrow Wilson, trenta Stati e duecentosettantasette Elettori.
Charles Evans Hughes, diciotto Stati e duecentocinquantaquattro voti al Collegio.
Varese, 20 dicembre 2023
‘Il tocco del telegrafista’
Per quanto possa sembrare strano, i telegrafisti (è un mestiere ancora praticato di questi tempi?) erano identificabili per il loro ‘tocco’, per il modo nel quale battevano i tasti.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, gli Inglesi e gli Americani, studiandoli da questo particolare punto di vista, avevano identificato gli addetti alle comunicazioni telegrafiche di molti importanti nazisti e di un buon numero di Generali tedeschi. Intercettando, per dire, un telegramma attribuibile all’operatore – che doveva necessariamente trovarsi al suo seguito – di Erwin Rommel riuscivano in tal modo a capire dove la ‘Volpe del Deserto’ fosse!
Varese, 20 dicembre 2023
L’economia? La cui unica funzione, diceva John Kenneth Galbraith, è “fare concorrenza all’astrologia”?
Alfred Nobel odiava l’economia dal profondo del cuore e lo scrisse.
Quando nella seconda metà degli anni Sessanta del Novecento si cominciò a parlare di istituire quello che poi sarebbe stato del tutto scorrettamente chiamato ‘Premio Nobel per l’Economia’ non pochi accademici scossero la testa ritenendo che la materia non possedesse i requisiti per essere considerata una ‘Scienza’.
E quando mai, infatti?
(È guardando al bugiardo Premio – ripeto: non fu voluto da Nobel e nacque nel 1969 – che una delle domande che in tempi lontani mi piaceva fare a quanti pendevano dalla bocca oracolare degli economisti era
“Come mai John Maynard Keynes”, il più grande tra loro nel trascorso secolo, “non lo ha vinto?” ed essendo la risposta “Perché è morto nel 1946, ventitre anni prima che fosse istituito” nessuno tra gli ‘esperti’ sapendolo, mi divertivo).
Sostengo da sempre che una sola tra le mille e mille ‘previsioni’ fatte nel trascorrere dei secoli da questi abracadabra e fattucchieri si sia dimostrata alla luce dei fatti vera.
Accadde ciò, quando proprio Keynes, alla domanda “Cosa succederà nei tempi lunghi?” rispose “Nei tempi lunghi saremo tutti morti!”
Mai più altrimenti.
Varese, 19 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (undicesima parte)
1904
Alle urne l’8 novembre.
Netto calo, l’otto per cento in meno, dei votanti e quindi ci si ferma al sessantacinque e due degli aventi diritto.
Quattrocentosettantasei gli Elettori.
Duecentotrentanove la maggioranza assoluta.
Torna in pista per il Partito Socialista Eugene Debs e stavolta supera i quattrocentomila voti popolari sfiorando davvero il tre per cento.
Il Partito Repubblicano ha in casa un cavallo di razza, il travolgente Teddy Roosevelt in cerca di conferma, visto che è il primo Vice subentrato al titolare che si propone personalmente dopo avere esercitato la Presidenza in luogo e vece dell’eletto.
In precedenza, John Tyler, Millard Fillmore, Andrew Johnson e Chester Arthur, i quattro Vice arrivati in vetta a seguito del decesso del Presidente al cui seguito operavano, giunti al termine del mandato, non si erano ripresentati (per il vero, Fillmore lo aveva fatto ma nel 1856, non quindi nel mandato immediatamente successivo a quello nel quale era stato seduto sul massimo scranno).
L’unica possibile alternativa alla Nomination di Teddy è il Senatore Mark Hanna che allorquando il Nostro era subentrato al ‘suo’ (ne era sostenitore e finanziatore) McKinley lo aveva definito “quel maledetto cowboy”.
Hanna, però, muore improvvisamente e la Convention GOP di Chicago investe Theodore per acclamazione.
Considerando il Presidente uscente un radicale, l’ala più conservatrice del partito gli mette accanto un serissimo Senatore dell’Indiana, Charles Fairbanks.
Il Partito Democratico, in difficoltà, cerca rifugio nel Giudice Capo della Corte d’Appello di New York Alton Parker, già quattro anni prima in corsa, sia pure in seconda fila, tra i candidati alla Vice Presidenza.
Il ticket dell’Asino viene completato con Henry G. Davis, un milionario self made man già Senatore del West Virginia.
A ben guardare, è questa la prima volta – ove si escludano elezioni molto lontane – nella quale il vincitore effettivamente domina.
La prima volta nella quale a proposito dell’esito, guardando al perdente si usa l’espressione ‘landslide’, in italiano ‘frana’, volendo ‘valanga’.
Il repubblicano vince infatti in trentadue Stati e cattura trecentotrentasei Elettori.
Il democratico si accontenta (?) di tredici Stati e di centoquaranta delegati al Collegio.
Va anche riportato in termini percentuali il risultato di Thomas Watson, a suo tempo (nel 1896) candidato Vice di Bryan per il Partito Populista, partito che tenacemente rappresenta questa volta in veste di primo componente del ticket.
Ottiene lo zero e ottantaquattro per cento.
Nel prossimo 1908 conquisterà lo zero e diciannove, nella elezione che segnerà il canto del cigno del glorioso (con Weaver era arrivato a vincere cinque Stati nel 1892) movimento politico.
1908
3 novembre, il giorno del voto.
Quattrocentoottantatre gli Elettori da eleggere.
Duecentoquarantadue la maggioranza assoluta.
Sessantacinque e quattro la percentuale degli aventi diritto al suffragio effettivamente andata alle urne.
Il Partito Repubblicano tiene la Convention a Chicago.
Il Partito Democratico a Denver.
In lizza ancora il socialista Eugene Debs.
Si comincia a parlare di Primarie.
Theodore Roosevelt?
Chi avrebbe potuto impedire una sua rielezione nel 1908?
Amato dalle folle, capace di pugnare ferocemente contro i conservatori, riformatore audace, attore di peso nella politica internazionale, Premio Nobel per la Pace…
Ma nel 1904 Teddy aveva promesso che non avrebbe cercato dipoi una successiva investitura dal GOP (non va dimenticato che, ripresentandosi, aveva infranto la regola non scritta ma rispettata da quanti su quella strada lo avevano preceduto che imponeva ai Vice succeduti mortis causa in corso di mandato di ritirarsi, di non chiedere una Nomination al termine del quadriennio che li vedeva arrivare allo scranno presidenziale).
Mantenne la parola ma operò perché a succedergli fosse un uomo di sua fiducia e identificò quest’uomo in William Taft.
Di ottima famiglia, Giudice Federale, Governatore Civile delle Filippine, amministratore della zona del Canale di Panama, Segretario alla Guerra con Theodore, Taft possedeva tutti i requisiti auspicabili per ricoprire degnamente l’incarico.
Scelto appunto Taft, i repubblicani gli affiancarono un altro Sherman (non John, più volte in corsa in passato, non William Tecumseh, bensì James, all’epoca membro della Camera dei Rappresentanti).
I democratici, sperando che gli elettori non identificassero (come invece fecero) il candidato GOP con il Presidente uscente, ricorsero per la terza ed ultima volta a William Jennings Bryan.
Con lui, nel ticket, dall’Indiana John Kern.
Il repubblicano vinse nettamente riportando ventinove Stati e trecentoventuono Elettori.
Al povero Bryan restarono diciassette Stati e centosessantadue voti al Collegio.
Varese, 19 dicembre 2023
Whip, la Frusta
Caccia alla volpe.
Non il mediocre film del 1966 incredibilmente firmato da Vittorio De Sica e sceneggiato nientemeno che da Neil Simon e Cesare Zavattini.
(Tre ‘grandi’ per una pellicola ‘alimentare’).
No, la mitica, vera ‘attività equestre’ – definizione testuale – che porta questo nome.
Ebbene, oltre al ‘maestro di caccia’ che ovviamente dirige l’intera impresa, due sono in quest’ambito le figure di rilievo.
Il coordinatore del gruppo (‘Huntsman’) e la persona che si occupa dei cani non permettendo loro di lottare e di distrarsi.
‘Whip’ è uno degli appellativi con i quali si denomina tale ultima persona.
‘Whip’, ovvero ‘frusta’.
E’ a partire dagli anni dieci del Novecento che i gruppi parlamentari dei due partiti americani egemoni hanno deciso di affiancare al Senato ai loro leader di maggioranza e di minoranza appunto un ‘Whip’ che abbia la funzione di tenere e coordinare i rapporti tra l’establishment e i singoli parlamentari.
Ora, non è che questa carica si sia dimostrata nel tempo un gran trampolino di lancio.
Una sola, infatti, tra le molte ‘fruste’ succedutesi è arrivata poi alla Presidenza, per di più per successione causa morte.
Mi riferisco a Lyndon Johnson, ‘Whip’ democratico dal 1951 al 1953.
L’unico altro uomo politico di rilievo che abbia ricoperto l’incarico è stato Hubert Humphrey, vice del predetto Johnson e invano candidato democratico nelle elezioni del 1968.
Il Senatore del Minnesota è stato in carica come ‘Frusta’ tra il 1961 e il 1965.
Una buona rappresentazione cinematografica del ‘mestiere’ si ha nell’ottimo ‘Tempesta su Washington’ (‘Advise & Consent’), 1962, di Otto Preminger.
La ‘Frusta’ nel film in questione è Paul Ford, un caratterista di razza.
Varese, 19 dicembre 2023
Stati Uniti d’America e Roma antica
In un mondo nel quale la conoscenza della Storia è considerata un inutile orpello…
in un mondo nel quale il dileggio ignorante impera…
in un mondo nel quale, senza ragionare, sulla base di volgari appartenenze si spara sull’avversario comunque e sempre…
in questo mondo, capita che a settembre del 2021 Donald Trump (evidentemente riprendendo parole vergate da un collaboratore, purtroppo per i successivi ignorantissimi critici, colto e preparato) affermi, non, come è stato brutalmente riportato, che gli Stati Uniti d’America e l’Italia “siano alleati da migliaia di anni”, ma che tra i due Paesi esistano legami politico culturali, una eredità comune fatta di storia, idee, religione e tradizioni.
Orbene, scrivendo in proposito, ho ben presente il fortissimo legame culturale con la Roma Repubblicana che ebbe a profondamente incidere nelle intenzioni e sulla conseguente azione di non pochi tra i ‘Founding Fathers’ degli allora neonati USA.
John Adams, James Madison, Thomas Jefferson, per dire, esplicitamente guardavano a Catone, a Cicerone, a Cincinnato (cui era paragonato George Washington) quali modelli dal punto di vista etico politico.
Ricordo gli pseudonimi usati a quel tempo da quanti, argomentando sulla Costituzione in fieri, discutevano articolatamente: Agrippa, Brutus, Cato, Cincinnatus, Publius… Notevolmente significativo altresì, se in cerca di conferme, riferirsi all’architettura dai predetti ‘Padri’ voluta per gli edifici pubblici in stile neoclassico.
Varese, 19 dicembre 2023
Thomas Jefferson e Ciro II
Profonda, la conoscenza degli antichi storici greci e romani da parte di diversi Padri della Patria americani.
Profonda e confrontata, dato che, al riguardo – come documentano Merle Curti e Francis Wilson in particolare – John Adams, Thomas Jefferson, James Madison, Alexander Hamilton e John Jay, nelle loro corpose corrispondenze, molto argomentavano.
Notevole, quanto alla scelta aperturista da lui attuata da Presidente in tema di Pluralismo religioso, l’influenza che, appunto attraverso le indicate letture, ebbe su Thomas Jefferson l’Imperatore persiano Ciro II.
Nel 539 avanti Cristo, il nostro, abilissimamente approfittando degli aspri dissidi interni in atto, conquistò Babilonia praticamente senza colpo ferire.
Dipoi, on un provvedimento di rara bellezza (può un decreto, un provvedimento legislativo essere bello? sì) e magnanimità, concesse agli Ebrei non solo di tornare liberi alle loro terre ma di ricostruire il Tempio a Gerusalemme.
Per fortuna, il terzo Presidente USA, delle idee del “Re dei quattro quarti del mondo” (così Ciro modestamente si definiva) e del suo criterio quanto al potere ed al suo esercizio pensò bene di ereditare solo l’apertura in termini di appartenenza religiosa, ben differenti, altrimenti, sarebbero gli Stati Uniti e di conseguenza il mondo oggi!
Varese, 19 dicembre 2023
Joyeux Noël
Nel periodo di tempo che intercorre tra il 15 ottobre 1582 e il 14 settembre 1752 il giorno di Natale veniva festeggiato in date diverse nei Paesi Cattolici e in quelli Anglicani perché è solo appunto centosettanta anni dopo Roma che Londra, per dire di due Capitali, adotta il Calendario Gregoriano abbandonando il Giuliano (1).
Dal 15 ottobre 1582 al 14 febbraio 1918 in Russia, altrettanto.
Ovviamente, così, confrontando quindi Londra e Mosca, tra il 14 settembre 1752 e il 14 febbraio 1918.
Nel 1712, anno del Calendario Giuliano ancora là in essere (passerà al Gregoriano l’anno seguente), per riparare un precedente errore di datazione, la Svezia aggiunse al febbraio non solo – era un anno bisestile – il 29 febbraio ma anche il 30 di quel mese.
Natale, pertanto, colà cadde nella circostanza in un giorno differente da quello di ogni altra località.
(Così scrivendo fingo che non esistessero – ed esistano – numerosissimi altri calendari, ma è questo in ogni campo il difetto degli Occidentali: non tengono – obtorto collo, qui mi adeguo –, e spesso mal gliene incolse e incoglie, in considerazione larga parte del mondo che ha Canoni assolutamente diversi!)
(1) Essendo tra le indicate date, per dire, il futuro Texas colonia spagnola come il futuro Stato di New York colonia inglese, differenti erano i Calendari localmente adottati.
Varese, 18 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (decima parte)
1892
Si va alle urne l’8 novembre.
I votanti saranno il settantaquattro e sette per cento degli aventi diritto.
I membri del Collegio Elettorale da nominare sono quattrocentoquarantaquattro e la maggioranza assoluta è conseguentemente fissata a duecentoventitre.
L’ex Presidente democratico Grover Cleveland – il primo tra i politici dell’Asinello in grado di interrompere la serie GOP iniziata nel 1860 con Lincoln (e occorrerà attendere il 1912 per vedere ripetuta da Woodrow Wilson l’impresa) – sconfitto rocambolescamente, come narrato, da Benjamin Harrison nel 1888, pare debba restare ai margini visto che si è ritirato a vita privata.
E questo malgrado la moglie Frances, lasciando la dimora presidenziale nel marzo del 1889, avesse detto al maggiordomo “Non tocchi nulla. Ritorneremo tra quattro anni!”
Richiamato all’azione e convinto della necessità di allontanare Harrison dalla Casa Bianca, si ripropone e ottiene una terza Nomination consecutiva.
Sconfigge nella circostanza il Governatore del New York David B. Hill.
A completare il ticket, Adlai Stevenson I – nonno del futuro due volte invano candidato democratico a White House Adlai Stevenson II – membro a quel momento della Camera dei Rappresentanti per l’Illinois.
Occorre soffermarsi su Cleveland.
Era stato sconfitto nel 1888 pur vincendo il voto popolare (prima di lui, erano incorsi nella medesima ambascia Andrew Jackson nel 1824 e Samuel Tilden nel 1876 e dopo succederà nel 2000 ad Al Gore nonché nel 2016 a Hillary Rodham Clinton).
Essendo tornato – anticipo l’esito delle votazioni 1892 – alla Presidenza con un intervallo di quattro anni, è conteggiato due volte, la prima come ventiduesimo e la seconda come ventiquattresimo Presidente.
E i repubblicani?
Harrison non anelava alla nuova Nomination ma non voleva che andasse a James Blaine, ancora apparentemente in corsa.
Tentennante il Presidente uscente, i nomi che si facevano erano quelli dell’eterno candidato John Sherman e dell’emergente Governatore dell’Ohio William McKinley.
Infine, ritiratosi dalla competizione Blaine fra l’altro colpito da lutti familiari a ripetizione, Harrison fu nominato e corse.
A completare il ticket, l’Ambasciatore Whitelaw Reid.
Ma non furono nella circostanza solamente democratici e repubblicani a contare: un terzo incomodo si era infatti nel frattempo fatto avanti attento a sostenere in particolare le istanze degli agrari.
Il Partito Populista – trattiamo di questa compagine – si era costituito nel 1891 e contava al momento su James Weaver, già candidato in precedenza per l’effimero Greenback Party.
Fu, quindi, quella del 1892 una corsa a tre.
L’esito?
Gli Stati furono così distribuiti: ventitre a Cleveland, sedici a Harrison, cinque a Weaver.
Gli Elettori votarono in cotal modo: duecentosettantasette al GOP, centoquarantacinque al candidato dell’Asino, ventidue a Weaver.
1896
Chiamati alle urne per il 3 novembre, gli americani nell’occasione votano in misura pari al settantanove e tre per cento.
Gli Elettori sono quattrocentoquarantasette e la maggioranza assoluta è fissata a duecentoventiquattro.
La contesa risente in modo particolare delle conseguenze della grave crisi economica del 1893.
In corsa, come la volta precedente, non solo il Partito Repubblicano e il Partito Democratico ma anche quello Populista.
Caso eccezionale, quest’ultimo movimento considera quale proprio candidato alla Casa Bianca William Jennings Bryan, lo stesso uomo politico scelto dai democratici.
Così stando le cose, Bryan sarà il primo candidato a White House alla guida di due differenti ticket.
In quello democratico, affiancato da Arthur Sewall e in quello populista da Thomas Watson.
Prima di tornare a trattare del grande oratore e demagogo Bryan (non per niente, a soli trentasei anni – record assoluto visto che il limite minimo è trentacinque – già autorevole al punto di essere nominato) occupiamoci del campo repubblicano.
Già candidato non in prima linea nel 1892, già Governatore dell’Ohio, William McKinley viene scelto come vessillifero per la Presidenza del GOP al primo scrutinio nella Convention in programma per l’occasione a St Louis.
Con lui, a comporre il ticket, il Presidente del Senato del New Jersey Garret Hobart.
Per inciso, il povero McKinley sarà ucciso nel 1901, dopo la sua seconda elezione.
Entrerà pertanto a far parte della maledetta serie vittima della ‘Maledizione dell’anno zero’.
Tra il 1840 e il 1960, infatti, tutti i Presidenti eletti o confermati in un anno con finale zero muoiono in carica: William Harrison, Abraham Lincoln, John Garfield, appunto William McKinley, Warren Harding, Franklin Delano Roosevelt, John Kennedy nell’ordine.
Chi di morte naturale (Harrison, Harding, F.D.R.), chi per mano di un killer (Lincoln, Garfield, McKinley, Kennedy).
Novità notevole; il massimo sostegno al candidato GOP venne e fu procurato dal businessman Mark Alonzo Hanna che raccolse cospicui contributi tra corporation e banche a favore dell’amico.
Da notare infine a proposito di McKinley che sarà l’ultimo veterano della Guerra di Secessione ad essere proposto per la Presidenza dai partiti maggiori.
Tornando a William Jennings Bryan, occorre ricordare, oltre alla giovane età che lo caratterizza in quel 1896, oltre ai due Vice al suo fianco, il fatto che dominò il Partito Repubblicano lungamente e ne fu inutilmente (non vinse mai) vessillifero elettorale altre due volte: ancora nel 1900 e nel 1908.
Non solo, che fu brevemente Segretario di Stato con Woodrow Wilson.
E infine (per il vero, solo perché lo spazio è tiranno), che sarà protagonista come consulente dell’accusa contrapposto al difensore Clarence Darrow – il grande avvocato liberal – del celeberrimo ‘Processo della scimmia’ che vide alla sbarra il professor John Scopes, sostenitore delle Teorie Evoluzionistiche darwiniane il cui insegnamento era vietato in larga parte del Sud (e i fatti occorsero nel Tennessee nel 1925).
Bryan, sconfitto malgrado la grande inesausta eloquenza, morirà al termine della tenzone giuridica.
L’esito della tornata?
A McKinley ventitre Stati e duecentosettantuno Elettori.
A Bryan, ventidue Stati e centosettantadue delegati al Collegio.
1900
Al voto il 6 novembre.
Quattrocentoquarantasette gli Elettori da eleggere.
Duecentoventiquattro la maggioranza assoluta da raggiungere.
Settantatre e due per cento gli aventi diritto andati effettivamente alle urne.
Per quanto alla fine si tratti di una riedizione della sfida di quattro anni prima con il medesimo risultato (peraltro, più netto a favore del GOP), la votazione del 1900 va ricordata per alcune particolarità.
Intanto, nell’occasione, l’amministrazione in carica era favorita per la ripresa economica in atto.
Poi, l’eco della vittoriosa Spanish American War soffiava nelle vele di McKinley.
Infine, il candidato alla Vice Presidenza (Garret Hobart era deceduto nel 1899) chiamato a completare il ticket repubblicano era il Governatore del New York Theodore ‘Teddy’ Roosevelt.
Per la sua inclusione nella rosa a due, moltissimo aveva operato il boss del Partito Repubblicano dello stesso New York Thomas Platt che voleva toglierselo dai piedi.
Apparentemente messo da parte (la carica vice presidenziale può essere letale), Teddy arriverà di lì a poco a White House a causa dell’assassinio di McKinley.
L’accoppiata ottiene il via libera nella Convention quell’anno fissata a Philadelphia.
I rivali del Partito Democratico per qualche momento non breve pensarono all’Ammiraglio George Dewey come a un possibile candidato.
Dewey era al comando della flotta USA in occasione della vittoriosa Battle of Manila, uno dei momenti decisivi della predetta vittoriosa Guerra Ispanoamericana.
Scelta infelice, problemi, incomprensioni e, infine, l’endorsement dello stesso Ammiraglio niente meno che a favore di McKinley.
William Jennings Bryan, quindi, la scelta.
Con lui, l’ex Vice Presidente con Cleveland Adlai Stevenson I.
Da segnalare tra le figure alternative a Stevenson per il secondo gradino nientemeno che William Frederick Cody ovvero Buffalo Bill, e il magnate della stampa William Randolf Hearst.
Più defilato, il futuro candidato alla Presidenza (nel 1904) Alton Parker.
Guardando ai partiti minori, come non segnalare la prima apparizione del socialista Eugene Debs (avrà lo zero sei per cento dei voti) e quella dello scrittore Edward Waldo Emerson, figlio del più noto Ralph?
Il risultato?
McKinley vince nettamente con ventotto Stati e duecentonovantadue Elettori.
Bryan perde con diciassette Stati e centocinquantacinque suffragi degli stessi.
Varese, 18 dicembre 2023
Sit-in, come e dove nacque
Greensboro, North Carolina.
Nel mese di febbraio del 1960, quattro studenti di colore – del tutto autonomamente considerato che non facevano capo ad alcuna delle molte organizzazioni allora attive per la difesa delle minoranze o di lotta per la conquista da parte dei neri dei diritti civili – si sedettero al banco di una tavola calda di un grande magazzino la cui frequentazione era rigidamente riservata ai bianchi.
Avevano in mano la Bibbia.
Invitati ad alzarsi e ad andarsene, si rifiutarono restando seduti.
Alla fine, chiamata dai presenti, la polizia fu obbligata a portarli via a forza di braccia.
Forse senza rendersene conto fino in fondo, quei quattro ragazzi avevano compiuto un atto rivoluzionario che avrebbe di lì a poco trovato imitatori in ogni parte del mondo: avevano ‘inventato’ il Sit-in!
Varese, 18 dicembre 2023
1919, Woodrow Wilson perde la battaglia per la ratifica del Trattato che istituiva la Società delle Nazioni da lui fortemente propugnata.
5 novembre 1918, Elezioni di Medio Termine.
Gli Americani (epidemia Spagnola in corso) vengono chiamati alle urne per il rinnovo totale della Camera e per quello di un terzo del Senato.
Il Presidente Woodrow Wilson si impegna grandemente in prima persona e chiede che gli elettori si esprimano per i suoi democratici ben sapendo che i repubblicani sono decisamente contrari alla Società delle Nazioni da lui propugnata e già in qualche modo imposta a buona parte del mondo occidentale.
Per l’approvazione del Trattato, dell’accordo che porterebbe gli Stati Uniti nel consesso, secondo Costituzione, occorre l’approvazione del testo da parte della Camera Alta con la maggioranza qualificata in questi casi prevista.
Il risultato delle votazioni è decisamente deludente per Wilson dato che i repubblicani conquistano le due Camere e al Senato possono contare su quarantanove senatori contro quarantasette (erano allora novantasei i Laticlavi essendo quarantotto gli Stati).
Contro l’adesione USA alla Società delle Nazioni si sono in particolare battuti i GOP Henry Cabot Lodge e William Borah.
Sconfitto nelle urne, il Presidente continua la sua battaglia sperando di convincere una parte dei repubblicani, quella, per così dire, contraria ma non troppo.
Non accetta – rifiuta esplicitamente e in diverse occasioni – di cercare un compromesso, cosa per lui improponibile.
L’opposizione di Cabot Lodge verteva su tutti i quattordici punti wilsoniani ma specificamente e a maggiore ragione sul decimo, quello che prevedeva l’obbligatorietà di intervento da parte delle nazioni firmatarie nel caso in cui fosse in pericolo l’integrità territoriale di uno dei Paesi membri.
Nell’intento di convincere il popolo elettorale della bontà delle sue idee al riguardo, Woodrow Wilson, per quanto decisamente male in arnese (era stato poco bene in Europa durante le trattative), parte per tenere una serie di comizi che hanno un notevole successo.
Ecco, però, che il 25 settembre, a Pueblo, in Colorado, ha un colpo apoplettico che lo metterà fuori combattimento per all’incirca tre mesi (durante i quali, contro ogni regola, gli Stati Uniti furono in qualche modo nelle mani della di lui consorte e di qualche funzionario).
Com’è, come non è, alla fine, arrivati alla votazione, il 19 novembre 1919, il trattato inerente l’adesione USA alla Società delle Nazioni non venne ratificato.
Del tema si continuò inutilmente a parlare anche nel successivo 1920 ma i giochi erano fatti.
Woodrow Wilson, chiudeva in cotal modo con una sonora sconfitta e ammalato i suoi due mandati!
Varese, 17 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (nona parte)
1884
Nel 1884, si vota il 4 novembre.
Gli Elettori da eleggere sono quattrocentouno e pertanto la maggioranza assoluta è fissata a duecentouno.
La partecipazione al voto è pari al settantasette e cinque per cento degli aventi diritto.
Il Presidente uscente è Chester Arthur, subentrato al Presidente eletto James Garfield a seguito del suo assassinio.
Arthur, a causa dei contrasti interni ai GOP, non si ricandida.
Le due Convention si svolgono a Chicago.
Il Partito Repubblicano, fuori gioco l’uscente, si esprime a favore di James Blaine.
Già Speaker della Camera, già Senatore e Segretario di Stato, Blaine aveva tutte le caratteristiche del candidato più ovvio e sicuro ma era molto chiacchierato per ragioni etiche all’interno del suo stesso partito, ragione per la quale parte dei delegati disertarono la Convention e dichiararono di essere disposti a votare “per un democratico onesto”.
Venne pertanto a crearsi una situazione più favorevole del solito per il Partito dell’Asino che non vinceva le presidenziali addirittura dal 1856.
Il prescelto da parte dell’Asinello fu quindi – data la specchiata rettitudine politico amministrativa dimostrata sia come Sindaco di Buffalo che come Governatore del New York – Grover Cleveland.
(Per inciso, il medesimo, ancora scapolo, aveva una vita ‘allegra’ quanto ai rapporti con il gentil sesso: amanti e addirittura – scandalo! – un figlio illegittimo.
Al riguardo, in carica, ebbe a dichiarare “Gli americani sanno di non avere eletto un eunuco!”
Si sposò con la giovane Frances Folsom ed ebbe cinque figli.
Della First Lady occorre qui parlare perché, allorquando il coniuge sarà sconfitto nel successivo 1888, lasciando White House, dirà al maggiordomo “Non tocchi niente perché fra quattro anni torneremo” e così accadde!)
Al termine di una campagna non particolarmente convulsa, Cleveland vinse di pochissimo (il New York, Stato decisivo, lo vide prevalere per mille suffragi appena abbondanti in più del rivale).
Con buona probabilità, Blaine avrebbe potuto malgrado tutto vincere se il Reverendo Samuel Burchard, suo sostenitore, non avesse pubblicamente attaccato e denigrato i cattolici – pochi, all’epoca, ma nel frangente, importanti – definendoli “ubriaconi e dediti alla secessione”.
In termini di Stati, il democratico ne conquistò venti mentre al repubblicano ne andarono diciotto.
In termini di delegati al Collegio Elettorale, Cleveland prevalse per duecentodiciannove a centoottantadue.
(Si consideri che il citato New York contava da solo su trentasei Elettori).
Annotazioni
È l’anno – ribadisco – nel quale si afferma Grover Cleveland, democratico, che, vincendo, interrompe una serie di affermazioni GOP iniziate nel 1860 con Lincoln.
L’esponente dell’Asinello di cui si tratta si segnala per un paio di particolarità.
È l’unico eletto due volte ma non consecutivamente (sconfitto da Benjamin Harrison nel 1888, rivincerà nel 1892) ragione per la quale è conteggiato sia come ventiduesimo che come ventiquattresimo Presidente.
È l’unico Capo dello Stato democratico dal citato 1860 al 1912, dato che dopo di lui e fino a Woodrow Wilson la palla resterà sempre in mano ai repubblicani.
1888
Il voto è fissato al 6 di novembre.
Partecipa il settantanove e tre per cento degli aventi diritto.
Gli Elettori sono quattrocentouno e la maggioranza assoluta è duecentouno.
Un gran numero di partiti e candidati ‘minori’ in competizione.
Repubblicani e democratici, comunque, assolutamente egemoni.
Grover Cleveland, uscente, non trova oppositori nel campo dell’Asinello e viene nominato all’unanimità nella Convention di St Louis.
Con lui nel ticket, morto da tempo il precedente Vice Thomas Hendricks, l’ex Senatore Allen G. Thurman.
Va rilevato che era dal 1840 che il Partito Democratico non riproponeva il Presidente uscente (fra l’altro, nell’occasione, Van Buren aveva perso e così accadrà nella circostanza di bel nuovo).
Nel GOP, James Blaine si tirò indietro ritenendo imbattibile Cleveland.
A Chicago, dove ebbe luogo la Convention repubblicana, fu deciso inopinatamente di candidare un oscuro politico dell’Indiana, Benjamin Harrison, che sconfisse tra gli altri John Sherman, già fatto fuori dalla corsa quattro anni prima.
Benjamin era nipote di William Harrison, Presidente eletto nel 1840, ma, soprattutto, garantiva al partito i delegati del suo Stato, uno ‘Swing State’ all’epoca, che poteva essere decisivo.
Al termine di una campagna che Maldwyn Jones definisce “la più corrotta della storia americana” in particolare per la compravendita di voti, Grover Cleveland prevalse di circa novantamila suffragi popolari ma perse in termini di Elettori.
Duecentotrentatre, difatti, quelli raccolti in venti Stati toccati a Harrison.
Centosessantotto, quelli del Presidente uscente collezionati in diciotto Stati.
Varese, 17 dicembre 2023
Bisestili ed altre quisquilie
Un petit divertissement scritto in Varese nelle prime ore del 4 febbraio del 2023, giorno dedicato dalla Chiesa Cattolica a San Cuanna di Lismore, Abate, ed ampliato il 26 giugno del medesimo anno, ventiquattr’ore queste ultime che vedono celebrare San Josemaría Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, che trascorse in meditazione e preghiera proprio nella Città Giardino, precisamente a Villa Toeplitz, un lungo periodo nell’anno del Signore 1967.
Divertissement nel quale, fra l’altro, si spiega perché i secoli che contano un anno finale pari a un numero divisibile per quattrocento hanno in totale un giorno in più degli altri, ragione per cui (torneremo su questo tema) il Novecento, terminato nel 2000, è durato ventiquattr’ore più dell’Ottocento, finito nel 1900.
Cadendo il bisestile ogni quadriennio, se ne dovrebbero contare venticinque per secolo.
Così però non è tranne nel caso in cui l’ultimo anno del centennio sia divisibile per quattrocento (ci sono pertanto come accennato secoli meno e più lunghi).
Questo a seguito dell’entrata in vigore del Calendario Gregoriano – Papa Gregorio XIII, Ugo Boncompagni – a partire dal 15 ottobre del 1582.
(Per inciso, nei Paesi dipendenti dalla Corona inglese e quindi anche nelle allora colonie americane l’adozione del nuovo Calendario ebbe luogo nel mese di settembre del 1752.
I giorni eliminati non furono dieci come a Roma nel citato 1582 – per questo, l’anno più corto di sempre per noi – ma undici essendo passati centosettanta anni.
Conseguentemente, per quelle Terre, è il 1752 l’anno più breve di sempre essendo durato trecentocinquantacinque giorni – i trecentosessantasei di un bisestile, quale fu, meno i citati undici.
Gli affittuari di Londra, nella circostanza, chiesero di pagare una pigione diminuita visto che il mese era durato meno del solito.
Per indispensabile completezza, in Russia l’adozione del Gregoriano è datata 1918 e i giorni colà sottratti furono tredici dappoiché dal 1752 erano trascorsi centosessantasei anni e infine in Svezia un errore nel compimento della procedura portò alla necessità di aggiungere nel 1712 al normale, essendo bisestile, 29 febbraio uno straordinario 30!).
Per riassumere brillantemente,
nel 1582 un romano visse dieci giorni (5-14 ottobre) meno di un londinese
nel 1752 un londinese visse undici giorni (3-13 settembre) meno di un romano
nel 1918 un moscovita visse tredici giorni (1-13 febbraio, ragione per cui nell’occasione il giorno precedente San Valentino fu il 31 gennaio!) meno di un romano e di un londinese.
Tornando a noi, per compiutamente capire:
il Seicento termina con l’anno 1700, il Settecento con il 1800, l’Ottocento con il 1900, e non essendo i tre numeri citati divisibili appunto per quattrocento quei secoli contano ventiquattro bisestili.
Il Novecento si conclude con il 2000 e risultando questo numero ripartibile per quattrocento ha venticinque bisesti.
Il secolo in corso terminerà con il 2100 e conterà ventiquattro bisestili perché 2100 non è divisibile per quattrocento.
Soltanto col centennio che finirà nel 2400 (scomponibile come richiesto) si potranno nuovamente contare venticinque bisesti.
Come indicato nel breve titolo, i secoli che concludono con un anno ripartibile per quattrocento contano un giorno in più in totale degli altri.
Il secolo corrente ha visto e vedrà cadere la Pasqua il 17 aprile (giorno nel quale nel 7 avanti Cristo è nato il Redentore) tre volte: nel 2022, nel 2033 e nel 2044, date distanti tra loro undici anni.
Ha visto e vedrà altresì coincidere l’1 novembre con il primo martedì di quel mese nel 2016, nel 2044 e nel 2072, date distanti tra loro ventotto anni.
Come si vede, il 2044, undicesimo anno bisestile del centennio, possiede entrambe le caratteristiche (conta anche su una terza, della quale si tratta nella nota acclusa a queste righe).
Si ricorda che è in coincidenza con l’anno bisestile che, a partire dalla seconda elezione del 1792, negli Stati Uniti d’America hanno luogo le cosiddette elezioni presidenziali e che dal 1848 le urne a tal fine vengono colà aperte in un solo giorno, “il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre” (nei tre casi sopra riportati, si è votato e si voterà pertanto il giorno 8 perché martedì 1 non è stato e non sarà preceduto da un lunedì).
Per connessione, si nota che l’effettiva nomina del Presidente USA ad opera del Collegio Elettorale formato dagli Elettori (con l’iniziale maiuscola per distinguerli dagli elettori comuni) scelti il predetto “primo martedì dopo il primo lunedì” eccetera, ha luogo “il primo lunedì dopo il secondo mercoledì del mese di dicembre dell’anno coincidente con il bisestile” e che in questo secolo la sequenza è stata e sarà: 2004 il 13 dicembre, 2008 il 15, 2012 il 17, 2016 il 19, 2020 il 14, 2024 il 16, 2028 il 18, 2032 il 13, 2036 il 15, 2040 il 17, 2044 il 19, 2048 il 14 e così via consistendo di quattro numeri dispari e tre pari alternati.
Il Cinquecento chiude con l’anno 1600, il Seicento con il 1700, il Settecento con il 1800, l’Ottocento con il 1900, il Novecento con il 2000, il nostro secolo concluderà con il 2100 perché non esiste l’anno zero (che è in origine nella numerazione posizionale Indiana e viene introdotto in Occidente da Leonardo Fibonacci – celebre per la sua ‘successione’, di cui alla fine, e in verità uno dei più grandi matematici d’ogni tempo e luogo – con la pubblicazione del suo ‘Liber Abbaci’ solo nel 1202), altrimenti terminerebbero rispettivamente con il 1599,
1699, 1799, 1899, 1999 e in futuro con il 2099.
Per la stessa ragione il secondo millennio ha avuto fine alla mezzanotte del 31 dicembre del 2000 e non del 1999 come allora erroneamente molti sostennero.
Nota:
Tranne che negli anni bisestili, il mese di febbraio conta quattro lunedì, quattro martedì, quattro mercoledì, quattro giovedì, quattro venerdì, quattro sabati e quattro domeniche.
È perfetto, visivamente simmetrico.
In questo secolo è cominciato e inizierà di lunedì nel 2010, 2016, 2021, 2027, 2038, 2044, 2049, 2055, 2061, 2066, 2072, 2077, 2083, 2094, 2100.
Da rilevare che sono tre nell’elenco gli anni bisestili (2016, 2044, ancora, 2072) separati da ventotto anni e che in questi, contandosi ovviamente ventinove giorni, la simmetria delle quattro settimane a formare il mese perfetto è interrotta.
Post scriptum:
La durata in termini di giorni di due mandati successivi ovviamente quadriennali presidenziali americani è di duemilanovecentoventidue.
William McKinley – eletto nel 1896 e confermato nel 1900 – se avesse portato a termine il secondo incarico (fu assassinato), sarebbe restato in carica un giorno in meno, duemilanovecentoventuno, perché il 1900, come detto, non era bisestile e i citati duemilanovecentoventidue si ottengono sommando sei anni normali e due bisesti, non uno di questi soltanto come nel caso.
Infine:
Il grande Fibonacci è noto come ‘Pisano’ e memorabile fu l’occasione nella quale, qualche decennio fa, in visita nella ex Repubblica Marinara, l’Ambasciatore algerino disse che “un Leonardo Pisano ci unisce” senza che praticamente nessuno tranne il sottoscritto lo capisse.
Fatto è che l’allora giovanissimo genio era venuto a conoscenza dei primi rudimenti matematici (apprendendo dello zero che gli Arabi avevano ‘ricevuto’ dagli Indiani) proprio in Terra algerina laddove viveva con il padre colaggiù operante.
Una sequenza di ‘numeri di Fibonacci’ (le cui implicazioni sono infinite) – 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89 … – si trova nella distribuzione a spirale dei flosculi delle margherite e dei semi di girasole.
In entrambi i casi, esistono due insiemi di spirali logaritmiche, una avvolta in senso orario e una in senso antiorario.
I numeri delle spirali non sono uguali nei due sensi, ma tendono a essere due numeri della miracolosa ‘successione’ di Leonardo Fibonacci consecutivi (in genere 21 e 34 nelle margherite, 34 e 55 nei girasoli medi).
Analoghe serie di spirali si trovano nelle pigne (5 e 8), negli ananas (8 e 13) e in molte piante le cui foglie crescono appunto a spirale.
Ma questa è tutta un’altra storia.
Varese, 17 dicembre 2023
L’Oscar? Qualche parola in più nel ‘coccodrillo’
1975, cerimonia per la consegna degli Oscar relativi alla precedente stagione cinematografica.
Jack Lemmon vince per la davvero notevole interpretazione in ‘Salvate la tigre’.
Ellen Burstyn per ‘Alice non abita più qui’.
L’attrice non è in sala perché impegnata a teatro a New York.
Lemmon ritira così la statuetta per lei.
Non molto dopo, con l’amico Walter Matthau, incontra Burstyn in un ristorante della Grande Mela e durante il pranzo le consegna il premio.
L’attrice lo guarda e quasi sopra pensiero dice: “Chissà a cosa serve averlo vinto?” per sentirsi rispondere dal caustico Matthau:
“Ad avere quattro parole in più sui giornali quando pubblicheranno il tuo necrologio.
Dopo il tuo nome, scriveranno difatti ‘vincitrice di un Oscar!’”
Varese, 16 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (ottava parte)
1876
Le elezioni ebbero svolgimento il 7 novembre.
La percentuale dei votanti fu pari all’ottantuno e otto per cento degli aventi diritto.
Il Partito Repubblicano, riunito a Cincinnati, nominò non senza contrasti (l’oppositore era James Blaine) il Governatore dell’Ohio Rutherford Hayes.
Il Partito Democratico, con grande partecipazione ed entusiasmo, a Saint Louis, scelse il Governatore del New York Samuel Tilden.
I risultati ufficiali (si leggano le annotazioni seguenti) diedero centoottantacinque Elettori al GOP e centoottantaquattro all’esponente dell’Asinello.
I voti popolari furono invece favorevoli a Tilden.
Hayes, alla fine, fu dichiarato vincitore in ventuno Stati.
Tilden in diciassette.
Il totale dei Elettori all’epoca era trecentosessantanove.
Annotazioni
La campagna elettorale del 1876 e il ‘Compromesso del 1877’
Quando furono resi noti i risultati delle elezioni per la Casa Bianca del 1876 fu evidente che il candidato democratico Samuel Tilden aveva ottenuto più voti popolari del suo rivale repubblicano Rutherford Hayes.
A causa del complesso sistema elettorale, però, nessuno dei due poteva contare su un numero di delegati tale da essere proclamato Presidente.
Tilden aveva centoottantaquattro voti, Hayes centosessantasei, mentre erano in discussione i diciannove delegati complessivamente spettanti alla Carolina del Sud, alla Louisiana e alla Florida (così come, quanto a quest’ultimo Stato, accadrà nel 2000).
Entrambi i candidati li reclamavano e tutti e tre gli Stati in questione avevano reso noti due diversi e contrastanti risultati.
Passarono mesi turbolenti.
Il repubblicano Hayes aveva bisogno di tutti i diciannove voti per ottenere la nomina.
A Tilden ne bastava uno solo.
A detta degli storici, è molto difficile dire chi avesse davvero diritto ai delegati in ballo.
I democratici erano accusati di aver fatto ricorso a metodi intimidatori, i repubblicani di essere responsabili di brogli.
In conclusione, la maggior parte degli studiosi è del parere che a Hayes probabilmente spettassero i delegati della Carolina del Sud e della Louisiana, ma che a Tilden toccassero quelli della Florida, la qual cosa gli avrebbe consentito di vincere.
Comunque, nel febbraio del successivo 1877 (all’epoca, si entrava in carica il 4 marzo e non, come dal 1937, il 20 gennaio dell’anno successivo a quello elettorale), la Commissione nominata dal Congresso per dirimere la faccenda decise di assegnare tutti i voti contestati a Hayes.
Fu una delibera chiaramente viziata da spirito di parte con gli otto membri repubblicani della Commissione schierati contro i sette democratici.
Questi ultimi, convinti di essere vittime di un sopruso, minacciarono l’ostruzionismo al Congresso al momento del conteggio formale dei voti, così da lasciare il Paese senza Presidente alla scadenza del mandato di Ulysses Grant.
Una serie di contatti dietro le quinte in particolare tra democratici del Sud e repubblicani portò, alla fine, ad una soluzione informale nota come ‘il Compromesso del 1877’.
In cambio del proprio assenso alla elezione di Hayes, gli aderenti al Partito dell’Asino ottennero la garanzia che il nuovo Presidente avrebbe ritirato le ultime truppe federali dal Sud, avrebbe affidato ad un sudista un incarico di spicco nel governo e avrebbe sostenuto le richieste del Sud in materia di aiuti per la ricostruzione della ferrovie.
Subito dopo essere entrato in carica, Hayes mantenne tutte le promesse.
Per arrivare alla or ora descritta soluzione, si dovette aspettare le fine di febbraio del 1877 e Hayes prevalse così infine con centoottantacinque voti contro centoottantaquattro.
Si tratta del voto più contrastato dell’intera storia USA, ove si escludano le due occasioni (1800 e 1824, come visto) nelle quali per arrivare al dunque quanto alla Presidenza si dovette ricorrere al voto della Camera.
1880
Si vota il 2 novembre e il parco dei partecipanti è del settantotto per cento.
Il Collegio è costituito da trecentonovantasei Elettori e quindi arriva a White House chi ne conquista almeno centoottantacinque.
Per la prima volta, un Presidente emerito viene preso in considerazione, e seriamente, per un terzo mandato, sia pure, nel caso, non consecutivo.
Si tratta di Ulysses Grant che il Partito Repubblicano pare voler riproporre.
Per inciso, non esisteva e non esisterà fino al 1951, una disposizione costituzionale che impedisse un terzo o, per dire, un quarto quadriennio.
Semplicemente, avendo il Padre della Patria George Washington rifiutato di presentarsi una terza volta, altrettanto avevano fatto i suoi successori.
È dopo la quadruplice elezione di Franklin Delano Roosevelt che il Congresso approverà un Emendamento, il ventiduesimo, che vieta la ricandidatura di chi sia stato “eletto due volte”.
Peraltro, nel corso di una lunga e tormentata Convention svoltasi a Chicago, il medesimo GOP – preso atto della confermata intenzione dell’uscente Rutherford Hayes di non riproporsi – infine, d’accordo i rivali che fanno convergere su di lui i loro delegati, si compatta su James Garfield, un Rappresentante dell’Ohio.
Sconfitto nell’occasione anche il Segretario al Tesoro John Sherman, fra l’altro fratello del Generale William Tecumseh Sherman.
Nel ticket – e finirà per governare visto che Garfield verrà assassinato – il chairman del partito nel New York Chester Arthur.
Nel campo avverso, assai influente il candidato sconfitto (ma vincente in termini di voti popolari) nel 1876 Samuel Tilden, a Cincinnati, prevalse il Generale Winfield Scott Hancock – l’ennesimo eroe della Guerra di Secessione sceso nell’agone politico.
Battuto in particolare il Senatore del Delaware Thomas Bayard.
Non trascurabile storicamente parlando, la partecipazione del Greenback Labor Party, una compagine che raccoglieva e rappresentava lo scontento di contadini e operai e che nelle Mid Term Elections del 1878 aveva avuto un qualche successo.
Il suo candidato James B. Weaver, un ex Generale (ancora?) celebre per aver guidato le truppe a Gettysburg e al momento alla Camera per l’Iowa, personaggio del quale avremo modo di riparlare, non va però nella circostanza oltre i trecentomila voti popolari.
Conclusione?
Garfield vincerà con un margine ridottissimo di voti popolari ma con duecentoquattordici Elettori al fianco contro i centocinquantacinque toccati al rivale.
I due contendenti maggiori conquisteranno lo stesso numero di Stati, diciannove.
Varese, 16 dicembre 2023
La scritta ‘Hollywood’ che tutti conoscono compie cento anni
Simona Rodesino
per RSI app
La scritta ‘Hollywood’ che da Mount Lee domina e si staglia contro le colline di Los Angeles, per molti rappresenta un sogno, un orizzonte da inseguire e un vero immaginario.
Quello che oggi è il simbolo dell’industria cinematografica più grande del mondo ha attraversato molte ere e reca in sé una storia lunga un secolo. Quindi, torniamo lì dove tutto è iniziato per capire come siamo arrivati ad oggi.
A inizio Novecento Hollywood comincia piano piano a diventare un epicentro d’interesse, una cittadina attrattiva per attori, produttori, registi e società cinematografiche.
Ma perché?
I motivi sono tanti.
Il clima mite della California del sud permette di lavorare tutto l’anno non stop alle produzioni.
Anche dal punto di vista paesaggistico, la regione offre una grande varietà di ambientazioni naturali, dall’oceano e le spiagge fino alle montagne e ai parchi. Questo evita alla troupe spostamenti sulle lunghe distanze alla ricerca di location diverse.
Altro fattore fondamentale, Los Angeles è lontana dalla East Coast e quindi dal controllo della ‘Edison Trust’, una coalizione di produttori cinematografici che cerca di monopolizzare l’industria.
Lontana da questi vincoli e con tutte queste caratteristiche, Hollywood attrae il mondo del cinema e si espande.
Nel 1920, supera San Francisco e diventa la città più popolosa degli Stati Uniti, ma la sua ascesa è solo all’inizio.
Ecco che in questo scenario, la celebre insegna viene installata per la prima volta. È il 1923 e Harry Chandler, immobiliarista statunitense che possiede il ‘Los Angeles Times’, commissiona la produzione della scritta ‘Hollywoodland’ per promuovere la vendita di un nuovo quartiere a Los Angeles che porta proprio questo nome.
Si tratta quindi inizialmente di una trovata pubblicitaria temporanea, composta da grandi lettere e illuminata da circa quattromila lampadine. ‘Hollywoodland’ rimane esposta fino al 1929, poi a causa della ‘Grande Depressione’ viene abbandonata e lasciata in condizioni di degrado per vent’anni.
Nel 1949, la camera di commercio della cittadina decide di restaurare la struttura, mettendo in atto un cambiamento fondamentale: la parola ‘land’ viene eliminata, lasciando unicamente ‘Hollywood’.
A partire da quel momento, il celebre sign diventa dunque icona del cinema degli Stati Uniti nel mondo.
La storia, però, non finisce qui.
Il restauro attuato non è infatti efficace.
I materiali risalgono agli anni Venti e la struttura continua a degradarsi per quasi trent’anni – anche a causa delle intemperie – senza che nessuno intervenga.
A questo punto, nel 1978, entra in gioco il fondatore della rivista ‘Playboy’, Hugh Hefner, che organizza una campagna di raccolta fondi per sostituirla.
Nove donatori sponsorizzano la sostituzione delle vecchie lettere con altre lettere fatte di materiali solidi e resistenti. Finalmente, una nuova luce brilla sulle colline di Los Angeles.
La scritta è talmente iconica che il mondo del cinema stesso, negli anni, l’ha spessa inclusa all’interno dei suoi film, a volte addirittura distruggendola o facendola scomparire dalla Terra.
Cosa che avviene per esempio in ‘The Day After Tomorrow’ del 2004 e in ‘Resident Evil: Afterlife’ nel 2010.
Un simbolo che ha subito anche numerosi atti vandalici e modifiche.
Nel 2017, per esempio, sono state cambiate due lettere, diventando ‘Hollyweed’, un riferimento al consumo di marijuana.
La stessa cosa era già avvenuta nel 1976.
Oggi la zona attorno all’installazione è videosorvegliata e recintata e le lettere vengono controllate, pulite e ridipinte con regolarità.
Ci si prende cura del celebre sign che quest’anno ha compiuto cento anni di esistenza, cento anni da quando è stato illuminato per la prima volta.
Per festeggiare l’anniversario, la scritta è stata completamente ripulita e restaurata dall’associazione ‘The Hollywood Sign Trust’.
Un monumento visibile da molti luoghi di Los Angeles, di giorno e di notte, silente scruta cittadini e turisti dall’alto.
Puoi osservarlo da lontano o cercare di avvicinarti il più possibile attraverso le stradine che si inerpicano sulle colline di Hollywood.
Un po’ una metafora dell’ambizione e della ricerca del successo.
Quella scritta avrebbe dovuto essere rimossa dopo qualche anno e invece, non senza difficoltà, un secolo dopo, è ancora qui.
Ha assistito, accompagnato e rappresentato l’ascesa della città a capitale mondiale del cinema.
E questo, forse, è un po’ quello che dovrebbe fare un simbolo.
Varese, 16 dicembre 2023
Accadimenti unici nella storia politico/elettorale presidenziale americana
Una sola volta, la prima, si è votato anche in un anno dispari: le urne difatti nella circostanza restarono aperte dal 15 dicembre del 1788 al 10 gennaio del 1789 (fino al 1844 compreso erano in funzione per oltre un mese ed è dal 1848 che invece operano un giorno e basta).
Una sola volta – che si votasse per più settimane o entro ventiquattr’ore non importa – i seggi non sono stati comunque aperti nel mese di novembre di un anno bisestile: nel 1788 visto che come sopra detto in quella occasione si cominciò a votare dal 15 dicembre.
Uno soltanto il Presidente ufficialmente indipendente: il Padre della Patria George Washington, eletto nel 1788/89 e nel 1792.
Uno soltanto il Vice Presidente entrato in carica prima del titolare: John Adams che sì insediò nel 1789 il 21 aprile nove giorni avanti (ebbe la seconda luogo il 30 di quello stesso mese) la cerimonia ufficiale che vide protagonista l’eletto George Washington.
Uno soltanto il Presidente appartenente al Partito Federalista: John Adams, vincente nel 1796.
Uno soltanto il caso conseguente ad una disposizione di legge di un Presidente appartenente a un partito e del Vice membro di un altro: accadde a seguito delle elezioni del 1796, applicandosi ancora e appunto il disposto costituzionale in merito alle candidature che non prevedeva il ticket (introdotto a partire dal 1804) e determinava che il più votato diventasse Capo dello Stato e il secondo comunque lo affiancasse: vinse il Federalista John Adams e Vicario divenne Thomas Jefferson, del concorrente e avverso partito Democratico/Repubblicano.
Uno soltanto (per fortuna!) il Vice Presidente in carica che uccise un avversario politico in duello: nel 1804, Aaron Burr, Vicario di Thomas Jefferson, ai danni di Alexander Hamilton.
Uno soltanto il Presidente che non avendo raggiunto la maggioranza nel Collegio degli Elettori (con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni) sia stato votato dalla, competente nel caso, Camera dei Rappresentanti: John Quincy Adams nel 1825 a seguito dell’esito nelle urne nel precedente anno.
Uno soltanto il Vice Presidente che non avendo conseguito la maggioranza nel Collegio suddetto sia risultato eletto dal, competente nel caso, Senato: Richard Mentor Johnson a seguito delle votazioni del 1836.
Uno soltanto il candidato alla Presidenza non accompagnato (era allora possibile in un contesto nel quale se il Vice moriva non veniva sostituito restando il ruolo vacante fino alla successiva elezione, pecca alla quale si pose rimedio solo nel 1967 con un Emendamento che troverà poi attuazione nel caso di Gerald Ford) da quello alla carica vicaria: l’uscente Martin Van Buren nel 1840.
Uno soltanto dopo il 1856, anno del primo confronto fra i Democratici e i Repubblicani, e per quanto non pochi si siano cimentati il candidato di un terzo partito riuscito ad arrivare secondo per voti popolari e in termini di Elettori: l’ex Presidente Theodore Roosevelt nel 1912 che perse dal dem Woodrow Wilson ma prevalse nei confronti del rep William Taft.
Uno soltanto il Presidente scapolo: James Buchanan eletto nel 1856.
Uno soltanto il Presidente in carica che presentandosi per una conferma sostituì il proprio Vice con un esponente del partito avverso: il repubblicano Abraham Lincoln nelle votazioni del 1864, quando scelse come secondo il democratico Andrew Johnson perché a Guerra di Secessione ancora in corso fosse dimostrata l’adesione in un fronte unico ai suoi principi e ai motivi del conflitto anche di parte degli oppositori.
Per conseguenza, è Andrew Johnson il solo democratico che sia succeduto mortis causa ad un repubblicano e comunque l’unico tra gli otto Vice subentrati dopo il decesso ad un Presidente a farlo nei confronti di un appartenente ad un altro partito.
Uno soltanto il Presidente eletto due volte non consecutivamente: Grover Cleveland (nel 1884 e nel 1892, essendo stato battuto nel 1888) che è conteggiato pertanto sia come ventiduesimo che quale ventiquattresimo inquilino della Executive Mansion nell’elenco ufficiale, questo mentre gli altri succeduti a se stessi in quanto rieletti di seguito sono indicati con un solo numero.
Uno soltanto il designato alla Presidenza che sia stato nominato da due differenti partiti e che apparendo al primo posto in due ticket abbia pertanto avuto nell’occasione due compagni di impresa: William Jennings Bryan nel 1896 sconfitto, in corsa per i Democratici e per i Populisti.
Lo stesso William Jennings Bryan è stato il solo uomo politico dal predetto 1856 candidato ufficialmente tre volte (soccombendo sempre) da uno dei due partiti egemoni (il Democratico) della politica americana: nel 1896, nel 1900 e nel 1908.
Uno soltanto il Presidente ufficialmente nominato ed eletto più di due volte (esattamente quattro): Franklin Delano Roosevelt nel 1932, 1936, 1940 e 1944.
Uno soltanto il Presidente che abbia avuto tre diversi Vice: Franklin Delano Roosevelt che fu affiancato da John Garner nei mandati conseguenti alle votazioni 1932 e 1936, da Henry Wallace in quello seguente le urne del 1940 e da Harry Truman nel brevissimo termine dell’ultimo.
Il medesimo Franklin Delano Roosevelt è anche il solo candidato alla Vice Presidenza sconfitto – nel 1920 con James Cox – poi (viene da dire “ciò malgrado”) candidato ed eletto.
Uno soltanto il Vice Presidente in carica che presentatosi in persona per la Casa Bianca e nella circostanza battuto si ripropose otto anni dopo vincendo: Richard Nixon nel 1960, da Vicario di Dwight Eisenhower, e nel 1968.
Uno soltanto il Presidente dimissionario: Richard Nixon nell’agosto del 1974 a seguito dello ‘Scandalo Watergate’.
Uno soltanto il Presidente arrivato alla Casa Bianca senza essere stato eletto neppure come Vice: Gerald Ford nel 1974 a seguito delle dimissioni di Richard Nixon del quale era diventato in precedenza Vicario non per mandato popolare ma a seguito (come sopra accennato) della nomina prevista dal disposto dell’Emendamento approvato in materia nel 1967.
Una soltanto la First Lady che si sia presentata (venendo eletta) per il Senato mentre il coniuge sedeva alla Casa Bianca: Hillary Rodham Clinton nel 2000.
La stessa è la prima ed unica ex First Lady poi candidata (sconfitta sia per la Nomination dem nel 2008 che per la Presidenza nel 2016) a White House nonché la prima e sola ex nel ruolo a ricoprire l’incarico di Segretario di di Stato.
Varese, 15 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (settima parte)
1868
Le prime votazioni per la Casa Bianca dopo la fine della Guerra di Secessione.
Avviata la Ricostruzione, il Texas, il Mississippi e la Virginia non furono ammessi al voto.
Il 3 novembre, si recò alle urne il settantotto e uno per cento degli aventi diritto.
Gli Elettori erano duecentonovantaquattro e la maggioranza necessaria per vincere era pertanto fissata a centoquarantotto.
Motivo assoluto del contendere la Reconstruction, non essendo certamente arrivati a soluzione i problemi conseguenti al conflitto.
L’avventura del tutto particolare del Presidente uscente Andrew Johnson era destinata a terminare.
Vice di Lincoln per quanto democratico (Lincoln era repubblicano, ovviamente), inserito nel ticket elettorale del Presidente in corsa per un secondo mandato nel 1864 per dimostrare, a guerra civile in corso, che non tutti i democratici erano schierati con il Sud secessionista, succeduto a seguito dell’assassinio del titolare dell’incarico, sottoposto ad impeachment e scampato alla procedura per il rotto della cuffia, Johnson non trovò udienza e il suo tentativo di ottenere una Nomination democratica andò fallito.
Al termine di una tormentata Convention tenuta a New York City, superate mille indecisioni, all’ennesimo tentativo, l’Asinello scelse l’ex Governatore del New York Horatio Seymour.
Con lui nel ticket il Rappresentante del Missouri Francis Preston Blair jr le cui improvvide uscite a proposito dei neri – dei quali contestava l’emancipazione – contribuirono certamente alla sconfitta.
Il Partito repubblicano, dal canto suo, pensò bene di andare sul sicuro candidando l’eroe nazionale del momento e vincitore della Guerra di Secessione Ulysses Grant.
Una campagna condotta sbandierando “la giubba insanguinata” dell’eroico ma incompetente candidato portò il GOP a conservare lo scranno presidenziale.
Il repubblicano in effetti vinse ma di stretta misura e se non avesse collezionato molti voti dei neri nel Sud sarebbe risultato certamente un Presidente minoritario, ovvero dotato di sufficienti suffragi al Collegio Elettorale ma sconfitto in termini di voto popolare.
In soldoni: Ulysses Grant ebbe duecentoquattordici Elettori contro gli ottanta di Seymour e prevalse in ventisei Stati su trentaquattro.
1872
Le votazioni ebbero luogo il 5 novembre.
La partecipazione fu pari al settantuno e tre per cento degli aventi diritto al voto.
I due principali contendenti furono il Presidente in carica Ulysses Grant, repubblicano, e l’editore ed ex Rappresentante Horace Greeley.
I repubblicani si riunirono in Convention a Philadelphia e confermarono Grant all’unanimità.
La candidatura di Greeley fu approvata in una Convention tenutasi a Cincinnati del neonato Liberal Republican Party.
Il Partito Democratico, riunito a Baltimora, decise di appoggiare Greeley e pertanto non propose un proprio candidato.
Grant vinse in trentuno Stati ottenendo al Collegio Elettorale duecentoottantasei Elettori.
Il rivale vinse in sei Stati riportando sessantasei delegati.
Il totale dei componenti il Collegio Elettorale era all’epoca trecentocinquantadue.
Annotazioni
Carl Schurz: il candidato impossibile
Tra i personaggi minori ma non troppo della Storia USA, un posto particolare merita Carl Schurz.
Già ambasciatore in Spagna, Senatore del Missouri, Generale durante la Guerra di Secessione e futuro Segretario agli Interni con Hayes e Garfield, il Nostro presiedette a Cincinnati nel 1872 la Convention del neonato Liberal Republican party, una effimera ma in quel particolare momento importante formazione politica nata per cercare di impedire la rielezione di Ulysses Grant, la cui amministrazione era sotto accusa per questioni etiche.
Leader politico naturale, perché non sceglierlo come candidato alla Casa Bianca?
Semplicemente perché gli mancava uno dei requisiti richiesti dalla Costituzione: era, infatti, nato in Germania e non aveva pertanto la cittadinanza americana dalla nascita.
Fu così che al termine della citata e combattutissima (altri pretendenti di peso come il giudice David Davis, l’ambasciatore Charles Francis Adams e l’ex Ministro della Marina di Lincoln e di Andrew Johnson Gideon Wells avevano le carte in regola a loro volta) Convention la Nomination andò all’editore ed ex membro della Camera Horace Greeley, dipoi demolito da Grant a novembre.
1872, quando i voti dei Elettori necessariamente si dispersero
Horace Greeley – candidato democratico ma anche dell’effimero New Liberal Republican Party nel 1872 – detiene un particolarissimo primato.
Battuto nell’occasione dal repubblicano Ulysses Grant, Presidente uscente, venne a morte prima della riunione del Collegio Elettorale.
Fu così che gli Elettori a lui collegati, non potendolo votare, dovettero necessariamente esprimersi altrimenti.
Greeley è quindi nell’intera storia delle elezioni USA l’unico candidato che pur essendosi affermato in alcuni Stati non ha ufficialmente ricevuto alcun voto appunto in sede di Collegio.
Varese, 15 dicembre 2023
Lo scarso se non inesistente apporto di Jean Paul Sarte alla cinematografia americana come narrato da John Huston
Spronato da Wolfgang Reinhardt, nel 1959, John Huston pensò fosse arrivato il momento di portare sullo schermo la vita di Sigmund Freud.
Decise quindi di ricorrere per la sceneggiatura a Jean Paul Sartre il quale, per quanto “comunista e antifreudiano” come ebbe a definirlo, era un profondo conoscitore della vita e delle opere del fondatore della psicanalisi.
Sommerso tempo dopo dalla prima stesura sartriana di ben trecento pagine, il grande regista pensò fosse utile un incontro ed invitò il filosofo a raggiungerlo in Irlanda, a St. Clerans, nel gennaio del 1960, per un paio di settimane di colloqui.
Quel che successivamente in proposito scrisse Huston nella sua imperdibile autobiografia (‘Cinque mogli e sessanta film’) è davvero illuminante e consente di scoprire uno dei lati più significativi della personalità del teorico dell’esistenzialismo:
“Non ho mai conosciuto nessuno che lavorasse con l’unidirezionalità di Sartre.
Mentre parlava, prendeva appunti di ciò che diceva.
Non c’era modo di fare una conversazione con lui.
Parlava senza sosta e non si riusciva a interromperlo.
Aspettavi che prendesse fiato ma lui non lo prendeva.
Le parole uscivano in un unico torrente…
Non era mai succinto…
Era una scena da filmare.
Sartre che prendeva appunti di se stesso con le due segretarie, quella sua e quella di Wolfgang, che, stenografando, cercavano di stargli dietro…
Ogni sera, dopo cena, spariva ed elaborava gli appunti del giorno che la segretaria batteva quindi a macchina…”
Alla fine, messa da parte anche una seconda, conseguente ed ancora più lunga sceneggiatura, ‘Freud’ fu realizzato tenendo conto solo in piccola parte delle idee di Sartre.
Come non invidiare, comunque, il filosofo d’oltralpe per la sua incredibile capacità?
Quante volte, infatti, avrei voluto, come lui, essere in grado di prendere nota di quel che andavo dicendo senza per questo dovermi interrompere e, soprattutto, senza perdere il filo del discorso!
Varese, 15 dicembre 2023
Letteratura
John Donne, Ernest Hemingway, Thomas Merton, Orson Welles
Tutti sanno come Ernest Hemingway, sempre molto attento non solo alla scrittura ma anche al titolo dei suoi romanzi e dei numerosi racconti, abbia trovato ‘Per chi suona la campana’ in un verso del grande poeta metafisico inglese John Donne (1572-1631).
La poesia in questione è talmente bella che va riproposta nella sua completezza per i pochi che non la conoscano:
“Nessun uomo è un ‘isola intero in se stesso
ogni uomo è un pezzo del continente, una parte della terra
se una zolla viene portata via dall’onda del mare l’Europa ne è diminuita come se un promontorio fosse stato al suo posto o una magione amica o la tua stessa casa
ogni morte d’uomo mi diminuisce perché io partecipo dell’umanità
e così non andare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te!”
Ora, agli stessi versi – e ciò accomuna a Hemingway altri due personaggi del trascorso secolo da lui distanti e molto diversi anche tra loro – si rivolsero altresì Thomas Merton ed Orson Welles.
Il primo, religioso e scrittore americano vissuto tra il 1915 ed il 1968, intitolò ‘Nessun uomo è un’isola’ una celebre raccolta di saggi del 1955 in cui, come nelle poesie e nella storia della sua conversione (‘La montagna dalle sette balze’), l’esperienza di vita si fonde felicemente con l’interesse per le filosofie orientali.
Il secondo volle usare il medesimo incipit per una serie di letture radiofoniche, poi pubblicate dalla Decca nel 1946, e comprendenti brani di Pericle, lo stesso John Donne, Thomas Paine, Patrick Henry, Lazare Carnot, Daniel Webster, John Brown, Abraham Lincoln ed Emile Zola.
Ecco, quindi, che una poesia funge da trait-d’union tra Donne, Hemingway, Merton e Welles.
Varese, 15 dicembre 2023
Le due Americhe
Città e campagne
“Tra Philadelphia e Pittsburgh c’è un’altra Pennsylvania”
Quanto occorso nel 2016.
Quanto, altri i protagonisti, capiterà colà e/o altrove essendo gli USA una nazione divisa
Philadelphia Ovest, Pennsylvania.
Sono le dieci di sera dell’8 novembre 2016.
Al Cavanaugh’s bar, ritrovo degli studenti universitari, il televisore è acceso.
La fiducia regna sovrana.
Hillary vincerà.
Il sigillo è stato dato la sera prima da Barack Obama e Bruce Springsteen in un affollato comizio/concerto.
“Come va?”, chiede distrattamente ai presenti un giovane entrando.
Non ottiene risposta.
Solo sguardi preoccupati, facce incredule.
Sullo schermo, la Florida e l’Ohio, poco prima azzurrini, sono adesso rosa pallido.
Che succede?
Gli è che dopo i voti dei seggi cittadini stanno arrivando quelli delle campagne.
E le campagne votano Trump.
Un’oretta ancora, e, mentre Florida e Ohio volgono al rosso intenso, anche la Pennsylvania trascolora.
Tra i molti ragazzi, un tipo sulla cinquantina.
Scuote il capo, finisce di bere e prima di uscire tira fuori una frase che ai millennials presenti suona incredibile: “Tra Philadelphia e Pittsburgh c’e’ un’altra Pennsylvania!”
Hillary ha dragato le città.
Donald ha chiamato a sè le campagne.
Il blu urbano ha perso.
Il rosso contadino ha vinto.
Tutto qua!
Varese, 14 dicembre 2023
L’utilizzo a soli fini di bassa politica dell’Impeachment in America sta comportando lo scadimento dell’istituto nella considerazione dei più
Febbraio 1868, il Presidente Andrew Johnson è posto in stato d’accusa (se la caverà al Senato davvero per il rotto della cuffia).
Dicembre 1998, Bill Clinton è il secondo inquilino della Executive Mansion oggetto di Impeachment (anche in questa circostanza il Senato, stavolta nettamente, assolve).
Oltre centotrenta gli anni trascorsi tra i due accadimenti a dimostrazione del fatto che la normativa in questione regola una materia di specifica importanza e che della possibilità di ricorrervi non si deve abusare.
Cosa che invece negli ultimi limitati tempi si fa a mio modo di vedere assolutamente.
È dai due Impeachment ai quali è stato sottoposto Donald Trump (quello che si va concretizzando nei riguardi di Joe Biden oggi è una altrettanto infelice reazione), il primo a settembre 2019 e il secondo a gennaio 2021, una settimana prima del termine del mandato, che l’istituto viene usato esclusivamente come arma politica (non alta politica, a mio modo di vedere) perdendo ogni sia pur lontana sacralità.
Che così indubbiamente sia è dimostrato dal fatto che le due istanze avverse al tycoon come quella ipotetica contro il quarantaseiesimo Presidente non avevano ed hanno la pur minima possibilità di arrivare alla destituzione dell’inquisito mancando clamorosamente nell’infine giudicante Senato la favorevole maggioranza dei due terzi, sia pure dei presenti, richiesta.
Non è certamente per operazioni propagandistiche di bassa cucina che la Costituzione ha dettato in materia.
Peraltro, allargando troppo le maglie visto che parla di
“tradimento, corruzione e altri crimini e misfatti” lasciando spazio alla più sfrenata creatività!
Varese, 14 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (sesta parte)
1860
Si vota il 6 novembre e gli Elettori sono in totale trecentotre.
La maggioranza assoluta richiesta è pertanto pari a centocinquantadue.
È questa la diciannovesima volta che i cittadini vengono chiamati ad esprimersi per la Presidenza.
Il momento è davvero difficile e i contrasti interni al Partito Democratico sono durissimi.
La questione relativa alla schiavitù è la più importante sul tappeto e si pensi che nell’intervallo tra il precitato 6 novembre e il 4 marzo 1861, giorno dell’insediamento del vincitore, ben sette Stati del Sud si dichiararono secessionisti.
Il Partito Repubblicano, Gran Old Party come verrà chiamato, fondato nel 1854 con l’intento primario di debellare la schiavitù, aveva vinto le Mid Term Elections del 1858 e presenta candidato Abraham Lincoln.
I democratici, avendo Buchanan rinunciato ad un secondo ipotetico mandato, come detto in grave crisi interna e in difficoltà nel Paese, si dividono tra Sudisti e Nordisti e propongono due aspiranti, il Vice Presidente in carica John Breckinridge e il Senatore dell’Illinois Stephen Douglas.
Nasce un altro movimento nazionale che avrà vita breve: è il Constitutional Union Party, che propone per White House il Senatore del Tennessee John Bell.
L’esito elettorale – che vede il vincitore, classico ‘presidente di minoranza’, prendere un numero inferiore di voti popolari rispetto ai rivali uniti (e se è per questo, anche solo alla somma dei suffragi andati ai due democratici) – è il seguente:
Abraham Lincoln, diciotto Stati e centoottanta voti al Collegio
John Breckinridge, undici Stati e settantadue Elettori
John Bell, tre Stati e trentanove delegati nazionali
Stephen Douglas (in termini di voto popolare secondo dopo Lincoln) un unico Stato e solo dodici voti elettorali.
Annotazioni.
Per inciso, va qui ricordato che nel 1912, anno nel quale Wilson riporterà i democratici a White House (le parentesi Cleveland essendo meno significative), per contrappasso a quanto accaduto nel 1860, furono i repubblicani a dividersi e a permettere al candidato dell’Asinello di prevalere pur ottenendo un numero di suffragi popolari nettamente inferiore a quello conquistato dai due GOP (considerando ovviamente il movimento costituito nella circostanza da Teddy Roosevelt tale) sommati.
1864
Le operazioni di voto si svolgono l’8 novembre e la percentuale dei votanti è pari al settantatre e otto per cento degli aventi diritto.
Gli Elettori sono in totale duecentotrentatre.
Venticinque gli Stati coinvolti.
Data la guerra in corso, sono ovviamente esclusi i territori secessionisti.
Peraltro, la Louisiana e il Tennessee, al momento sotto il dominio del Nord, partecipano anche se i loro delegati non vengono conteggiati.
Il Partito Democratico, riunito a Chicago, opta per il generale George McClellan.
Il Partito Repubblicano, in principio diviso come vedremo fra poco, infine conferma a Baltimora il Presidente uscente Abraham Lincoln.
Visto il momento, i GOP decidono di presentarsi come National Union Party e, per dimostrare apertura nei confronti dei pochi democratici che si erano opposti alla Secessione, di candidare alla Vice Presidenza Andrew Johnson, già Governatore del Tennessee nel periodo prebellico e al momento Governatore Militare dello stesso Stato.
Per inciso, il secondo mandato di Lincoln durerà quarantadue giorni, dall’insediamento, il 4 marzo 1865, all’assassinio, il 15 aprile successivo.
Solo il mandato di William Harrison – trenta giorni dal 4 marzo al 4 aprile 1841 – è più breve.
Annotazioni.
Giugno 1864: i repubblicani, come si è detto, ricandidano Abraham Lincoln.
Nel mentre, la Guerra di Secessione è ancora in pieno corso e le prospettive di vittoria del Nord non sembrano poi molte.
Non pochi, e in primo luogo parecchi democratici, non disdegnerebbero l’apertura di trattative con il Sud per arrivare a una onorevole pace.
Ad agosto, il Partito dell’Asino, per quanto non decisamente, abbraccia quest’idea e candida a White House il generale George B. McClellan, già al comando dell’armata del Potomac.
McClellan accetta pur dubitando della strategia ipotizzata che prevede dapprima l’armistizio e in seguito la convocazione di una assemblea nazionale destinata a ricostituire l’unità degli Stati Uniti.
I fermenti in atto nel GOP addirittura prima della conferma di Lincoln quale candidato, fermenti promossi da repubblicani radicali che invece volevano che il conflitto proseguisse e che ritenevano i progetti del Presidente uscente per il dopoguerra troppo benevoli nei confronti degli Stati secessionisti, erano sfociati a maggio in una Convenzione di dissidenti che aveva scelto come terzo nella corsa verso la Casa Bianca il generale John Fremont.
Era costui, ai fini della candidatura, un ‘cavallo di ritorno’ essendo stato nel precedente 1856 (e non va dimenticato che il GOP era nato solo nel 1854) il primo repubblicano impegnato in una campagna presidenziale.
Sconfitto, per quanto dignitosamente, da James Buchanan, Fremont era rimasto dipoi a lungo nelle retrovie – anche nel corso della guerra – e tornava ora all’improvviso alla ribalta.
Uomo dai trascorsi brillanti – cartografo, esploratore, primo Senatore eletto della California che aveva contribuito a liberare nella guerra contro il Messico e alla cui entrata nell’Unione aveva dato un particolare contributo – costituiva un serio pericolo per Lincoln, al quale poteva sottrarre un buon pacchetto di voti e di delegati.
Ma il destino decise diversamente, dato che, all’improvviso, il conflitto, che pareva dovesse durare all’infinito, volse decisamente a favore del Nord.
Il 2 settembre, difatti, dopo lunghe settimane d’assedio, William Sherman conquistava Atlanta.
L’effetto di tale impresa fu straordinario e i repubblicani, su questa spinta, ritrovarono la propria compattezza.
John Fremont ritirò la candidatura e a novembre Lincoln vinse in tutti gli Stati dell’Unione meno tre.
Varese, 14 dicembre 2023
Frederick Jackson Turner, la Frontiera e il Western
1893, l’American Historical Association riceve alla World’s Columbian Exposition, a Chicago, un documento a firma Frederick Jackson Turner, in seguito insegnante all’Università del Wisconsin e ad Harvard, intitolato ‘Il significato della frontiera nella storia americana’ (‘The Significance of the Frontier in American History’).
Il testo è quello sviluppato in una conferenza che il grande storico e critico Robert Hughes, nel suo ‘La cultura del piagnisteo’ (‘The Culture of Complaint’, 1993) non esiterà a definire “epica”.
A ben guardare, Turner, nel trattare del tema, è nella scia – per non dire che dal precedente tragga decisamente ispirazione – di John O’Sullivan, intellettuale e giornalista democratico, che vari decenni prima, nel mentre negli anni Quaranta dell’Ottocento gli Stati Uniti si affacciavano sulla costa pacifica del continente, aveva per primo parlato di ‘Destino manifesto’ in particolare, per il vero, riferendosi alla necessità, a suo modo di vedere, di annettere all’Unione il Texas e i territori che dividevano gli USA dal Pacifico.
Il concetto in questione, dipoi, nel tempo, è andato assumendo un significato decisamente più lato: gli Stati Uniti, appunto nel loro destino, direi nel loro dna, hanno (avrebbero?) l’assoluto e indiscutibile impegno di portare, diffondere nel mondo la democrazia.
La Frontiera, sottolineava Turner nel citato testo, aveva creato la libertà “spezzando i limiti dell’abitudine, offrendo nuove esperienze e promuovendo nuove istituzioni e attività.”
Come in altre occasioni ho sottolineato, il grande scrittore premio Nobel inglese Rudyard Kipling, nella un tempo celeberrima poesia ‘Il fardello dell’uomo bianco’ (‘The White Man’s Burden’, 1899) – recante come sottotitolo ‘Gli stati Uniti e le Filippine’ in quanto composta a seguito del ‘Trattato di Parigi’ che, ponendo fine al confronto armato (‘Guerra Ispano Americana’) per Cuba, vedeva la soccombente Spagna concedere agli USA il dominio appunto sulle Filippine – quasi seguendo O’Sullivan e Turner, sostanzialmente (o almeno in cotal modo il suo poetare venne inteso) trattava della necessità da parte dell’Unione statunitense di sostituirsi all’esausta (così già la vedeva) Gran Bretagna nel recare la civiltà euro americana, e quindi la democrazia come in quell’ambito intesa, a popoli e terre.
(Un esempio ‘inglese’ di ‘esportazione’ della civiltà occidentale in India: Sir Charles Napier, primo governatore inglese del Punjab, da poco insediato, decise di combattere il ‘sati’ e cioè l’antica tradizione locale che prevedeva che le vedove fossero bruciate vive sulla pira funeraria del compianto marito.
I capi locali gli dissero che si trattava di un rito la cui origine si perdeva nella notte dei tempi e che, di conseguenza, non era proponibile un suo abbandono.
Per tutta risposta, Napier fece erigere una forca nei pressi di una pira, dicendo: “Rispetto le vostre usanze.
Continuate, prego.
Sappiate che è nostra usanza, tuttavia, impiccare coloro che bruciano vive le vedove”.)
Si dovrà attendere il 1961, anno di pubblicazione del clamoroso e stravolgente saggio ‘I dannati della Terra’ (‘Les Damnès de la terre’) di Frantz Fanon la cui pregnante prefazione è opera di Jean Paul Sartre, perché il processo di decolonizzazione allora in corso, le rivendicazioni terzomondiste, trovassero la loro ‘Bibbia’.
E’ da allora che il mondo concettuale come concepito da O’Sullivan, Turner e Kipling mostra le prime crepe per successivamente sgretolarsi.
(Per il vero, negli Stati Uniti, sotto traccia, non abitualmente proclamato, il concetto ‘sullivaniano/turneriano’ ha ancora buona presa malgrado il fatto che in più occasioni gli USA, intesi a portare la democrazia nel mondo o credendo di farlo, siano andati incontro a sonore sconfitte sia sul piano militare che su quello politico.)
E’ questo il momento dell’assunzione, praticamente senza reazione alcuna, da parte dell’uomo bianco, accusato di ogni sfruttamento e di ogni nefandezza, di ‘tutte’ le responsabilità.
E’ il momento delle scuse ‘bianche’, in ginocchio o pressappoco, per qualsiasi comportamento del passato comunque ritenuto riprovevole e, da parte della Chiesa, perfino con riferimento alle Crociate.
E’ dai primi Sessanta del Novecento che si impone il clima, tuttora globalmente imperante, che tanto piace ai mentecatti del ‘politically correct’ e alle ‘anime belle’, in una parola, ai ‘fessacchiotti’ che comandano, ‘democraticamente’ per carità, per ogni dove o quasi
Possiamo esaminare il predetto mutamento anche da un punto di vista decisamente particolare: guardando, cioè, al cinema western ‘classico’, quello con i pellirosse, e confrontando due pellicole realizzate l’una ‘prima della rivoluzione’ dal mitico John Ford (presentandosi nel cominciare un proprio intervento in una affollatissima e tumultuosa assemblea di cineasti che protestavano contro la dipoi denominata ‘Caccia alle Streghe’, il grande regista, peraltro trascurando il suo operare anche in altri campi cinematografici, disse semplicemente: “Mi chiamo John Ford e faccio western”.) e la seconda quasi trent’anni più tardi da Martin Ritt, un film maker e, a Broadway, un regista teatrale, assolutamente ‘giusto’, del tutto adatto per idee ed opere a rappresentarla.
Parlo del fordiano ‘Ombre rosse’ (‘Stagecoach’, 1939) – sceneggiato da Dudley Nichols sulla base di un racconto, ‘Stage to Lordsburg’, a firma Ernest Haycox a sua volta ispirato da ‘Boule de suif’ di Guy de Maupassant – e di ‘Hombre’ (‘Hombre’) – ricavato da Irving Ravetch e Harriel Frank jr da un testo di Elmore Leonard – che il citato Ritt realizzò nel 1967.
Semplificando, in ‘Ombre rosse’ gli indiani, ‘cattivi’ tout court, attaccano furiosamente e fino all’arrivo della cavalleria la diligenza e i ‘visi pallidi’ in viaggio che la popolano, mentre in ‘Hombre’ un ‘indiano/bianco’, un disprezzato ‘mezzosangue’, agendo da pellerossa (Paul Newman, nei panni di John Russell, dopo un’azione per molti versi violenta, dirà “In questo frangente, ho agito da bianco”) e sacrificando la propria vita, salva un altro gruppo di persone in larga parte certamente non meritevoli di un simile sacrificio.
Due assai differenti ‘momenti’.
Due contrastanti visioni.
Due diverse generazioni.
Quella di John Ford, nel solco del ‘Destino manifesto’ e col mito della ‘Frontiera’, che vedeva nei pellirosse un nemico comunque e sempre da eliminare (e non va dimenticata la scena del successivo capolavoro fordiano ‘Sentieri selvaggi’ – ‘The Searchers’, 1956 – che vede il protagonista Ethan Edwards/John Wayne sparare forsennatamente ai bisonti perché uccidendoli intendeva sottrarre carne agli indiani), mai neppure interrogandosi sulle ragioni che portavano i nativi americani a contrapporsi.
Quella di Martin Ritt, dubitosa se non già convinta della ‘cattiveria’ dell’uomo bianco, del buon diritto degli indiani alla difesa, di una loro quasi fanciullesca innocenza violata senza pietà dai ‘visi pallidi’.
Non v’è chi non veda, non v’è chi non noti come dipoi, nel giro di pochi anni, il Western classico come sopra delineato decada: i ‘tempi’ maturati non lo giustificano più.
(Nei western di Sergio Leone, per inciso, come in genere in tutti gli ‘Spaghetti-Western’, i pellirosse sono sostanzialmente assenti e sia l’uomo ‘dal cappello bianco’ – il ‘buono’ – che quello ‘dal cappello nero’ – il ‘cattivo’ – sono rigorosamente ‘visi pallidi’.)
Varese, 14 dicembre 2023
Flash elettorale
La Camera americana, a maggioranza repubblicana, ieri ha autorizzato l’indagine per l’impeachment di Joe Biden, motivata dagli affari all’estero del figlio del presidente, Hunter.
La risoluzione per formalizzare l’inchiesta di impeachment è stata approvata con 221 voti a favore e 212 voti contrari.
Varese, 14 dicembre 2023
La verità
18/21 luglio 2016.
A Cleveland si tiene la Convention repubblicana che incorona Donald Trump.
Efficace eccome la frase con la quale il tycoon chiude la kermesse:
“Qui abbiamo detto la verità.
Se volete sentire bugie, andate alla Convention democratica!”
Varese, 14 dicembre 2023
Clinton, Putin, gli extraterrestri e Kennedy, i tassisti milanesi ‘Venusiani’…
Anni fa, Boris Eltsin consegnò all’allora omologo americano Bill Clinton, nel corso di un incontro, un ‘regalino’ di particolare interesse.
Si trattava, nientemeno, che del dossier segreto a suo tempo preparato dal KGB a proposito dell’assassinio di John Kennedy, avvenuto a Dallas il 22 novembre 1963.
Non conoscendosi, naturalmente, il contenuto delle carte in questione, in proposito, subito fiorirono le più strabilianti ed inverosimili illazioni ed ipotesi e il direttore di una rivistucola russa – il ‘Soverscenno Skretno’ – suggerì che nel dossier sarebbe stata contenuta una rivelazione assolutamente sconvolgente: ad uccidere Kennedy furono gli extraterrestri e ciò perché il presidente della Nuova Frontiera avrebbe avuto prove sicure della loro esistenza e sarebbe stato pronto a diffonderle pubblicamente.
L’idea di Artiom Borovik – così si chiamava il giornalista in questione – per quanto folle potesse apparire, trovò molte persone disposte ad accettarla e, naturalmente, tra i primi, i tanti che credevano (e credono) che gli alieni e, in particolare, i Venusiani, da decenni e più, vivano tra noi e che ben conoscano i più riposti segreti del nostro sistema solare.
Che gli abitanti del pianeta Venere, precisamente dal secondo dopoguerra, si siano, a frotte, trasferiti sulla Terra potrebbe essere testimoniato, fra l’altro, da un episodio che, tempo fa, mi ha visto involontario protagonista.
Nell’occasione di cui si parla, proveniente da Varese in treno ed arrivato a Milano, presi un taxi.
Trascorsi pochi minuti di viaggio, il guidatore, che da qualche tempo mi guardava con insistenza dallo specchietto interno della vettura, mi chiese:
“Signore, scusi: lei cosa vede ai lati della strada che stiamo percorrendo?”
Sorpreso, risposi:
“Case e palazzi.
Ma perché me lo chiede?”
“Io, invece”, replicò il desso, “vedo i campi e i fiori che c’erano nel dopoguerra, quando sono arrivato, prima della costruzione delle case.
Sa, sono un Venusiano, uno dei tanti che vivono in mezzo a voi…
E noi abbiamo questa capacità”.
Convinto di avere a che fare con un pazzo e dette alcune parole di circostanza, a quel punto, pregai l’autista di fermarsi e, con una scusa qualunque, pagata la corsa, scesi velocemente dal taxi.
La mia fuga – e mi si comprenderà – fu talmente veloce che non feci in tempo a memorizzare il nome di quel taxista e nemmeno la sigla della sua auto pubblica.
Ora – e penso che la cosa sia possibile per qualche milanese – se qualcuno dei miei venticinque lettori, per caso, si è imbattuto nello stesso individuo o in qualche altro Venusiano, per favore, me lo faccia sapere.
Passata ormai da molto tempo la pur tenue paura, sono certamente più che interessato ad un secondo ‘incontro ravvicinato’.
Ma, se fosse possibile scegliere, questa volta, preferirei incontrare una Venusiana, giusto per verificare se, in qualche modo, si avvicini alla dea dalla quale deriva il nome.
Non si sa mai…
Varese, 13 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (quinta parte)
1848
Entra in funzione la legge del 1845 che prevede lo svolgimento delle votazioni in un solo giorno, esattamente “il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre”.
Si vota pertanto il 7 del penultimo mese dell’anno.
Alle urne, il settantadue e sette per cento degli aventi diritto.
Il Presidente in carica Polk mantiene l’impegno di lasciare avendo, a suo parere, raggiunto tutti gli obiettivi propostisi.
Materia del contendere, ovviamente visti i tempi, in primo luogo l’abolizione della schiavitù.
Nell’occasione il Partito Whig conquista per la seconda ed ultima volta lo scranno presidenziale.
Lo fa presentando nuovamente un Generale (William Harrison nel 1840, Zachary Taylor appunto nel 1848).
Come Harrison, Taylor muore in carica.
Per inciso, intento del partito era anche quello di promuovere un Emendamento che limitasse ad uno solo il numero dei mandati esercitabili dagli eletti ed è quello che succede visto che andando i due Capi di Stato all’altro mondo non possono certamente ricandidarsi.
Va altresì sottolineato che Taylor non ha le stigmate del partito che lo propone ma è una ipotesi valida essendo conosciuto come l’eroe della Guerra Messicana.
A tale riguardo, Henry Clay, arrabbiato per essere stato trascurato nella scelta, ebbe a dire che gli dispiaceva di non avere anche lui ucciso qualche messicano.
Il Vice che forma il ticket Whig è Millard Fillmore, un componente della Camera dei Rappresentanti.
Il Partito Democratico sceglie Lewis Cass, già Governatore, Senatore e Ministro.
Cass sconfigge nella Convention dell’Asinello che si svolge a maggio Martin Van Buren, ex Presidente alla ricerca di una ennesima Nomination.
Il vecchio boss del New York, un mese dopo, accetta di rappresentare nella corsa verso White House il neonato Free Soil Party – solidamente anti schiavista – e si propone come terzo incomodo.
Per lui, per quanto si agiti e condizioni il risultato (se i suoi sostenitori del New York avessero votato Cass, Taylor non avrebbe prevalso), i tempi sono oramai cambiati e nella giornata elettorale avrà suffragi in numero relativo, non vincerà in un solo Stato e non potrà contare su alcun appoggio al Collegio Elettorale.
Nel ticket Free Soil, un Running Mate di grande nome: nipote di John e figlio di John Quincy, Charles Francis Adams, futuro Ambasciatore USA in Gran Bretagna.
Da segnalare, ancora, che tra i politici emersi ma non affermatisi nelle diverse Convention si trova anche Jefferson Davis, dipoi Presidente dei Sudisti secessionisti.
1852
Si vota il 2 novembre e ai seggi si reca il sessantanove e sei per cento degli aventi diritto.
Gli Electors da nominare sono duecentonovantasei e pertanto è fissata a centoquarantanove la maggioranza assoluta necessaria.
Tre i partiti principali in lizza.
Il Partito Democratico e il Whig tennero le Convention a Baltimora.
Il Free Soil a Pittsburgh.
Principale ragione del contendere, ovviamente, lo schiavismo, avversato al Nord, difeso al Sud.
Fra i democratici, la lotta pare ristretta a quattro pezzi da novanta.
James Buchanan, futuro Presidente già Segretario di Stato, Lewis Cass, Senatore già candidato nel 1848, Stephen Douglas, Senatore per l’Illinois e uno dei rivali di Lincoln più avanti, nel 1860, e William Marcy, un uomo politico che aveva ricoperto e ricoprirà fino alla morte un incredibile numero di pubblici incarichi.
Dopo un numero infinito di votazioni, la scelta cade su un outsider, il già Senatore del New Hampshire Franklin Pierce.
Fra gli Whig, sconfitto in sede di Convention il Presidente uscente Millard Fillmore, battuto il grande Daniel Webster, ci si affida all’eroe di mille battaglie, in servizio fin dal 1808, il Generale Winfield Scott.
Non aveva in effetti il partito vinto due volte in precedenza presentando militari valorosi quali William Harrison (nel 1840) e Zachary Taylor (nel 1848)?
Scott sarà invero l’ultimo candidato alla Presidenza proposto dai Whig che si avviano rapidamente alla dissoluzione.
Fra l’altro, proprio nel 1852, prima delle elezioni, muoiono sia il citato Webster (e sarebbe stato un grosso problema se l’avessero scelto) che Henry Clay, le due persone che, pur non arrivando mai alla Casa Bianca, avevano reso il partito significativo sul piano nazionale.
Per inciso e visto che, allegramente, si parla di decessi, il Vice di Pierce William King morirà il 18 aprile 1853 restando quindi in carica per soli quarantacinque giorni (e all’epoca, fino all’adozione del 1967 di un apposito Emendamento, il Vice deceduto o dimissionario non veniva sostituito).
Il terzo pretendente allo scranno presidenziale è John P. Hale, Senatore del New Hampshire, per conto del Free Soil.
Catturerà solamente la metà dei voti presi da Martin Van Buren quattro anni prima e resterà a bocca asciutta sia in termini di Stati che di Elettori.
Così come Scott – come detto, l’ultimo candidato dei Whig a White House – Hale resterà l’ultimo Free Soil, visto che l’effimero partito che lo esprimeva si scioglierà nel 1854.
La vittoria di Pierce fu netta: ventisette Stati, contro i quattro andati a Scott, e duecentocinquantaquattro delegati al Collegio Elettorale contro quarantadue.
In qualche modo storicamente ‘giusto’ che Whig e Free Soil spariscano.
Due anni dopo, nel 1854, nascerà il Partito Repubblicano.
1856
Si va alle urne il 4 novembre.
Duecentonovantasei i delegati al Collegio e centoquarantanove la maggioranza da raggiungere.
Grande incremento di elettori: vota il settantotto e nove per cento degli aventi diritto, il nove e tre in più della volta precedente.
Tre i movimenti politici in lotta.
Il Partito Democratico si riunisce a Cincinnati.
L’American (emanazione del Whig e dipoi dissolto nel 1860) a Philadelphia.
Debutta il Partito Repubblicano.
Fondato due anni avanti avendo come primo punto del programma l’abolizione della schiavitù (non se ne parla mai, ma chiedeva anche che ai Mormoni fosse vietata la poligamia), il futuro GOP – verrà così denominato più avanti essendo GOP l’acronimo di Grand Old Party – si riunisce a sua volta in Convention a Philadelphia.
Incorona l’esploratore John Frémont – uomo che Maldwyn Jones definisce “di magnifico aspetto”, questa essendo a modo di vedere dello storico la sua essenza politica (!?) – che riesce a prevalere sul Giudice John McLean, sul Senatore del New York William Seward, sul Governatore dell’Ohio Salmon Chase, sull’altro Senatore Charles Sumner, del Massachusetts.
Da notare che nella corsa verso la candidatura alla Vice Presidenza un certo Abraham Lincoln viene sconfitto dal Senatore del New Jersey William Dayton!
Nell’Asinello, escluso William Marcy, in lizza gli stessi uomini politici già presenti quattro anni prima.
Stavolta, Pierce deve lasciare e alla fine prevale James Buchanan che può contare sul fatto che essendo stato negli ultimi anni Ambasciatore in Gran Bretagna non risulta coinvolto nelle lotte intestine in specie dell’ultimo biennio.
Veramente eccezionale quanto accade nel novello movimento battezzato American.
Dalla Convention esce a furore di popolo il nome dell’ex Presidente Millard Fillmore che viene nominato a sua completa insaputa visto che è in viaggio in Europa.
Tornato a giugno negli Stati Uniti, sarà obbligatoriamente un candidato di secondo piano.
Fra l’altro, per questa decisamente particolare situazione, resta nella storia USA come il primo tra i Vice Presidenti subentrati causa mortis al titolare (a fianco di Zachary Taylor nel ticket Whig nel 1848, era entrato a White House nel 1850) ripresentatosi personalmente – invero non immediatamente dopo avere lasciato lo scranno come farà inaugurando una serie Theodore Roosevelt nel 1901 – nonché il primo sconfitto tra questi.
Il risultato elettorale dice:
James Buchanan, Presidente avendo vinto in diciannove Stati e conquistato centosettantaquattro Elettori.
John Frémont – sconfitto ma certamente con onore – vittorioso in undici Sati e votato al Collegio da centoquattordici delegati.
Millard Fillmore, lontano, vincente in un unico Stato e accreditato di soli otto Elettori.
Annotazioni.
Frémont adottò un efficace slogan: “Free soil, Free speech, Free men and Frémont”.
Nel successivo 1864, non ancora decisa la Guerra di Secessione, in dubbio se riproporre Lincoln, il Partito repubblicano pensò per un attimo ancora al gagliardo esploratore che non pochi intendevano mettere in campo in luogo e vece del Presidente.
L’improvviso volgere del conflitto a favore del Nord fece rientrare tali propositi.
Quanto a Buchanan, è il solo Presidente scapolo (Cleveland lo era al momento della prima entrata a White House ma si sposò) e il più chiacchierato per le sue ‘amicizie’ particolari.
Varese, 13 dicembre 2023
La storia del mondo vista attraverso le tasse?
Certo, si può raccontarla così.
Guardiamo alla caduta degli Aztechi, alla fine del loro impero.
Sbarcato che fu, Hernan Cortes poteva contare su poco più di cinquecento uomini e per quanto questi fossero meglio armati mai sarebbe riuscito a prevalere se non appunto per le tasse.
Fatto è che gli Aztechi – come racconta William Prescott nella sua fondamentale opera ‘La conquista del Messico’ – imponevano fortissimi balzelli (oltre alla consegna di persone per i sacrifici umani) ai popoli a loro sottomessi.
Trovò quindi facilmente alleati tra quanti col suo aiuto volevano liberarsi dalle tasse!
Varese, 13 dicembre 2023
Funerali a Hollywood
Il giorno in cui Harry Cohn – mitico produttore della Hollywood degli anni d’oro a proposito del quale Orson Welles ebbe a dire:
“Aveva fegato e sapeva quello che voleva.
Non era un impostore.
Era totalmente spregiudicato.
Ammetteva di essere volgare e credo fosse anche crudele” e che sosteneva tranquillamente che il successo dei film da lui finanziati dipendeva esclusivamente dalle reazioni che aveva la parte meno nobile del suo corpo alla lettura di una sceneggiatura (“è il sedere che mi dice se un film è buono o cattivo. se mi fa male è cattivo, se non mi fa male è buono”) – fu seppellito, incredibilmente, considerando il fatto che era una delle persone più detestate nell’intera Mecca del cinema, il suo funerale vide la partecipazione di un numero pressoché sterminato di persone.
Guardando la folla che si accalcava intorno al feretro, uno dei presenti ebbe a meravigliarsi ad alta voce del fatto.
Il suo vicino, avendolo sentito, gli rispose: “Sai com’è il pubblico: dagli quello che vuole e ti riempie le sale!”
Di tutt’altro genere, invece, la reazione degli amici convenuti al cimitero per l’estremo commiato al grande regista Ernst Lubitsch così come lo ricorda Billy Wilder:
“Dopo la triste cerimonia, William Wyler ed io ci stavamo dirigendo in silenzio verso l’automobile.
Allora, tanto per rompere il silenzio, dissi: ‘Niente più Lubitsch’.
Al che, Wyler replicò:
‘Peggio.
Niente più film di Lubitsch!’”.
Senza Cohn ed altri come lui, però, né Lubitsch, né Wilder, né Wyler avrebbero mai potuto regalarci i loro capolavori.
Varese, 13 dicembre 2023
Proibizionismo (storia del), 1920/1933
In nota, una riflessione in proposito di Orson Welles
Il 16 gennaio 1920 entrò in vigore in tutti gli Stati Uniti il Diciottesimo Emendamento alla Costituzione americana, provvedimento carico di conseguenze inimmaginabili per i promotori.
Riguardava, naturalmente, il divieto alla vendita di tutte le bevande alcoliche nell’intero territorio nazionale.
Aveva così inizio il periodo del ‘Proibizionismo’.
Le legge in sé apparve allora nient’altro che il necessario coronamento sul piano federale di tutta quella serie di disposizioni, emanate già a partire dal precedente secolo da molti singoli Stati, che avevano proibito l’alcol a livello locale.
Per il raggiungimento di tale fine si erano battuti diversi movimenti tra i quali, in particolare, la ‘Anti saloon league’ e la ‘Women’s Christian Temperance Union’.
Al fine di celebrare degnamente l’Emendamento, nel gennaio del 1920 furono distribuiti in tutti gli Stati Uniti cartoncini che auguravano a uomini, donne e ragazzi ‘un felice anno asciutto’.
Il primo, immediato accadimento susseguente all’entrata in vigore della legge fu la rapina ad un camion carico di whisky scozzese.
In poco tempo, a New York, dove in antecedenza esistevano quindicimila saloon legali, sorsero trentaduemila ‘speakeasies’, come venivano chiamati i bar privi di licenza.
La nuova legge – mai fatta rispettare nella realtà – offrì grandi occasioni ai delinquenti di ogni tipo che si trasformarono rapidamente in contrabbandieri, commercianti e venditori di liquori.
Il livello più alto di asservimento al vizio fu raggiunto da Chicago.
Nel 1920, la città era in mano al capo della malavita mafiosa ‘Diamond’ Jim Colosimo, che fu, però, presto eliminato da Johnny Torrio, il quale, in soli quattro anni di dominio del traffico degli alcolici, guadagnò tanto da decidere di abbandonare il campo e di ritirarsi a vita privata.
Gli subentrò quello che diventerà rapidamente il più famoso gangster del mondo: Al Capone..
Al boss vennero attribuiti, negli anni, oltre quattrocento omicidi e lui stesso si lamentava dicendo: ‘Mi vengono accollati tutti i morti, tranne i caduti in guerra’.
Con Capone – non solamente a Chicago – al dominio della legge si era sostituito il puro esercizio del potere del più forte.
Qualche interessante dato sull’epoca.
A Chicago, tra il 1927 e il ’32, ci furono duecentoventisette assassini e nessuna incriminazione.
Nel 1925, sedicimila arresti per ubriachezza.
Nel 1927, i decessi per alcolismo aumentarono del seicento per cento rispetto al 1920.
In un solo anno di Proibizionismo gli USA consumarono novecento milioni di litri di liquore forte, tremila milioni di litri di bevande a base di malto e cinquecento milioni di litri di vino.
Fino al 1932, i dati ufficiali davano oltre duemila gangsters morti insieme a cinquecento agenti delle varie polizie.
La marea montante di protesta popolare contro tale situazione unita alle conseguenze economiche del Crollo di Wall Street, nonché la nomina a Presidente, nel 1932, di Franklin Delano Roosevelt portarono alla formulazione ed approvazione del Ventunesimo Emendamento che abrogava quello del 1920 e sconfessava definitivamente il Proibizionismo (5 dicembre 1933).
Nota
“Come tutte le culture protestanti o ebraiche, gli Stati Uniti vennero fondati sull’idea che la parola di un uomo ha un valore.
Altrimenti non saremmo potuti andare nel West, dato che era senza legge.
La parola di un uomo doveva contare qualcosa.
La mia teoria è che tutto andò in malora con il proibizionismo, perché era una legge che nessuno poteva rispettare.
In quel momento il concetto di sovranità della legge si guastò.
…
Quando la gente accetta che infrangere la legge è normale, tutta la società ne risente”.
Da ‘A pranzo con Orson Welles. Conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles’, a cura di Peter Biskind, Adelphi, 2013
Varese, 12 dicembre 2023
Frank Sinatra,
‘The voice’
Ritratto e ricordo opera di
Mattia Cavadini
per RSI
12 dicembre 2023
in coda
‘Adalgiso Sinatra’
mon petit divertissement
In ogni circostanza, era come se cantasse per la prima volta e, allo stesso tempo, per sempre, consegnando all’ascoltatore versioni sublimi delle sue canzoni.
Prendiamo come esempio il cavallo di battaglia, My Way. Ogni interpretazione che Sinatra compie, dal 30 dicembre del 1968 (allorché incise – controvoglia – la versione inglese di Comme d’habitude di Claude François, di cui l’amico Paul Anka aveva comprato i diritti) sino al 20 dicembre 1994 (quando, con My way, si congedò in lacrime davanti a quasi centomila fans), è stata vera, vibrante ed autentica.
In questa verità interpretativa c’è la grandezza impareggiabile di Blue Eyes.
Una grandezza che potremmo riassumere nell’attenzione minuziosa posta su ogni singola parola, e più in generale sul senso del testo da interpretare. All’attenzione interpretativa, si aggiungeva, ovviamente la Voce, ma andiamo con ordine
Figlio di un pompiere siciliano e di un’ostetrica ligure, emigrati da bambini nel New Jersey, Frank nacque 12 dicembre 1915 e iniziò a lavorare come giornalista sportivo, la sera cantando nei bar.
Nel 1939 esordì con l’orchestra di Harry James, il grande trombettista, e nel 1940 con quella di Tommy Dorsey, dove si accollò il ruolo di primattore.
La sua voce baritonale era dirompente, tanto che si narra che quando lui cantava la gente smetteva di ballare.
La pastosità vocale gli consentiva interpretazioni originalissime, anticipando o ritardando a suo piacimento i metri della partitura, come ad esempio in Night And Day, Stormy Weather, White Christmas o Ol’ Man River.
Il successo presso il pubblico femminile lo spinse a lanciarsi nella carriera solista, conquistando orde di fan, affascinate anche dal debutto (in quegli stessi anni Quaranta) nel cinema. L’esordio si ebbe nella pellicola Due marinai e una ragazza (dove Gene Kelly ne fece un abile ballerino), ma l’alloro fu conquistato con Da qui all’eternità (che gli valse, nel 1953, l’Oscar come miglior attore non protagonista).
Recitando in ben settanta film, la carriera cinematografica accompagnò quella canora, senza mai eguagliarla.
L’essenza di Sinatra fu la voce, una voce talmente perfetta da essere considerata un archetipo, l’incarnazione di un’idea, la sintesi di una possibilità espressiva.
Figlio della verve melodica italiana, Sinatra seppe coniugare la melodia con la lezione della musica d’Oltre Oceano (dal blues allo swing, dal pop al jazz), rivoluzionando la vocalità maschile.
La bellezza del suo canto, insieme sensuale, romantico e puro, seppe esprimere le emozioni più intense, senza mai cedere alla pura potenza o al melodramma, restando sempre dentro il ritmo.
Frutto di un precipuo equilibrio fra melodia e swing, le interpretazioni di Sinatra esprimono in modo personale ed unico la grande lezione del jazz, che gli infuse la padronanza ritmica degli accenti, degli attacchi, la durata delle note e il gioco dei fraseggi.
In sessantaquattro anni di carriera (durante i quali incise all’incirca duemila duecento canzoni, vincendo per nove volte il Grammy ed eseguendo concerti in tutto il mondo) Sinatra seppe trasformare i brani romantici degli anni Quaranta e quelli più complessi degli anni Cinquanta e Sessanta “da gradevoli espressioni di un’epoca in musiche di bellezza immortale, sonorità personale ed eterna emozione” (Chris Ingham).
C’è, infine, il capitolo dell’uomo Sinatra.
Un capitolo i cui capisaldi ruotano attorno ai temi della vanità, del narcisismo, del dongiovannismo, dei contatti, veri o presunti, con la mafia (l’FBI accumulò su di lui un dossier di oltre duemila pagine), delle controverse posizioni politiche, del suo fanatismo cattoreligioso, …
Ma è un capitolo che conta poco.
Conoscere le fragilità e le traversie dell’uomo non inficia né mina l’ascolto di capolavori quali Young At Heart, Stranger In The Night, New York New York, The Lady Is A Trump, I’ve Got You Under My Skin, o My Way.
La riprova sta nel fatto che tutti i più grandi cantanti della scena pop&rock, anche i più lontani politicamente e moralmente, hanno cantato e omaggiato Sinatra, da Bono a Dylan, da Springsteen a Vicious, da Rod Stewart e Tony Bennett, passando per i più affini Boublé, Cincotti e Robbie Williams.
Sinatra morì al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles il 14 maggio 1998, all’età di ottantadue anni.
‘Adalgiso Sinatra’
Roma.
Metà novembre.
Il bel tempo, fortunatamente, accompagna le nostre giornate.
Un’auto pubblica via l’altra.
Va bene camminare se si deve, ma insomma…
Bella gente i tassisti.
Con loro parlo volentieri.
Hanno sempre qualcosa da dire.
Eccoci domenica, verso sera, in via Veneto.
Davanti a noi, l’Excelsior.
L’anziano chauffeur fa cenno al balcone del primo piano.
“Sarà stato il 1962”, sospira.
“Ogni sera, verso le sette, Frank Sinatra invariabilmente si sistemava là sopra, si toglieva la camicia e la gettava giù.
La gente che c’era in strada a litigarsi quell’indumento!
Era la ‘Dolce vita’”.
Ed ecco che, d’improvviso, mi torna alla mente Adalgiso Raffo, zio discolo di mio nonno Gino.
Pecora nera, se mai ve ne fu, di una irreprensibile famiglia (di tutt’altra pasta i della Porta), giramondo, Adalgiso, a detta di mio padre, appariva di quando in quando in casa del nipote, narrava ai bambini di improbabili avventure parigine piuttosto che sudamericane, si sedeva molto volentieri a tavola (era lì per mangiare, invero) per dipoi velocemente migrare altrove.
Come si conviene, nel mentre dei restanti avuncoli non resta memoria, dello scapestrato molte favoleggiate imprese si rammentano e, soprattutto, del suo particolare rapporto con la camicia.
Mi assicurava papà che, alla sera, lungi dal metterla a lavare, dovunque fosse, Adalgiso, grande e anche per questo squattrinato signore, quella che aveva indosso la buttava e così sia.
Varese, 12 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (quarta parte)
1836
Si vota il 3 di novembre.
Alle urne il cinquantasette e otto per cento degli aventi diritto.
I membri del Collegio Elettorale sono duecentonovantaquattro.
La maggioranza assoluta è pertanto fissata a centoquarantotto.
Quanto ai democratici, il Presidente Andrew Jackson decide (come i predecessori Washington, Jefferson, Madison e Monroe che si erano venuti a trovare nella stessa situazione) di non chiedere un terzo mandato e si ritira indicando come successore il Vice Presidente, con lui nel secondo quadriennio, Martin Van Buren che ottiene facilmente l’investitura.
Nato da pochi anni – nel 1833 – ma già organizzato, il Partito Whig propone per la Casa Bianca la bellezza di quattro diversi candidati.
L’intento è quello di arrivare ad un risultato uguale a quello del 1824 allorquando nessuno aveva raggiunto la prescritta maggioranza di Elettori e la decisione era passata, secondo il disposto costituzionale, alla Camera.
I prescelti sono
Il generale William Harrison, già Senatore dell’Ohio
Hugh Withe, Senatore del Tennessee
Daniel Webster, Senatore del Massachusetts
Willie Person Mangum, Senatore del North Carolina.
Il piano Whig non arriva a buon fine perché Van Buren si afferma in quindici Stati e conquista centosettanta voti al Collegio Elettorale.
I quattro Whig si classificano nel seguente ordine
Harrison, sette Stati e settantasette Elettori
White, due Stati e ventisei delegati nazionali
Webster, uno Stato e quattordici voti elettorali
Mangum, uno Stato e undici membri del Collegio.
Degno di nota il fatto che nella circostanza il Partito Antimassonico, avviato alla dissoluzione, in due diverse Convention, prima si era dichiarato sostenitore di Harrison e poi aveva rinunciato a presentare un proprio candidato.
Da segnalare – sarà quattro anni dopo il Vice Presidente eletto e subentrerà nel 1841 alla Casa Bianca – che ben due dei candidati Whig (precisamente, White e Mangum) proponevano in questo 1836 come proprio Running Mate John Tyler.
Accadimento unico nella storia delle presidenziali USA quello che concerne il futuro Vice Presidente di Van Buren Richard Mentor Johnson: è difatti il solo Vice non eletto dai Elettori nel Collegio ma dal Senato.
Non avendo egli raggiunto il numero necessario dei suffragi dei delegati nazionali fu nominato – secondo il disposto costituzionale come detto in questa unica occasione applicato – dalla Camera Alta a quel momento dominata dai suoi compagni di partito.
Van Buren è il primo Presidente realmente ‘americano’ essendo nato dopo la Dichiarazione di Indipendenza.
1840
Si vota per la Presidenza per la quattordicesima volta.
I seggi sono aperti dal 30 ottobre al 2 dicembre.
Aumento vertiginoso del numero dei votanti che arrivano addirittura all’ottanta e due per cento degli aventi diritto.
I componenti il Collegio Elettorale da eleggere sono duecentonovantaquattro.
La maggioranza assoluta è fissata quindi a centoquarantotto.
Il Partito Democratico, riunito a Baltimora, opta per la conferma del Presidente uscente Martin Van Buren.
Nascono problemi quanto alla figura del possibile Running Mate, tanto che il Vice in carica Richard Johnson – peraltro già arrivato a ricoprire il ruolo in modo particolare, come narrato – non viene riproposto.
Alla fine, nessuno sarà candidato dai democratici alla Vice Presidenza e gli Elettori dell’Asino si divideranno optando per lo stesso Johnson, per l’ex Governatore della Virginia Littleton Tazewell, per l’allora Governatore del Tennessee James Knox Polk.
Il Partito Whig – assai più agguerrito rispetto alla tornata del 1836 – cambia strategia e punta su un solo uomo: il generale ed ex Senatore dell’Ohio William Harrison, colui che aveva ottenuto quattro anni prima i migliori risultati in termini di voti popolari e di Stati conquistati.
Il risultato è favorevole proprio ad Harrison che conquista diciannove Stati e duecentotrentaquattro Elettori.
Il rivale – sonora sconfitta per un Capo dello Stato uscente – deve accontentarsi di sette Stati e di sessanta membri del Collegio.
Va ancora segnalata la candidatura di James Birney per il neo costituito Liberty Party, movimento antischiavista.
Annotazioni.
Le elezioni del 1840 si segnalano per molte stranezze e primati.
Harrison sarà fino al Reagan del 1980 il più vecchio Presidente eletto (aveva sessantasette anni da un pezzo) e il più vecchio a giurare (aveva sessantotto anni compiuti).
Lo stesso, sarà il primo Presidente USA a morire in carica: il 4 aprile 1841 esattamente trentadue giorni (record della più breve permanenza a White House) dopo la cerimonia dell’insediamento – tenutasi il 4 marzo 1841 – muore di polmonite.
La morte di Harrison dà il via alla cosiddetta ‘Maledizione dell’anno zero’.
Dal 1840 al 1960, infatti, tutti i Presidenti eletti o confermati in un anno con finale zero muoiono in carica.
Nell’ordine, dopo il pluricitato Harrison, Lincoln (vincitore nel 1860), Garfield (eletto nel 1880), McKinley (confermato nel 1900), Harding (vittorioso nel 1920), F. D. Roosevelt (riconfermato anche nel 1940), Kennedy (eletto nel 1960).
Se si guarda al risultato del voto nel Collegio Elettorale, incredibilmente, si trovano tra quanti hanno riportato suffragi ben quattro tra Presidenti in carica e futuri:
William Harrison, Presidente eletto
Martin Van Buren, Presidente uscente e sconfitto
John Tyler, Vice di Harrison e di lì a poco suo successore mortis causa
James Polk, nel 1844 in corsa e vittorioso, che riceve un voto come Vice Presidente.
1844
Si vota dall’1 novembre al 4 dicembre ed è l’ultima volta nella quale i seggi restano aperti più di un giorno.
Gli Elettori sono duecentosettantacinque e la maggioranza assoluta è di centotrentotto.
Si tratta di una delle tornate elettorali per la Presidenza USA più interessanti specie per quanto riguarda la Nomination democratica.
Il prescelto (e vedremo come), James Polk fu il primo ‘dark horse’ ad arrivare alla candidatura per la Casa Bianca.
L’espressione ‘dark horse’ indicava nelle corse dei cavalli il vincitore inaspettato, l’outsider che, contro ogni previsione, si impone.
I temi politici più importanti in ballo riguardavano l’espansione degli USA, la possibile entrata del Texas nell’Unione, i contrasti con il Messico, la questione relativa alla schiavitù, molto complessa perché gli Stati in pectore erano, Texas in primo piano, favorevoli al mantenimento della stessa.
Sconfitti quattro anni prima, i democratici speravano di riconquistare White House e il loro candidato di punta era, per la terza volta Martin Van Buren (già Vice di Jackson nel secondo mandato, Presidente nel 1837 a seguito delle votazioni dell’anno prima, battuto dal Whig Harrison nel 1840).
All’epoca – e sarà così nel campo dell’Asinello fino alla Convention del 1936 – la Nomination andava al pretendente in grado di ottenere il consenso dei due terzi del delegati alla Convenzione.
Van Buren aveva con sé la maggioranza ma non quella qualificata richiesta.
Le contrapposizioni interne al Partito Democratico vennero presto in luce e la forza dell’ex Capo dello Stato andò diminuendo mentre i delegati degli Stati del Sud tiravano fuori dal cilindro il nome dell’ex Vice e allora Segretario di Stato John Calhoun, mentre altri votavano Lewis Cass, un vecchio Ministro della Guerra, e altri ancora l’a sua volta già Vice Presidente Richard Johnson.
Tra quelli dei molti litiganti, non compariva il nome dell’ex Governatore del Tennessee già Speaker della Camera James Knox Polk.
Reduce da un paio di dolorose sconfitte elettorali e per questo in secondo piano, Polk operava per conquistare la candidatura alla Vice Presidenza.
Era, peraltro, personalmente favorevole alla immediata annessione del Texas (per la quale operava il Presidente Tyler) che veniva invece avversata da Van Buren e compagnia.
Fu in ragione di questa sua apertura all’espansione della Federazione che ottenne il fondamentale appoggio dell’ex Capo dello Stato Andrew Jackson, in un primo momento favorevole a Calhoun ma poi suo sostenitore.
Non arrivò, come voleva, Polk alla candidatura come Running Mate ma, alla nona votazione, a quella per la Presidenza.
Dal canto loro, i Whig – fuori gioco Tyler, del resto mai realmente dei loro e per un qualche momento intenzionato a candidarsi come leader di un terzo partito – riuniti a Baltimora, scelsero Henry Clay, uomo di grande esperienza che aveva ricoperto praticamente tutti ruoli e che si presentava per la terza volta in lizza per la Casa Bianca.
Non trascurabili storicamente le altre due candidature ‘minori’.
James Birney, in rappresentanza per la seconda volta del Liberty Party, non andò affatto male e molti ritengono che, se non fosse stato in competizione, Clay avrebbe battuto Polk nel New York e sarebbe approdato finalmente all’agognato scranno presidenziale.
Joseph Smith – il fondatore della Chiesa Mormone – fu altresì in corsa in quel 1844.
Il suo impeto fu però spento il 27 giugno allorquando fu ucciso da un gruppo di facinorosi a Carthage, Illinois.
Quale l’esito finale?
Il democratico vinse in quindici Stati ed ottenne centosettanta voti al Collegio Elettorale.
Clay prevalse in undici Stati con centocinque suffragi nel medesimo Collegio.
Considerato il fatto che il New York contava su trentasei delegati…
Varese, 12 dicembre 2023
Cinema e letteratura americana:
James Cain, Raymond Chandler, Billy Wilder: ‘La fiamma del peccato’, un capolavoro
Un agente d’assicurazione diventa l’amante di una donna e, su sua istigazione, complice nell’assassinio del di lei marito per riscuotere la polizza sulla vita del defunto.
Finale tragico, come si conviene.
La novità, nella un tempo celebratissima (per fare un solo esempio, Woody Allen, una quarantina di anni orsono, ne parlava come del “miglior film di chiunque”) ma, a ben guardare, oggi, in qualche modo ‘datata’, pellicola di Billy Wilder – intitolata in originale ‘Double Indemnity’ – è che a compiere il delitto non sono dei malfattori ma persone del tutto o quasi ‘normali’.
Semplici borghesi, non criminali professionisti.
Altrettanto innovativo il fatto che a scoprire i colpevoli sia il miglior amico (detective al soldo della compagnia di assicurazione) del protagonista/omicida, controvoglia e malinconicamente perché gli vuole bene.
Tutto il contrario del solito, normale (in specie per quei tempi) e prevedibilissimo ‘trionfo della Giustizia’.
Il romanzo dal quale era stato tratto il film era opera del grande James Cain – per intenderci, autore anche del celeberrimo ‘Il postino suona sempre due volte’.
Wilder lo aveva letto senza riuscire ad interrompersi, tanto risultava avvincente, dopo averlo strappato dalle mani di una segretaria che per finirlo era arrivata a trascurare il proprio lavoro chiudendosi in bagno con il libro in mano.
Non potendo, a causa di altri impegni, Cain aiutare Wilder nella stesura della sceneggiatura, questi si
rivolse per la bisogna al famoso esponente della Hard Boiled School ed inventore del personaggio di Philip Marlowe Raymond Chandler chiamato così alla sua prima prova a Hollywood.
I due, spesso in conflitto tra di loro, discutendo in continuazione, impiegarono addirittura sei mesi per portare a termine il lavoro.
Se fu poi facile al regista trovare la protagonista femminile giusta (una magnifica Barbara Stanwiyck, ‘dark lady’ con un braccialetto alla caviglia, ‘alla schiava’ come si diceva una volta), quasi impossibile fu scovare quello maschile perché nessuno dei divi di allora anelava a comparire sullo schermo nello sgradevole ruolo dell’assassino.
Alla fine, pressoché obbligato dalla Casa di produzione con la quale era sotto contratto, accettò Fred MacMurray, in tal modo ‘punito’ (tra virgolette) per alcune precedenti intemperanze da star.
Fra i due le cose funzionarono bene tanto che il regista si ricorderà di MacMurray anni dopo e lo chiamerà per affidargli il ruolo dello spregevole coprotagonista dello splendido ‘L’appartamento’
‘Double Indeminity’ collezionò sei candidature all’Oscar senza vincerne neanche uno.
Nel corso della cerimonia per la consegna delle statuette, Wilder, imbufalito per non avere ricevuto alcun premio, seduto come era ai lati del corridoio che percorrevano i vincitori per andare sul palco, vedendo passare un festante Leo McCarey da un istante proclamato ‘miglior regista’, gli fece lo sgambetto provocandone la rovinosa caduta.
Varese, 12 dicembre 2023
11 settembre, i precedenti cinematografici
Nel ‘dopo attentati’ del settembre 2001, all’affannosa ricerca di romanzi o film nei quali fosse possibile rinvenire un precedente letterario o cinematografico del terribile attacco alle due torri del World Trade Center, i media hanno dimenticato due pellicole (lontane, per il genere, dai film catastrofici) che, bene o male, avevano prefigurato la distruzione di veri e propri simboli della nostra civiltà.
La prima in ordine di tempo è ‘La pantera rosa sfida l’ispettore Clouseau’, del 1976, per la regia di Blake Edwards.
Qui, a saltare per aria è niente meno che il palazzo dell’ONU, distrutto dall’ispettore capo Dreyfuss, il quale, ossessionato dal desiderio di eliminare Clouseau/Peter Sellers, fonda addirittura ‘un impero del male’.
Naturalmente, sarà lui a perdere la partita.
La seconda – del 1978, diretta da Jack Gold – è il bizzarro ma coinvolgente ‘Il tocco della medusa’.
Un Richard Burton intenso e misurato è l’avvocato/scrittore Morlar, un uomo ‘capace di provocare catastrofi’.
Per provarlo al proprio psicoanalista, con la sola forza della mente, costringe un aereo di linea a schiantarsi, guarda caso, su un grattacielo.
Centinaia di morti.
L’avvocato Morlar causava tragedie ma non si può certo dire che il film del quale era protagonista portasse bene.
Nel giro di pochi anni, tutti e quattro i principali interpreti sono morti prematuramente.
Per la storia: Richard Burton, Lino Ventura, Lee Remick, Harry Andrews.
Varese, 12 dicembre 2023
Cavalli della Grande Mela
Siamo a New York e corre il 1880.
In città, all’incirca centocinquanta mila cavalli.
Non è forse il cavallo a vent’anni da fine Ottocento, se non l’unico, il mezzo più facile e disponibile per spostarsi?
Ora, ogni nobile destriero (anche quello non nobile, in verità) ‘produce’ mediamente dieci chili di sterco al giorno.
Dove metterlo?
Lo si accumulava.
Al punto tale che un quotidiano annunciò che presto in qualche zona cittadina le feci equine avrebbero raggiunto il terzo piano delle case. Conseguenze serie per la salute (anche per via dei molti cavalli morti le cui carcasse venivano lasciate in giro a marcire), tanto che si arrivò a contare all’incirca venti mila decessi l’anno per le derivanti malattie.
(Parliamo di New York ma non è che altrove le cose andassero meglio, salvo laddove, essendo minore il totale dei cittadini, meno numerosi erano i cavalli).
Tavole rotonde, congressi, ricerche, grandi urbanisti impegnati, non portarono da nessuna parte.
Non si poteva impedire alla gente di spostarsi, alle merci di circolare, per necessità, ai cavalli di lavorare al servizio dell’uomo.
Nessuna soluzione possibile…
Nessuna neppure immaginabile…
Si sarebbe detto, ma a quegli stessi tempi per fortuna qualcuno stava pensando a un veicolo a motore.
Quanti saranno oggi i cavalli a New York e dove finisce il loro sterco, viene a questo punto da chiedersi?
Varese, 11 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (terza parte)
1824
La più interessante, tempestosa e ricca di conseguenze tra le cinquantanove tornate elettorali nell’intera storia degli Stati Uniti d’America, quella datata 1824.
I seggi furono aperti dal 26 ottobre al 2 dicembre.
Tutti e quattro i candidati alla fine (alla fine, perché altri due si ritirarono prima del voto: il Ministro della Marina Smith Thompson e quello della Guerra John Calhoun) in corsa appartenevano al Partito Democratico-Repubblicano.
Il georgiano William Crawford – fra l’altro, designato a succedergli dall’uscente James Monroe nel cui gabinetto era Segretario al Tesoro – era stato scelto in una riunione partitica il cui esito non era piaciuto a molti.
Nacque così la candidatura alternativa del Segretario di Stato in carica John Quincy Adams.
Nel contempo, il Parlamento del Kentucky propose per lo scranno lo Speaker della Camera Henry Clay.
Per finire, il Parlamento del Tennessee indicò quale proprio candidato il generale Andrew Jackson, eroe di mille battaglie e fino a quel momento estraneo all’agone politico.
Terminato lo spoglio delle schede, il Collegio Elettorale risultò composto da novantanove Elettori legati a Jackson, da ottantaquattro vicini a J.Q. Adams, da quarantuno connessi a Crawford e da trentasette seguaci di Clay.
Essendo duecentosessantuno gli Elettori, nessuno si era neppure avvicinato alla maggioranza assoluta richiesta di centotrentuno.
Come disposto dal XII Emendamento del 1804, la scelta (è questa l’unica volta nella quale il testo al riguardo del citato Emendamento ha trovato attuazione dato che l’apparente precedente del 1800 già trattato è occorso ovviamente prima del 1804) fu demandata alla Camera dei Rappresentanti che il 9 febbraio 1825 si pronunciò a favore di Adams avendo Clay (quarto classificato e pertanto escluso secondo il disposto costituzionale che imponeva il ballottaggio solo tra i tre più votati) dirottato sul Ministro degli Esteri gli Elettori che controllava.
In contropartita, nel futuro gabinetto, la medesima poltrona degli Esteri.
Seguirono contestazioni a non finire ad opera di Jackson e quattro anni di furiose lotte e contrapposizioni.
Dalla spaccatura provocata dall’esito della votazione Camerale, in crisi profonda i democratici-repubblicani, nacque il Partito Democratico.
Per inciso, Vice di J.Q (il Presidente che nella storia ha catturato percentualmente il minor numero di voti popolari: solo il trenta e novantadue per cento) sarà John Calhoun.
Occorre in questo frangente parlare anche della precocemente dissolta candidatura come Vice dell’ex grande Segretario al Tesoro Albert Gallatin.
Costui era in verità nato nel 1761 a Ginevra, nell’attuale Svizzera (Ginevra entrerà nella Confederazione nel 1815).
Essendo venuto al mondo prima della Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio 1776, poteva aspirare alla carica presidenziale come a quella vice presidenziale anche non potendo contare sulla cittadinanza americana dalla nascita, requisito evidentemente non proponibile nei primi decenni di esistenza dell’Unione.
Annotazioni.
Nato ed ‘allevato’ per la Presidenza come nessuno mai prima o dopo di lui, John Quincy Adams la conquistò nel 1824 al termine della contrastatissima campagna elettorale sopra descritta.
Quello citato è l’unico caso nel quale un candidato sia arrivato alla Presidenza avendo perso sia per voti popolari che per ‘voti elettorali’.
In quattro diverse occasioni, invece, lo sconfitto, a livello nazionale, per voti popolari ha ottenuto un numero maggiore di delegati così da risultare eletto.
Eccole: nel 1876, Rutherford Hayes; nel 1888, Benjamin Harrison; nel 2000, George Walker Bush; nel 2016, Donald Trump.
Tutti e quattro repubblicani!
Per inciso, J. Q. A. fu il primo figlio o discendente o coniuge di un Presidente a cercare di percorrere la stessa strada del padre o dell’avo o del marito (qui il riferimento è evidentemente a Hillary Rodham Clinton) arrivando alla Nomination.
Dopo di lui, Benjamin Harrison nipote di William Harrison, George Walker Bush figlio di George Herbert Bush e la or ora citata Hillary.
Q. A., il secondo Harrison e il secondo Bush sono riusciti nell’intento.
Non così la Signora Clinton.
In questo ambito, va altresì ricordata la ripetuta e vana candidatura nelle fila repubblicane tra gli anni Quaranta e i primi Cinquanta del Novecento del Senatore Robert Taft, figlio del Presidente William Taft, costantemente respinto dal GOP in sede di Primarie o di Convention.
1828
Nel 1828 si vota dal 31 ottobre al 2 dicembre e il Collegio è formato da duecentosessantuno Elettori.
La maggioranza da raggiungere è pertanto centotrentuno.
Il Partito Democratico neo costituito (per quanto abbia assunto ufficialmente tale denominazione solo dal 1844) propone il generale Andrew Jackson, come visto già primo ma non eletto quattro anni avanti.
Con lui nel ticket John Calhoun.
È questa l’unica volta nella quale un Vice Presidente in carica si presenta come Running Mate dello sfidante del Presidente con il quale governava.
Con il Presidente uscente e in cerca di conferma John Quincy Adams, corre per il ruolo vicario Richard Rush.
L’esito in termini di voti fu il seguente:
Andrew Jackson vinse in quindici Stati conquistando centosettantotto delegati al Collegio;
Q. Adams prevalse in nove Stati e ottenne ottantatre Elettori.
Per inciso, per la prima volta il Presidente non era un virginiano né un cittadino del Massachusetts.
L’entrata in carica il 4 marzo 1829 di Jackson segna il definitivo tramonto della generazione – quella definibile della aristocrazia terriera – che aveva ideato e realizzato (se così vogliamo dire) gli Stati Uniti e l’avvento delle emergente non certamente ancora strutturata borghesia.
Annotazioni.
Lo Spoils System
Una particolare forma di lottizzazione politica è propria degli Stati Uniti e segna ancora profondamente ogni cambio di amministrazione: si tratta dello Spoils System.
All’origine del nome, una frase pronunciata da William L. Marcy, fidatissimo luogotenente del Presidente Andrew Jackson, poco dopo l’insediamento di quest’ultimo alla Casa Bianca (4 marzo 1829).
Marcy, alla ricerca di una giustificazione logica alla pratica messa in atto dalla nuova amministrazione di premiare i sostenitori politici con incarichi pubblici, disse di “non vedere niente di male nel principio che le spoglie dell’avversario appartengano al vincitore.”
E, d’altra parte, lo stesso Jackson sostenne pubblicamente che l’avvicendamento nelle cariche era “un principio fondamentale per il repubblicanesimo” e che la conseguenza di un simile operare sarebbe stata positiva.
I funzionari, diceva, devono essere periodicamente sostituiti per impedire la corruzione, per evitare la formazione di una burocrazia inamovibile e per consentire a un maggior numero di cittadini di partecipare alla vita pubblica.
Secondo Jackson, chiunque può ricoprire un incarico pubblico visto che i compiti sono “talmente semplici e chiari che qualsiasi persona intelligente può facilmente svolgerli.”
A ben vedere, il vero inventore dello Spoils System – prima ancora che così venisse denominata – era stato uno dei Padri della Patria, Thomas Jefferson.
La pratica dello Spoils System è ancor oggi diffusa anche se la Corte Suprema, nel 1976, giudicando nella controversia ‘Elrod v. Burns’, ha dichiarato inammissibile il licenziamento esclusivamente per ragioni di carattere politico.
Una parziale riforma del sistema, in seguito, ha introdotto criteri più meritocratici nel ‘civil service’.
1832
Nel 1832, i seggi elettorali furono aperti il 2 novembre e si chiusero il 5 dicembre.
I membri del Collegio Elettorale erano duecentottantasei e la percentuale dei votanti arrivò al cinquantacinque e quattro per cento degli aventi diritto.
Quattro i candidati principali.
Il Presidente uscente Andrew Jackson (con un differente aspirante alla Vice Presidenza, e ce ne occuperemo fra poco) per i democratici.
Henry Clay – già invano in corsa nel 1824, già Speaker della Camera e Segretario di Stato – per i Repubblicani Nazionali.
Il Governatore della Virginia John Floyd in rappresentanza del Nullifier Party, nato nel 1828 per iniziativa di John Calhoun e impegnato nelle lotte per l’abrogazione della schiavitù e i diritti degli Stati.
William Wirt per il Partito Antimassonico allora in auge (anche di Wirt, per le implicazioni concernenti la ‘nascita delle Convention, ci interesseremo più avanti).
L’esito elettorale vide Jackson prevalere in sedici Stati e conquistare duecentodiciannove Elettori.
Clay vinse in sei Stati e ottenne quarantanove delegati nazionali.
Floyd riportò un solo Stato e ebbe con sé undici membri del Collegio suddetto.
Wirt si affermò anch’egli in un solo Stato raccogliendo sette voti elettorali.
Annotazioni.
Van Buren sostituisce Calhoun
La conferma di Andrew Jackson nel 1832 non fu affatto rose e fiori.
Già da un paio d’anni, difatti, il generale si trovava in disaccordo – a dir poco – con l’autorevole Vice Presidente John Calhoun.
Questioni di vasta portata: quella sull’abrogazionismo in prima linea.
Questioni altresì al limite del pettegolezzo ma non trascurabili per i conseguenti contrasti: varie consorti dei Ministri facenti parti del Governo Jackson in fiera contesa tra loro.
La conseguenza?
Come raramente accaduto in una campagna elettorale nella quale il Capo dello Stato in carica cerca una conferma, il Vice Presidente viene sostituito.
In luogo del predetto Calhoun, Martin Van Buren, già Segretario di Stato e uomo di particolare influenza.
Per inciso, in sede di Collegio Elettorale, senza che la nomina di Van Buren fosse messa in bilico, trenta voti per la Vice Presidenza andarono all’ex Segretario alla Guerra William Wilkins.
La prima Convention.
Fu in vista delle votazioni fissate al novembre 1832 che il Partito Antimassonico – allora, per qualche verso, in auge – decise di scegliere il proprio candidato a White House attraverso una Convention convocata in quel di Baltimora.
Dalla kermesse, uscì vincitore William Wirt, già Procuratore Generale con James Monroe e J. Q. Adams, che nelle indicate votazioni otterrà all’incirca l’otto per cento del voto popolare, vincerà in un solo Stato e catturerà sette Elettori.
Fatto è, però, che subito dopo gli altri partiti adottarono le Convention che, come ben sappiamo, ancora oggi concludono l’iter di Caucus e Primarie.
Varese, 11 dicembre 2023
Mary McCarthy, Lillian Hellman e George Orwell (ma non era Britannico?)
Gentile come sempre (per carità!), parlando di George Orwell dopo la sua dipartita, Mary McCarthy – autrice del buon romanzo di iniziazione generazionale femminile ‘Il gruppo’ ed esempio preclaro di intellettuale organico alla sinistra, donna tutto pepe (della scrittrice e drammaturga Lillian Hellman disse che in quanto narrava di sé e della da lei vantata opposizione al Maccartismo “perfino le virgole erano false!”) – scrisse che, visto che se l’autore di ‘1984’ fosse vissuto si sarebbe certamente spostato a destra, era stato “per lui un bene morire prima”.
Meglio morto, dunque, che di destra!
Varese, 11 dicembre 2023
Paul Auster svela quale sia il peso del fumo
Fra tutti i film (invero, in specie francesi, visto che appunto la Francia è sembrato a lungo essere rimasto l’ultimo rifugio dei fumatori) nel quali il tabacco la fa da padrone, il più interessante rimane per me ‘Smoke’, pellicola ricavata nel 1995 da un racconto dello scrittore nuovaiorchese di adozione Paul Auster da lui stesso sceneggiato per il regista cino americano Wayne Wang.
Protagonisti, i clienti abituali di un simpatico tabaccaio interpretato in maniera straordinaria da Harvey Keitel.
Fra i tanti, lo scrittore in crisi William Hurt cui si deve, all’inizio del film, il racconto di un simpatico aneddoto nel quale si spiega come sia possibile ‘pesare il fumo’.
Ai tempi della regina Elisabetta I, il tabacco fu introdotto in Inghilterra da Sir Walter Raleigh che lo fece conoscere anche a corte.
Un giorno, il baronetto scommise con la sovrana che avrebbe pesato il fumo del sigaro che stava per assaporare.
Vinse usando il seguente espediente: messo sul bilancino il sigaro prima di accenderlo, lo fumò stando ben attento a raccogliere tutta la cenere in un recipiente.
Alla fine detrasse il peso della cenere da quello del sigaro.
La differenza era necessariamente ‘il peso del fumo’!
Varese, 11 dicembre 2023
Beat Generation
“Siamo morti tutti, non ricordi?”
di Federica Maria della Porta Rodiani Carrara Raffo
“Fa caldo fuori, forse siamo a Tangeri, non lo so.
Un soffio di vento gioca con le tende di lino della stanza del vecchio Bull Lee.
Ha un libro aperto sulle ginocchia, probabilmente è Shakespeare, oppure Dante.
Oggi parliamo dell’Inferno, o dei cattivi del Re Lear, gli piace fare lezione.
Del resto dopo Harvard e chi lo sa che altro, non possiamo che ascoltarlo affascinati.
Sono un povero ragazzo irlandese ignorante, ma imparo alla svelta e sto scrivendo qualcosa…
In forno una torta all’oppio, ne aspiro l’odore dolciastro mentre cerco di sbirciare nell’altra stanza.
Sento voci e risate smorzate dalla musica jazz: un uomo o una donna, non so, dipende dalla luna di William, probabilmente preferisce gli uomini, con me non ci ha mai provato, che scherzi?
Se lo facesse gli tirerei un destro nello stomaco.
Will è figlio di ricconi borghesi, la sua famiglia ingessata e conservatrice lo mantiene, basta che non si avvicini troppo alla villa, alla bella mamma ingioiellata e alle sue amiche del tè delle cinque.
Non capiscono quanto sia un genio, non sanno che dopo Walt c’è Old Bull Lee, ma non posso parlarvi di Whitman, diavolo, ci vorrebbe un’enciclopedia intera per lui, per i francesi Maledetti, per il piccolo Rimbaud…
Solo che Bill e il bianco Walt hanno tanto in comune: sanno scrivere partendo dalle viscere, non usano le mani, la penna, la macchina da scrivere, ma l’ispirazione diretta.
Non c’è rima nelle poesie del primo, non c’è apparente logica nella prosa del secondo, un fiume incosciente di pura mente al lavoro: entrambi sono selvaggi, attaccati alla loro terra, alla strada, al viaggio, all’amore e a quella sete di sapere senza freni.
Ma William forse è andato troppo oltre, non so se posso parlarne con tutto l’alcol che mi circola in corpo e di fronte a lui che sfoglia il libro sussurrando parole che non comprendo, sarà latino…
Beh insomma, William ha visioni, ha un contatto diretto con lo spirito dei grandi del passato: William è la Tigre di Blake, è lo Spleen di Baudelaire: ‘Tigre, Tigre …In quali abissi o in quali cieli accese il fuoco dei tuoi occhi? Sopra quali ali osa slanciarsi? E quale mano afferra il fuoco?’
Ma poi in Messico qualcosa è andato storto, qualcosa nella sua testa non ha fatto clic e Will ha giocato al Guglielmo Tell con Joan e lei è morta.
Non ne vuole parlare, nemmeno del figlio che vive con i suoi, chissà…
Chi rideva nell’altra stanza si avvicina barcollando verso di me: gli occhi chiari rovinati dal troppo whisky di dubbia qualità, le mani grosse, da lavoratore bretone del Massachussetts che tremano visibilmente, nascoste nelle tasche lise, l’andatura incerta.
Mi sorride, si passa una mano nei capelli neri impomatati e schiocca le dita a ritmo di bebop, ma a chi vuole darla a bere?
Un sorriso può mostrare i denti, ma non la gioia che in realtà non c’è più.
Mi fa piacere rivederlo anche se non so come mai ci ritroviamo tutti qui, lo ripeto, non sono in possesso di tutte le mie capacità cognitive, so però che Jack stava meglio quando era in giro con me, che ora beve per essere felice, dice, ma in realtà va sempre più a fondo.
Sulla strada, noi lì stavamo alla grande…
Una macchina veloce, l’orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada.
Dopo i nostri folli e matti viaggi in giro per il Paese, Jack ha scritto, giorno e notte per tre settimane su un rotolo, un pidocchioso rotolo di carta di tappezzeria credo, forse della sua casetta di Lowell, o carta per telescrivente chisseloricorda mah, fatto sta che poi quel favoloso romanzo è diventato un manifesto e tutti a inseguirlo, a osannarlo e tutti a dire che lui era il padre della Beat Generation e poi di quegli altri capelloni con i fiori che sono venuti dopo che sicuramente erano stati più colpiti dal Baba di Ginsberg e non da noi, dalla nostra strada, dalla benzedrina, le donne e il cielo sconfinato di prati e asfalto colloso che pareva finire nel cielo nero.
Questo è stato l’inizio della disfatta, non tutti siamo pronti per quello no?
Notorietà, allontanamento dalla vera libertà e così sua madre se l’è ripreso e l’alcol gli ha maciullato il fegato sotto il sole umido della Florida.
Il Grande Jack a marcire in Florida come un banalissimo vecchio yankee di quarantasette anni…
Ma io non c’ero già più, eppure ne sto parlando e lo so e come faccio a saperlo mi crea confusione e un gran mal di testa…
E faccio prima a stare zitto che di sicuro mi sbuca Carlo Marx dalla cucina di questo appartamento in cui sto sprofondato in poltrona.
E’ lui che si fa una canna di là.
Jack lo chiamava così: un comunista da consegnare a quel caprone di MC Carthy con le sue streghe e i roghi nei tribunali, altro che portarselo dietro alle feste, nei bar, nelle librerie, dico io.
Ma scherzo, Allen era poesia pura, era ribellione e l’angelo bianco della nostra sgangherata compagnia, mi ha sempre amato e voluto ma ha saputo rispettare il mio no.
E’ lui, infatti, lo sento salmodiare, ritorna ai suoi versi, suonano aspri, mi pare quasi di udirli per la prima volta:
Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi all’alba per strade di negri in cerca di una siringata rabbiosa di droga, hipster aureolati bramare l’antico contatto paradisiaco con la dinamo stellata nel macchinario della notte.
Ma bussano alla porta, vengo bruscamente riportato alla realtà.
Bill appoggia il libro, apre alla moglie che entra salutandoci con due borse della spesa alle braccia.
E’ Joan, non è possibile.
‘Neal, piantala di impallidire ogni volta.
Siamo morti tutti, non ricordi?’”
Varese, 10 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016 (seconda parte)
1800
È quella datata 1800 una delle tornate elettorali più interessanti, e vedremo fra poche righe il perché.
Si votò dal 31 ottobre al 3 dicembre (ricordo che è solo dal 1848 che gli USA vanno alle urne per la scelta degli Elettori che dipoi compongono il Collegio Elettorale il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno coincidente col bisestile).
Essendo allora sedici gli Stati, i predetti Elettori erano in totale centotrentotto.
I federalisti riproposero il Presidente uscente John Adams.
I democratici repubblicani candidarono il Vice Presidente Thomas Jefferson.
Per un errore al quale fu posto rimedio con un successivo Emendamento, all’epoca non si distinguevano le candidature alla Presidenza da quelle alla Vice Presidenza, non esisteva il ticket (la qual cosa poteva altresì portare, come nel precedente 1796, alla elezione alle cariche di esponenti di due diversi partiti, con evidenti problemi in particolare in caso di successione).
Prevalendo nettamente in termini di voti popolari i democratici repubblicani, Jefferson – che aveva vinto in nove Stati contro i sette andati ad Adams – per uno scherzo del destino, si trovò ad avere lo stesso numero di Elettori, settantatre, di Aaron Burr, suo compagno di partito, teoricamente ma non ufficialmente, in corsa per la Vice Presidenza.
Come previsto dal dettato costituzionale, l’elezione (accadde dipoi solo un’altra volta, nel 1824 in circostanze comunque diverse) fu decisa dalla Camera che arrivò alla determinazione solo al trentaseiesimo ballottaggio – ovviamente, votandosi, secondo il disposto, per Stati, quelli a maggioranza federalista, in opposizione a Jefferson, si esprimevano per Burr – il 17 febbraio 1801 (rammento che all’epoca e fino al 1937 si entrava in carica il 4 marzo dell’anno successivo a quello elettorale).
Determinante per superare l’impasse, l’appoggio a Jefferson di Alexander Hamilton.
L’esito del predetto ultimo ballottaggio:
dieci Stati per Jefferson
quattro Stati per Burr
due sostanzialmente astenuti.
Annotazioni.
Nel successivo 1804, Aaron Burr ucciderà in un duello alla pistola Alexander Hamilton.
Il confronto ebbe luogo l’11 luglio nel New Jersey, appena al di là del confine con il New York dove il duello era proibito.
Hamilton morirà il giorno dopo.
Burr resta l’unico Vice Presidente in carica (era tale al momento del tragico fatto) ad avere ucciso un rivale – e comunque una persona – nel mentre esercitava il mandato.
1804
I seggi restano aperti dal 2 novembre al 5 dicembre.
Gli Elettori sono centosettantasei e la maggioranza assoluta è fissata ad ottantanove.
Per la prima volta, in conseguenza dell’entrata in vigore nello stesso 1804 del XIV Emendamento, i partiti presentano in ticket i candidati alla Presidenza e alla Vice Presidenza.
In lizza il Partito Federalista – già sconfitto nelle precedenti elezioni e in calo quanto a consensi – e il Partito Democratico-Repubblicano che a seguito delle votazioni del 1800 occupa la dimora presidenziale.
Nell’intento di scalzare Thomas Jefferson – che i suoi candidano con entusiasmo – i federalisti propongono l’ex Ambasciatore a Parigi Charles C. Pinckney.
Con lui l’ex Senatore del New York Rufus King.
Nel ticket con Jefferson, il Governatore del medesimo New York George Clinton.
Ovviamente, non può essere ricandidato il Vice Presidente uscente Aaron Burr che ha appena ucciso in duello l’ex Ministro Alexander Hamilton.
Il Presidente vince facilmente conquistando quindici Stati e centosessantadue Elettori.
Il rivale deve accontentarsi di riportare due soli Stati e quattordici delegati al Collegio.
Va segnalato che i più volte citato Jefferson resta nella storia americana l’unico Vice Presidente eletto e, attenzione, rieletto Capo dello Stato subito dopo avere esercitato appunto la Vice Presidenza.
Non così, per quanto molti lo pensino e lo scrivano, Richard Nixon perché, pur essendo stato Vice e due volte Presidente, non vinse nel 1960, la sua prima candidatura, ma nel 1968 e nel 1972.
Un’altra storia.
1808
Nel 1808 si vota dal 4 novembre al 7 dicembre e gli Elettori sono centosettantasei, ragione per la quale la maggioranza assoluta è fissata a ottantanove.
Mentre il Partito federalista ripropone esattamente lo stesso ticket che aveva perso nel 1804 (Charles Pinckney/Rufus King), il Partito Repubblicano/Democratico soffre alquanto nel corso delle procedure per la scelta dei candidati che, dovendosi sostituire Thomas Jefferson che aveva rifiutato l’ipotesi di un terzo mandato, vede in lizza James Madison, James Monroe e George Clinton.
I tre hanno dalla loro gruppi di sostenitori poco disposti ad accettare una sconfitta.
Il Padre della Patria Madison, Segretario di Stato, prevale nel Congressional Caucus che dovrebbe decidere la Nomination.
L’ex Ambasciatore James Monroe, per quanto possa contare su una Nomination da parte di suoi seguaci, si ritira dall’agone.
Il Vice Presidente in carica George Clinton ottiene infine sei voti nel Collegio Elettorale.
A proposito di Clinton, va sottolineato che si tratta del primo Vice (il secondo sarà John Calhoun) che opera appunto come ‘secondo’ a Washington sotto due diversi Presidenti.
In soldoni, Madison/Clinton vincono in dodici Stati e ottengono centoventidue suffragi di Elettori, mentre Pinckney/King migliorano la prestazione precedente riportando cinque Stati e quarantasette voti al Collegio.
Annotazioni
Per quanto il Partito Federalista possa apparire (e sia, visto che non vince più le elezioni presidenziali) in decadenza.
Per quanto venga ritenuto composto da “un gruppo di vecchi brontoloni antiquati”.
Il declino – come sottolineano gli storici – fu graduale e si concluse solo dopo il 1820.
Nella tornata elettorale del 1808, proprio l’attivismo federalista provocò un deciso aumento del numero percentuale degli elettori.
Come riporta Maldwyn Jones, per dare un’idea in merito al fermento di quegli anni, comparando i dati nel Massachusetts del 1800 a quelli del successivo 1809, i votanti salirono dal trentuno per cento al sessantaquattro.
1812
Settime elezioni presidenziali, quelle del 1812.
Gli elettori comuni furono chiamati alle urne dal 30 ottobre al 2 dicembre.
I membri del Collegio Elettorale da scegliere erano duecentodiciassette e la maggioranza assoluta da raggiungere, per conseguenza, centonove.
Furono quelle del 1812 le prime elezioni per la Presidenza USA che si svolsero nel corso di una guerra, quella denominata del 1812 (prese avvio il 18 giugno di quell’anno), e le uniche che abbiano mai avuto luogo nel mentre si combatteva entro i confini della Unione ove si escluda la Guerra di Secessione.
(Per inciso, la Guerra del 1812 vide gli Stati Uniti contrapporsi armi in pugno agli inglesi e nell’agosto del 1814 l’esercito britannico conquistare la capitale federale Washington e dare fuoco ai principali edifici pubblici, palazzo presidenziale incluso).
Molti i motivi di contrasto fra il Presidente James Madison e il suo stesso Partito Democratico/Repubblicano, non ultimo, ovviamente, il fatto che buona parte dei suoi esponenti fossero in verità contrari al conflitto.
La lotta per la Nomination, pertanto, si svolse all’interno di quell’unico movimento politico.
Dal canto loro, i federalisti, dapprima intenzionati a convergere sul Presidente della Corte Suprema John Marshall, decisero infine di non proporre un loro uomo per la Presidenza, indicando peraltro l’Attorney General della Pennsylvania Jared Ingersoll come compagno di cordata del candidato democratico repubblicano alternativo a Madison, DeWitt Clinton.
Fu, infatti, l’ora citato Sindaco di New York e nipote dell’appena defunto Vice Presidente George Clinton il candidato dissidente prescelto.
Al fianco di Madison – morto come detto il Vice eletto nel 1808 – Elbridge Gerry , Governatore del Massachusetts.
L’esito elettorale fu favorevole a Madison ma decisamente per poco.
Il Presidente uscente vinse in undici Stati e riportò centoventotto Elettori.
Il rivale si affermò in sette Stati ed ottenne ottantanove delegati al Collegio.
In termini percentuali, Madison vinse per il cinquanta e quattro a quarantasette e sei dei voti popolari espressi.
Se la Pennsylvania – fra l’altro, lo Stato del predetto Ingersoll – avesse votato per De Witt Clinton questi sarebbe diventato Capo dello Stato.
Il Presidente confermato nell’occasione detiene il poco gradevole primato di essere il primo che nell’ottenere un secondo quadriennio di governo prende meno voti percentuali rispetto alla precedente tornata quando era arrivato al sessantaquattro e sette.
Lo imiteranno in futuro Woodrow Wilson nel 1816, F. D. Roosevelt nel 1940 e nel 1944 e Barack Obama nel 2012.
1816
Si vota dall’1 novembre al 4 dicembre.
I membri del Collegio Elettorale sono duecentodiciassette e la maggioranza assoluta è quindi fissata a centonove.
L’ex due volte invano candidato alla Vice Presidenza Rufus King sarà nella circostanza l’ultimo federalista in lizza per la carica di Capo dello Stato e non se la caverà brillantemente visto che vincerà solo in tre Stati e riporterà appena trentaquattro Elettori.
Il campo democratico-repubblicano era in un particolare momento, assai favorevole, in quanto accreditato della cosiddetta ‘vittoria’ contro gli inglesi nella Guerra del 1812.
Per il vero, il conflitto in questione era terminato senza vinti né vincitori con la firma del Trattato di Pace il 24 dicembre 1814 in quel di Gent (o Gand) in Belgio.
Visto che, ovviamente, all’epoca, le notizie arrivavano dopo giorni e giorni al di là dell’Atlantico, agli inizi di gennaio del successivo 1815, a New Orleans, gli americani e gli inglesi diedero luogo a una ultima battaglia (che, stando al Trattato predetto, non avrebbe mai dovuto avere svolgimento) vinta clamorosamente dai primi per l’occasione guidati dal generale Andrew Jackson.
Era certa pertanto la vittoria nelle elezioni di un candidato democratico repubblicano e fu all’interno del partito oramai dominante che si lottò duramente.
Alla fine, restati in campo James Monroe – Segretario di Stato con Madison – e William Crawford – Ministro della Guerra nello stesso Governo – potendo il primo contare anche sul sostegno dei due predecessori Jefferson e Madison (quest’ultimo, come George Washington e lo stesso Thomas Jefferson, non aveva cercato un terzo mandato), vinse sia pure non facilmente ottenendo la Nomination.
Molto più facile la contesa finale: contro King vincerà in ben sedici Stati ottenendo centoottantatre voti al Collegio.
Con lui, alla Vice Presidenza, il Governatore del New York Daniel Tompkins.
Per la storia, Monroe è l’ultimo dei Padri della Patria che arriva a Washington per occupare il più alto scranno e l’ultimo Presidente della cosiddetta ‘dinastia della Virginia’ (dei suoi predecessori, solo John Adams, del Massachusetts, non era di origini appunto virginiane).
1820
Per la terza volta – le prime due in occasione delle candidature di George Washington nel 1788/89 e nel 1792 – nella storia delle elezioni presidenziali USA per la carica di Capo dello Stato viene designata una sola persona.
Dissolto praticamente il Partito Federalista, non ancora dure e divisive le lotte tra fazioni all’interno del Partito Democratico/Repubblicano (succederà a breve, già quattro anni dopo e in maniera epocale), il Presidente uscente James Monroe ottiene la Nomination senza colpo ferire.
Con lui, nel ticket, nuovamente Daniel Tompkins.
Si vota tra l’1 novembre e il 6 dicembre e tutti i componenti il Collegio Elettorale, al momento opportuno, si esprimono per Monroe.
Tutti, davvero?
No.
Uno dei Elettori del New Hampshire (ed è un politico di peso, già Senatore e Governatore del suo Stato) di nome William Plumer si esprime a favore di John Quincy Adams, Segretario di Stato in carica e, fra l’altro, vero autore della cosiddetta ‘Dottrina Monroe’.
Molti studiosi accreditano la voce che Plumer abbia in tal modo operato per impedire che l’elezione del Presidente uscente fosse paragonabile a quelle del Padre della Patria Washington in quanto ottenuta all’unanimità.
Pare, invece, che il delegato del New Hampshire non avesse affatto una buona opinione di Monroe e che effettivamente gli preferisse il figlio del secondo Presidente.
Il medesimo Plumer, poi, quanto alla Vice Presidenza, non volendo Tompkins, vota a favore di Richard Rush, già Attorney General.
D’altra parte, oltre al suffragio dell’ex Governatore, Tompkins – peraltro, confermatissimo – dovette fare a meno in sede di Collegio Elettorale anche di un certo non molto sostenuto numero di voti andati a Richard Stockton, ex Senatore del New Jersey, a Daniel Rodney, ex Governatore del Delaware, e a Robert G. Harper, a sua volta già Senatore del Maryland.
Varese, 10 dicembre 2023
Storia delle cosiddette
Elezioni Presidenziali USA dal 1788/1789 al 2016
come riportate in
‘Mi ricordo
Ovvero tutta la Storia del Mondo in scala uno a uno.
An open book’
In premessa, doverosa premessa.
Negli Stati Uniti d’America si vota per la prima volta per la Presidenza solo nel 1788/89 perché gli Articoli di Confederazione adottati nel 1781 non prevedevano l’esercizio del potere esecutivo da parte di un apposito organo e, tale mancata fondamentale determinazione considerata, comunque, in pratica non funzionavano.
È quindi dopo la stesura della Costituzione – a Philadelphia nel 1787 – che la figura del Presidente prende corpo.
Fino alla tornata elettorale del 1844 compresa, le urne restavano aperte per all’incirca un mese comprendendo, salvo come si vedrà subito nella prima circostanza, tutto o quasi il mese di novembre considerato per gli agricoltori e gli allevatori, allora il nerbo della società, relativamente meno impegnativo.
E’ dal 1848, quindi, che la chiamata popolare al voto ha luogo “il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno corrispondente al bisestile”.
Si decise così per il miglioramento dei collegamenti viari e ferroviari che già consentivano più facilmente agli elettori l’accesso ai seggi ovviamente all’epoca non diffusi ovunque.
Confermato il penultimo mese dell’anno bisesto (le seconde votazioni avevano avuto luogo nel 1792 ed essendo quadriennale il mandato la coincidenza permanne), il giorno fu come sopra detto deciso considerando la domenica dedicata al Signore non utilizzabile e lasciando il lunedì per gli eventuali spostamenti.
Non però semplicemente il primo martedì di novembre ad evitare che periodicamente coincidesse con Ognissanti, festività religiosa.
Nel titolo, si definiscono ‘cosiddette presidenziali’ le consultazioni in questione perché in verità nell’occasione non viene direttamente eletto il Capo dello Stato essendo quella adottata dagli USA una elezione ‘di secondo grado’, non pertanto ‘diretta’ ad opera degli elettori (con l’iniziale minuscola).
Saranno infatti gli Electors (Elettori con l’iniziale maiuscola per definirli, consacrarli, tali dal 1964 nel numero di cinquecentotrentotto ragione per la quale la maggioranza assoluta è duecentosettanta) scelti nella votazione di cui si tratta in un numero pari per ogni Stato a quello dei componenti le singole Delegazioni (Senatori più Rappresentanti) a nominare effettivamente l’inquilino della Executive Mansion “il primo lunedì dopo il secondo mercoledì del mese di dicembre successivo”
Per capirci, nel 2024 – fra l’altro in generale la sessantesima volta – il 5 novembre si sceglieranno gli Electors i quali il 16 dicembre procederanno alla bisogna.
Sarà poi (salvo il caso in cui nessun candidato abbia raggiunto la maggioranza assoluta degli Electors laddove decide la Camera dei Rappresentanti votando per Delegazione, cosa accaduta nel 1824) il rinnovato Congresso, per la cui composizione si è pure votato nel preindicato martedì novembrino, a ratificare la nomina il successivo 6 gennaio.
Il nuovo o confermato Capo dello Stato si insedierà pronunciando un giuramento nelle mani del Presidente della Corte Suprema il 20 gennaio ancora seguente (in pratica, viene eletto in un anno pari quale è necessariamente il bisesto ma entra in carica nel seguente dispari).
Dal 1793 al 1933, l’assunzione del ruolo aveva luogo il 4 marzo con questo volendosi ricordare il giorno nel quale nel 1789 era stata promulgata la Carta costituzionale.
Fino alle votazioni datate 1800 comprese, non essendo previsto il ticket di candidati Presidente/Vice che dal 1804 a seguito di un Emendamento è usuale, il candidato che otteneva il maggior consenso tra gli Elettori era prescelto mentre il secondo, anche se appartenente ad un diverso partito, esercitava la Vicepresidenza.
Di conseguenza, quando nel testo che segue parlando di George Washington si afferma che nelle prime due circostanze fosse “candidato alla carica suprema” si forza la realtà essendo, per quanto tutti sapessero che la persona da eleggere era il Generale, teoricamente in corsa contro di lui gli altri candidati.
Assai frequenti, nel corso della seguente trattazione, le ripetizioni in specie di disposizioni ma anche di temi e argomenti.
Ripetizioni che non ho ritenuto opportuno eliminare per consentire in ogni circostanza una lettura scorrevole non interrotta dalla ricerca altrove né appesantita dalle note.
1788/89
Le prime elezioni presidenziali americane sono assolutamente particolari e differenti dalle seguenti per una specifica ragione: ebbero svolgimento a cavallo di due anni (si votò dal 15 dicembre 1788 al 10 gennaio 1789).
Risultano, con quelle successive del 1792, altresì le uniche due nelle quali l’indiscusso candidato alla Presidenza, tutti concordando in merito, era uno soltanto, senza rivali.
Ovviamente, si trattava del Padre della Patria George Washington, che, per quanto riluttante e in qualche modo costretto ad accettare, fu eletto conquistando tutti i sessantanove Elettori (con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni, cosa che verrà spesso ripetuta) del Collegio Elettorale.
Dei tredici Stati ex colonie, dieci si dichiararono per lui.
Il North Carolina e il Rhode Island non parteciparono alle votazioni non avendo ancora ratificato la Costituzione, mentre il New York non si espresse.
Washington – l’unico Capo dello Stato della storia USA apartitico, indipendente – entrò poi in carica il 30 aprile 1789, un’altra anomalia dato che successivamente, dal 1793 al 1933 la cerimonia di insediamento si svolse il 4 marzo (in tale data, nel 1789, era stata proclamata la Costituzione) e che dal 1937 ha luogo alle ore 12 del 20 gennaio sempre dell’anno seguente quello elettorale.
La Vice Presidenza fu una questione interna al Partito Federalista, allora assolutamente egemone.
Visto che il Presidente era della Virginia (per inciso e senza sostenere che il fatto abbia avuto influenza sulla elezione, lo Stato di gran lunga più popoloso), la scelta si restrinse a personalità rappresentanti le ex colonie del Nord.
Alla fine, essendo dispersi tra differenti candidati i restanti suffragi, in sede di Collegio Elettorale, prevalse con trentaquattro voti elettorali sui predetti sessantanove John Adams il quale, altro accadimento mai più verificatosi, si insediò il 21 aprile, nove giorni prima del titolare.
1792
La seconda tornata elettorale per la Presidenza si svolge nel 1792 tra il 2 novembre e il 5 dicembre.
Comincia ad identificarsi come mese più adatto per la bisogna il penultimo dell’anno e si vota dal giorno 2 per non interferire con le cerimonie religiose di Ognissanti.
Il Presidente uscente George Washington, come nella precedente elezione, ottiene il cento per cento dei suffragi nel Collegio Elettorale formato da centotrentadue Elettori in rappresentanza di quindici Stati (le tredici ex colonie, questa volta tutte partecipi, più il Kentucky e il Vermont, nel frattempo entrati a far parte dell’Unione).
Anche in questa occasione, il Partito Federalista sostiene per la Vice Presidenza John Adams che raccoglie settantasette suffragi nel predetto Collegio.
Peraltro, il contrapposto Partito Democratico-Repubblicano dimostra di avere un peso crescente perché, per lo scranno vice presidenziale, riesce a convogliare sul Governatore del New York George Clinton ben cinquanta voti di Elettori.
L’esito della votazione nel predetto Collegio è pertanto il seguente:
per la Presidenza, centotrentadue su centotrentadue a George Washington
per la Vice Presidenza, settantasette su centotrentadue a John Adams, cinquanta a George Clinton, quattro a Thomas Jefferson e uno ad Aaron Burr.
Da sottolineare il fatto che la partecipazione dei votanti nella circostanza fu inferiore alla precedente e la più bassa di sempre: ventottomilacinquecentosettantanove i cittadini alle urne.
1796
Nel 1796, si vota dal 4 novembre al 7 dicembre.
I componenti del Collegio Elettorale sono in totale centotrentotto.
Sedici gli Stati.
Il Partito Federalista sceglie come proprio candidato il due volte Vice Presidente di George Washington John Adams il quale prevale a fatica sul contendente federalista Thomas Jefferson e su Thomas Pinckney.
Già governatore del South Carolina e teoricamente aspirante alla Vice Presidenza, quest’ultimo, sostenuto nel predetto Collegio (allora, non esistendo il ticket elettorale, si poteva giocare sui ‘secondi voti’ a disposizione degli Elettori) anche attraverso mezzi poco eleganti da Alexander Hamilton, risultò infine terzo ed escluso sia dal primo che dal secondo gradino del podio.
In termini di voti, Adams prevalse in nove Stati catturando settantuno Elettori mentre Jefferson vinse in sette Stati e si ebbe sessantotto delegati al Collegio.
Il Partito Federalista è al lumicino.
John Adams sarà il suo unico Presidente.
Il 1800 batte alle porte e il Partito Democratico-Repubblicano è pronto a prendere il potere.
Annotazioni.
Nessuno, nel 1796, si sarebbe opposto ad un terzo mandato del Padre della Patria George Washington.
Fu il Presidente, però, a declinare l’unanime invito, fra l’altro sostenendo che otto anni fossero abbastanza per chiunque e che un terzo quadriennio sarebbe stato difficile da affrontare sia dal punto di vista fisico che da quello mentale.
Per inciso, è sulla base di questa considerazione del primo Capo dello Stato che nessuno (per il vero Grant fu respinto nella bisogna in sede di Convention nel 1880) dei successori, fino a Franklin Delano Roosevelt, si candidò una terza volta.
(Fu dopo la morte del Presidente del New Deal all’inizio addirittura del quarto mandato che si pensò a legiferare in merito fino ad arrivare, nel 1951, all’entrata in vigore del XXII Emendamento che limita a due le possibili elezioni).
È la campagna del 1796, pertanto, la prima nella quale davvero i partiti possono confrontarsi.
I Democratici/Repubblicani candidano finalmente Thomas Jefferson.
I Federalisti, pur nelle difficoltà conseguenti al fatto che Alexander Hamilton appoggiava un suo rivale, convergono infine sul Vice Presidente John Adams.
In conclusione, Adams prevalse di poco convogliando su di sé gi Elettori degli Stati del Nord mentre quelli degli Stati meridionali votarono Jefferson.
Fu l’unica volta, questa, nella quale – lo consentiva il sistema elettorale poi modificato nel 1804 proprio per questo – il Presidente e il Vice appartenevano a due partiti diversi!
John Marshall, la più duratura eredità federalista
In carica dal 31 gennaio 1801 al 6 luglio 1835, il grande giurista e già Segretario di Stato John Marshall è un lascito agli USA dell’unico Presidente federalista John Adams che lo nominò Chief della Corte Suprema nel mentre si avvicinava il giorno del passaggio delle consegne tra lui e Jefferson.
Un lascito di importanza enorme, visto che il Paese deve a Marshall l’impianto del sistema giudiziario nazionale, l’impostazione della Corte, un infinito numero di sentenze che hanno dato fondamenta e mura di cemento armato al diritto americano.
Varese, 10 dicembre 2023
America Latina a memoria:
Quando il Venezuela fu, per così dire e forzando la Storia, colonia tedesca
Breve la vicenda relativa all’impero coloniale tedesco.
Sorto ufficialmente nel 1884, venne a cessare nel 1919 con il Trattato di Versailles.
fecero parte dell’effimero e tardivo impero – la ‘corsa all’Africa’ si andava esaurendo proprio negli anni nei quali il neonato Stato unitario germanico decideva di parteciparvi – in particolare l’odierna Namibia (Africa Tedesca del Sud-Ovest, allora), il Tanganika (Africa Orientale Tedesca), il Camerun (Deutsche Kolonie Kamerun), il Ruanda e il Burundi (Deutsch-Ostafrika).
Secoli prima, peraltro, una ricca famiglia di Augusta – all’epoca ‘città libera’ – i Welser, aveva avuto modo di colonizzare una ben diversa parte del mondo, il Venezuela.
Fatto è che nel 1519, Carlo V, candidato alla Corona del Sacro Romano Impero, al fine di convincere i sette Elettori che avevano voce in capitolo ad eleggerlo, chiese ed ottenne appunto dai Welser (nonché dai Fugger) il necessario finanziamento essendo la nomina praticamente in offerta al miglior prezzo.
Non potendo negli anni seguenti l’imperatore restituire le grosse somme ricevute, in cambio, nel 1528, assegnò ai Welser territori nel Nuovo Mondo, precisamente, come accennato, in Venezuela (Piccola Venezia).
Ciò anche in ragione del fatto che già da qualche anno Bartholomeus Welser operava commercialmente con l’America spagnola nella tratta degli schiavi ed aveva ottenuto l’autorizzazione allo sfruttamento delle miniere di rame di Haiti.
(Fra l’altro, una delle prime testimonianze dirette non ufficiali sul nuovo mondo consistette proprio nelle narrazioni che delle loro esperienze avevano fatto al ritorno in Europa i minatori colà impiegati sopravvissuti).
Quella che impropriamente qui definisco la prima colonizzazione tedesca ebbe presto termine perché già nel 1556 la Spagna ritirava la concessione venezolana data ai Welser.
Varese, 10 dicembre 2023
‘L’eroe della strada’, ‘Il cavaliere della valle solitaria’, Shane Alan Ladd, Chaney Charles Bronson: i tempi cambiano, gli eroi cinematografici, adeguati, restano
Felicissimo debutto dietro la macchina da presa dell’ex aiuto regista (‘Bullit’, ‘Il caso Thomas Crown’) e sceneggiatore (‘Getaway’ e più tardi ‘Alien’) Walter Hill, ‘Hard Times’ – ovvero, letteralmente, ‘Tempi duri’ visto che questo è il titolo originale di ‘L’eroe della strada’ – ripropone, ambientato in piena Grande Depressione, in qualche modo il soggetto che tanto bene aveva funzionato nel celeberrimo western ‘Il cavaliere della valle solitaria’.
Là, un infallibile pistolero piombato nella valle dal nulla aiuta i ‘buoni’, mette al loro posto (la tomba!) i ‘cattivi’ e se ne va (1).
Qui un abilissimo, praticamente imbattibile combattente ‘da strada’ quasi si materializza in una vecchia e sporca stazione di periferia, in poche battute conquista fama di insuperabile in una New Orleans spettrale, aiuta un manager imbroglioncello e giocatore sempre perdente in debito con gli strozzini mettendo al tappeto più o meno facilmente chiunque gli venga messo di fronte e, sistemate le cose, scompare.
Unica differenza non da poco e in linea con i ‘tempi duri’ che negli anni Trenta vivevano gli americani, un bel mucchio di soldi.
Shane, il cavaliere, si batte per l’onore quasi fosse un paladino dei deboli e dei perseguitati, Chaney (questo il nome del protagonista di ‘L’eroe della strada’) ha ben differenti interessi.
Alla fine si lascia in qualche modo coinvolgere e boxa per l’amico manager ma anche in questo caso quel che più conta per lui è la possibilità di fare molta ‘grana’.
E’ un duro vero e non farà neppure una piega quando la ragazza che ha rimorchiato (Jill Ireland) gli dice che non vuole più vederlo perché gli preferisce “qualcuno che si ferma la notte e paghi i conti”.
Charles Bronson è ovviamente perfetto nel ruolo che sembra tagliato sulla sua misura: parla pochissimo, guarda ad occhi socchiusi quasi fossero fessure, se ne va dopo aver detto sì e no tre parole di addio (è il suo stile: nei panni di Armonica, in ‘C’era una volta il West’, eliminato il cattivo Frank, prende le poche cose che possiede e uscendo dice semplicemente: “Io ho finito qui”), combatte magnificamente a pugni chiusi in quelli che probabilmente restano gli incontri più ‘veri’ mai visti al cinema.
James Coburn, di contro, è un perditore di razza (“La cosa migliore dopo giocare e vincere è giocare e perdere”), ironico e sempre in bilico.
Molte volte vicino a prendersi una pallottola o una coltellata da un qualche creditore per il momento e per miracolo se la cava ma non scommetteremmo un centesimo sul suo domani.
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Vogliamo credere che sia così, ma – discutono in merito i due protagonisti de ‘Il negoziatore’ Kevin Spacey e Samuel L. Jackson – potrebbe non essere.
E’ seriamente ferito e non volendo morire sotto gli occhi di Joey, il bambino che lo idolatra e soffrirebbe troppo, lo farà fra poco, lontano, da solo.