sabato, Dicembre 21, 2024

DIARIO AMERICANO. NUOVA ENCICLOPEDIA Lettere da Varese (dal 19 febbraio 2024). di Mauro della Porta Raffo, Presidente onorario della Fondazione Italia-USA

Il lettore, cliccando qui, trova i contenuti di ‘Diario Americano. Nuova Enciclopedia’ pubblicati dal 31 agosto al 9 dicembre 2023 

Il lettore, cliccando qui, trova i contenuti di ‘Diario Americano. Nuova Enciclopedia’ pubblicati dal 10 dicembre 2023 al 18 febbraio 2024

Varese, 9 novembre 2024

USA 2024:
la durissima, inattesa (non da tutti) débâcle dei democratici: ragioni e correttivi necessari, con una nota sul tema dei sondaggi, la constatazione della inconsistenza dei partiti terzi e l’insoddisfazione conseguente alla seconda sconfitta di una Signora

di Mauro della Porta Raffo
Presidente onorario della Fondazione Italia USA

I risultati come attribuiti
– Distribuzione degli Electors votati il 5 novembre che il prossimo mese di dicembre, riuniti nell’Electoral College, nomineranno ufficialmente il Presidente:
Donald Trump 312
Kamala Harris 226
la maggioranza prescritta essendo 270.

Ovvio, naturale, che a seguito della dura, inattesa (ho i miei dubbi in merito: penso che in verità i vertici democratici nazionali, a conoscenza attraverso sondaggi non addomesticati, alla stregua di quelli propinati dai media a man salva, delle reali intenzioni degli elettori, sapessero come sarebbe andata a finire da un paio di settimane almeno, naturalmente tenendolo nascosto per non demoralizzare l’elettorato) e controtendenza – non doveva il partito di Biden avere il vento nelle vele spiegate affrontando un avversario condannato, inquisito, a suo tempo messo due volte sotto Impeachment e così via? – sconfitta l’Asino democratico americano sia chiamato da subito, già in vista delle Mid Term Elections del 2026, a compiutamente riflettere e a cercare soluzioni.
Concrete, aggiungo conoscendo l’astrattezza assai compiaciuta quasi sempre espressa dalla nomenclatura dell’Asinello.
Astrattezza che, portando a far prevalere l’ideale specifico del movimento sulla realtà (molto più chiara ai repubblicani e soprattutto al maverick prestato alla politica Donald Trump che ha stravolto il Grand Old Party chissà se in modo definitivo e che, età a parte, non potrà essere in corsa nel 2028 essendo stato eletto due volte), con buona frequenza e di questi tempi salvo casi particolari, porta alla perdita della ambitissima poltrona presidenziale (in questo frangente, poi, catastroficamente, anche della maggioranza congressuale, senza vantaggio alcuno quanto ai Governatorati).
Realtà che, come si è constatato e pare ci si rifiuti di accettare, non è rappresentata da star di ogni diverso tipo (Taylor Swift, nientemeno, George Clooney, mamma mia!) che dichiarandosi democratiche guadagnano titoli di copertina e comparsate televisive sui e nei media inutilmente da sempre in mano a giornalisti e programmisti amici, senza convincere, come del resto quanti li ospitano, nemmeno i propri parenti.
Realtà, in fondo e malgrado tutte le ripartizioni possibili (età, razza, tendenze sessuali, ceto sociale, fascia economica, origini, collocazione urbana o rurale e chi più ne ha più ne metta), composta di contro da elettori etichettati, chiamandoli così, avversi, a raccolta, come deplorevoli o tipo spazzatura (si può essere meno intelligenti?) da Hillary Clinton e Joe Biden e del tutto trascurati dalla cinguettante, catapultata e malcapitata, Kamala Harris che invece di andare a trovare la casalinga di Boise, Idaho, o il lattaio dell’Ohio, si fa fotografare o parla con personaggi dello spettacolo che del cittadino medio elettore non hanno e non rappresentano nessuna caratteristica, elettore che in loro non si identifica.
È assolutamente indispensabile, inoltre e alla fine in primissima battuta, che la scelta dei candidati allo scranno sia davvero affidata all’andamento, meno condizionato possibile dalla dirigenza partitica, di Caucus e Primarie libere il cui esito venga rispettato.
Così non è stato nelle ultime due occasioni nelle quali la Nomination era effettivamente in ballo.
Nel 2016, quando Bernie Sanders che insidiava seriamente Hillary Clinton fu fermato in ogni modo usando sotterfugi procedurali.
Nel 2020, quando la nomenclatura intervenne praticamente obbligando i molti candidati alternativi a Biden che a febbraio lo precedevano nei risultati a ritirarsi in vista del Supermartedì di inizio marzo.
E sarà anche ora di dire che nel 2020, lasciando da parte ogni questione relativa a presunti brogli elettorali, Joe Biden ha vinto per via della pandemia che ha gravissimamente impiombato le ali del rivale che in precedenza era dato vincente su tutti i fronti.
Visto che ci siamo, perché un simile abbaglio non venga più preso, anche la scelta di Tim Walz, sconosciuto e bolso Governatore del Minnesota, uno Stato non assolutamente in bilico da sempre democratico, era priva di senso e non ha portato (non poteva farlo) benefici.
È vero che il Signore acceca coloro che vuole perdere, ma è ora che gli Asinelli si diano una mossa cercando il leader nella nuova generazione, considerato che, salvo drammatici avvenimenti, i repubblicani presenteranno il già selezionato J. D. Vance, un nel 2028 quarantaquattrenne!

Nota bene.
– Quanto in genere ai sondaggi ogni minuto pubblicati, da tutti venerati e alla base di infiniti ragionamenti, perché se ne tenga conto in futuro ma dubitando fortemente che succederà, il giorno stesso delle elezioni, l’autorevole sito FiveThirthyEight proponeva Kamala Harris al quarantotto percento del voto popolare con un vantaggio dell’uno e due mentre in realtà Donald Trump si è imposto con un margine del tre con oltre quattro milioni di suffragi in più.
– Quanto in particolare ai famigerati sette Battlegrounds, sono stati tutti appannaggio di Trump.
– Decisamente inconsistenti poi i terzi partiti (Libertarian e Green in primo piano) che rispetto ai risultati ottenuti in particolare nel 2016 si sono dimostrati in fortissimo regresso.
– Per la seconda volta, la Signora candidata da uno dei due movimenti egemoni (invero, dai democratici) è stata sconfitta.
È questa un’altra grave manchevolezza americana che mi auguro venga colmata da una candidata repubblicana quale potrebbe essere Nikki Haley – difficile, essendo praticamente già designato per il 2028 il giovane Vice al momento in pectore J. D. Vance – decisamente più acculturata, adatta e meno, mi si scusi, isterica di Kamala Harris

Varese, 5 novembre 2024 (giorno elettorale negli Stati Uniti d’America)

Il voto: istruzioni per l’uso
(riprendo il titolo del magnifico ‘La vita: istruzioni per l’uso’, di Georges Perec).
Una premessa e quattro capitoli.

di Mauro della Porta Raffo
Presidente onorario della Fondazione Italia USA

Premessa
Come altra volta scritto, mentre il partito democratico è sostanzialmente tutto schierato dietro Kamala Harris non altrettanto accade nel campo repubblicano.
È pur vero – lo sappiamo dal 2015, quando Donald Trump dichiarò le proprie intenzioni – che il vecchio Grand Old Party come allora e in qualche parte oggi rappresentato lo ha considerato e considera una specie di corpo estraneo (del resto, è un ‘maverick’), ma certamente non ha fatto quasi nulla per raccogliere i consensi di quell’allincirca trenta per cento che ancora nelle Primarie gli preferiva Nikki Haley.
Una parte che anche il linguaggio dal tycoon usato (certo per galvanizzare i propri adepti) ha allontanato.
Ritiene difatti che certi limiti non debbano essere valicati.
È questa la spada che pende sulla testa del solo Capo dello Stato americano che pensi di poter imitare Grover Cleveland tornando ad esercitare il potere esecutivo dopo quattro anni di opposizione.
Ciò detto:

Uno
Quanto pesa effettivamente Donald Trump in termini di voti popolari?

Nel 2016 e nel 2020, le due sue precedenti candidature, nei sondaggi, Donald Trump è stato accreditato di un numero di voti popolari poi rivelatosi decisamente inferiore rispetto al reale.
Ora, nella situazione prospettata nelle ultime ore, dalle rilevazioni fatte, lo stesso tycoon è dato alla pari con la rivale Kamala Harris.
Tre le possibilità.
La prima: i sondaggisti hanno imparato la lezione e lo collocano, sia pure in coabitazione, in testa correttamente.
La seconda: in effetti, per reazione, lo hanno ‘pompato’ oltremisura e in verità è indietro.
La terza: anche in questa circostanza la sottovalutazione permane e di conseguenza vince nettamente.
Vedremo.

Due
“Too close to call!”

Allora, dando per buoni i sondaggi che vedono Trump e Harris praticamente alla pari, quale la conclusione più probabile dello spoglio delle schede espresse nei seggi entro la chiusura e prima di quello concernente il voto anticipato e postale che in alcuni Stati prenderà il via subito dopo?
Insomma, avremo un risultato che abbia reali possibilità di essere definitivo?
Sapremo almeno quanto dovremo aspettare?
La risposta ai primi interrogativi è no, se verrà confermato nei sette Battlegrounds il serratissimo testa a testa previsto.
Tanto stretto l’ordine d’arrivo (ne parlo come si fa nelle corse al galoppo in particolare) da dover esporre il cartello con scritto “too close to call’”.
Quella all’ultimo – a meno che le rilevazioni quanto alle intenzioni di voto non siano del tutto sbagliate – un tempo non definibile, perfino qualche giorno.

Tre
Possibile un risultato simile a quello del 2016

Ricordate certamente il clamoroso risultato delle elezioni presidenziali USA del 2016.
Allorquando Hillary Clinton stravinse (quasi tre milioni di voti popolari in più a livello nazionale) quanto a suffragi popolari perdendo la Casa Bianca per via degli Electors componenti il Collegio Elettorale conquistati in maggioranza da Donald Trump?
Orbene, guardando ai bookmakers, possibile una ripetizione quasi precisa.
La quota più ricorrente considera difatti Harris nettamente (1,28 contro 3,75, addirittura) vincente nel voto federale e perdente (2,40 contro 1,61) quanto a Delegati conquistati.
Nell’ipotesi, va sottolineato che per la quinta volta dal 1856 (primo confronto diretto democratici/repubblicani) il candidato democratico risulterebbe sconfitto a questo modo, cosa mai accaduta al contrario.

Quattro
La questione fusi orari
e la dichiarazione ufficiosa del risultato

L’orario di chiusura dei seggi si differenzia nei 50 Stati perché gli Usa hanno diversi fusi orari dalla costa Est sull’Atlantico alle Hawaii nel Pacifico.
I primi a chiudere a mezzanotte (l’ora indicata è quella italiana) saranno Indiana e Kentucky.
A seguire all’1 di notte del 6 novembre chiuderanno Florida, Georgia, South Carolina, Vermont e Virginia.
Alle 2, tra gli altri, arriverà la chiusura della probabilmente decisiva Pennsylvania e insieme i primi exit polls.
Alle 3 chiuderà New York.
L’Alaska alle 6 di mercoledì 6 novembre, sempre ora italiana.

E’ consuetudine quanto alla dichiarazione (non ufficiale, ovviamente) dei risultati Stato per Stato e poi nazionali considerare le comunicazioni al riguardo della Associated Press che ha regole precise.
Per dare un’idea della difficoltà in merito (dovendosi tenere conto del suffragio anticipato e di quello postale, si cerca assolutamente di non parlare a vanvera), nel 2020 quando si votò il 3 novembre la predetta dichiarazione arrivò quattro giorni dopo.

Varese, 14 agosto 2024

Nulla più democratico del Super Tuesday, vero?

di Mauro della Porta Raffo

Avete presente il Super Tuesday, il Supermartedì?
Quel giorno normalmente d’inizio marzo dell’anno bisestile nel quale in America un pacco di Stati (addirittura ventitre nel 2008 in casa democratica) sono chiamati tutti assieme per ogni dove nel Paese alle urne attraverso Caucus e Primarie per eleggere con sistemi diversi – il winner take all relativo o assoluto piuttosto che il proporzionale eccetera – i delegati impegnati a votare l’uno o l’altro candidato alla Convention estiva?
È così mediaticamente identificato pressappoco dal 1988 e, con l’eccezione Gary Hart (d’altronde, in verità, prevalente tra gli Asinelli quattro anni prima), ha visto il pretendente all’investitura nella circostanza, magari per poco, vincente, infine, nella Convention, incardinato.
Grande esempio di democrazia indubbiamente, vero?
Verrebbe voglia di rispondere positivamente a questa apparentemente inutile, in qualche modo provocatoria, domanda.
Non fosse per un tarlo.
Un dubbio.
Mettete che dalle prime battute, Iowa, New Hampshire e uno o due altri Stati, un outsider, un apparente possibile dark horse, si sia palesato, dimostrando d’essere in grado sia pure quasi dilettantisticamente di affrontare senza un solido e sostenuto e costoso apparato una consultazione alla volta, come questo spauracchio dell’establishment partitico saprebbe affrontare il colossale impegno?
Il Super Tuesday, insomma, inteso ed organizzato non per dare assoluta voce al popolo ma al contrario per sottrargli possibilità, come dire?, estranee, poco gradite, magari, per l’eccentricità dimostrata, ritenute perdenti in seguito a novembre.
È questo alla fine uno dei mezzi più articolati, sofisticati, che i due partiti egemoni hanno trovato per imbrigliare, domare e guidare il purosangue ‘voce libera al popolo’ che lasciato a se stesso chissà dove – alla perdizione temono – porterebbe Asini democratici ed Elefanti repubblicani quando si tratti di difendere il fortino uniti?

Varese, 13 agosto 2024

Elon Musk intervista Donald Trump

dalle agenzie

Elon Musk ha intervistato Donald Trump in diretta ieri sera su X, segnando il ritorno del tycoon sulla piattaforma social.
L’evento ha subito un ritardo a causa di problemi tecnici, che il proprietario di X ha attribuito a un “massiccio cyberattacco” dovuto alla “grande opposizione” nei confronti di ciò che l’ex presidente americano avrebbe detto.

L’intervista, durata poco più di due ore, ha visto i due discutere di vari argomenti, esprimendo reciproca ammirazione.
Musk ha detto a Trump: “Dovresti vincere per il bene del Paese”, descrivendo Kamala Harris come una figura di sinistra, non moderata.
Trump ha concordato, definendo Harris “una radicale di San Francisco, più a sinistra di Bernie Sanders” e sostenendo che sarebbe “peggio di Joe Biden”.

Riguardo all’attuale presidente, che si è ritirato dalla corsa il mese scorso, Trump ha dichiarato:
“Non sono un fan di Joe Biden, è il peggior presidente della storia.
Ma quello che gli hanno fatto è stato un colpo di Stato”.

Trump ha poi avvertito del rischio di una terza guerra mondiale, trovando l’accordo di Musk, che ha aggiunto: “Penso che la gente sottovaluti il rischio”. Entrambi hanno concordato sulla necessità di un leader americano capace di intimidire e dare una sensazione di forza.

Trump ha inoltre criticato l’Unione Europea per “approfittarsi di noi” nei commerci, lamentando che “noi li difendiamo con la NATO” e sostenendo che dovrebbero pagare quanto gli Stati Uniti per la guerra in Ucraina.
Musk ha ricordato di aver ricevuto una lettera da Bruxelles prima dell’intervista, sottolineando i tentativi di censura da parte di altri Paesi.

Trump ha inoltre ribadito di aver messo in guardia Vladimir Putin contro l’attacco all’Ucraina e ha affermato che, se fosse stato lui alla Casa Bianca, l’Ucraina non sarebbe stata invasa e Israele non sarebbe stato attaccato.
Ha inoltre rilanciato l’idea di un Iron Dome (sistema di difesa missilistico) per gli Stati Uniti.

Sulla questione della migrazione, Trump ha sostenuto che “gli altri Paesi mandano da noi tutte le loro persone peggiori, non produttive.
Se i democratici vincono, arriveranno 50-60 milioni di persone da tutto il mondo. Siamo già oggi sommersi dai migranti”.
Ha promesso che, se eletto, realizzerà la più grande deportazione nella storia del Paese.

Infine, Trump ha annunciato l’intenzione di chiudere il ministero dell’Istruzione e trasferire le competenze ai singoli Stati, dicendo:
“Non tutti faranno bene, ma sono sicuro che almeno 35 faranno un ottimo lavoro”. Musk ha suggerito la creazione di una commissione sulle spese americane e ha offerto il suo aiuto in tal senso.

Varese, 12 agosto 2024

Tre le occasioni nelle quali un candidato alla Executive Mansion ha conquistato oltre cinquecento Electors

di Mauro della Porta Raffo

Lo sapete, negli Stati Uniti d’America quest’anno si vota – non per l’elezione del Presidente ma per la conquista degli Elettori (Electors, con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni visto che loro incarico è eleggere effettivamente, nel Collegio che compongono, il Capo dello Stato il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre) considerato il fatto che si tratta di una elezione di secondo grado e non ad opera direttamente del popolo – martedì 5 novembre e quindi, stante il disposto della Legge in proposito del 1845 applicata a partire dal 1848, il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno coincidente con il bisestile quale il 2024 è.
Guardando alla storia delle elezioni in questione, un precedente 5 novembre ha importanza perché indica una svolta definitiva (nulla dovrebbe essere in cotale modo definito considerando il trascorrere del tempo, il divenire e le conseguenze, e tuttavia …) quanto alla consistenza numerica dei citati Electors.
È difatti dal 5 novembre 1912 (la prima occasione in cui andarono al voto tutti i quarantotto Stati cosiddetti continentali stendendosi il Paese nel continente da un oceano all’altro) che il Collegio Elettorale è formato da oltre cinquecento persone.
(Esattamente, cinquecentotrentuno fino alla competizione del 1956 compresa che ha preceduto l’entrata nell’Unione dei due membri più recentemente ammessi, Alaska ed Hawaii.
Superata poi la convocazione alle urne del 1960 – cinquecentotrentasette a quel mentre gli Electors – a far luogo dal 1964, ammesso al voto il District of Columbia, i pluricitati signori sono cinquecentotrentotto, essendo la maggioranza assoluta fissata a duecentosettanta).
Tutto ciò ricordato e detto, tre soltanto (su ventotto) le elezioni nelle quali uno dei pretendenti alla Executive Mansion abbia vinto conquistando più di cinquecento Elettori, nei fatti in qualche modo dissolvendo il malcapitato contendente.

Nell’ordine
– 1936: l’incumbent democratico Franklin Delano Roosevelt sconfigge il repubblicano Alfred Landon per quarantasei Stati a due e cinquecentoventitre Elettori a otto
– 1972: l’incumbent (come si vede e vedrà tra un attimo, la vittoria a valanga è conseguita ogni volta quando si chiede la conferma e non per così dire a scatola chiusa) appartenente al Grand Old Party Richard Nixon demolisce il dem George McGovern per quarantanove Stati a uno più il District of Columbia e per cinquecentoventi Electors a diciassette (il totale non arriva a cinquecentotrentotto perché un delegato si esprime per i candidati del Libertarian Party)
– 1984: l’incumbent Ronald Reagan, repubblicano, annichilisce lo sfidante del partito avverso Walter Mondale conquistando anch’egli quarantanove Stati contro uno più il famigerato – si esprime sempre e comunque a favore dell’Asinello – District e cinquecentoventicinque Elettori a tredici (record assoluto).

Come si vede, un democratico e due repubblicani i Presidenti capaci di tanto.

Un tocco di colore: distrutto che fu, Mondale, incontrato McGovern che lo aveva preceduto sulla stessa strada, gli chiese quanto tempo gli sarebbe occorso per dimenticare per sentirsi rispondere “Non lo dimenticherai e nessuno lo dimenticherà mai!”

Varese, 22 aprile 2024

I repubblicani iniziano a preoccuparsi di Robert Kennedy Jr.

di Mauro della Porta Raffo

“I repubblicani si stanno rendendo conto del fatto che Robert F. Kennedy Jr. potrebbe recare danno al loro portabandiera con la stessa facilità con la quale danneggia Joe Biden.
Questo, dopo che non pochi nuovi sondaggi hanno mostrato come la presenza di candidati di terze parti (non soltanto Kennedy, anche quelli di partiti minori, Green e Libertarian soprattutto) al ballottaggio potrebbe non necessariamente avvantaggiare l’ex Presidente.
Lo stesso Trump riconosce il potenziale problema.
Ha difatti in merito così ragionato:
“Dicono che RFK Jr faccia male a Biden.
Non sono sicuro che sia vero e penso che probabilmente ferisca entrambi.
Ma potrebbe ferire Biden un po’ di più.
Non lo sai”.
Già, non lo sappiamo.
Certamente, lo scopriremo.

Varese, 28 marzo 2024

In morte di Joe Lieberman

di Mauro della Porta Raffo

È datata 20 marzo, una settimana prima della dipartita, l’ultima mail che ho ricevuto da Joe Lieberman, deceduto ieri a seguito di una caduta in casa a New York ad ottantadue anni da poco compiuti.
Mi scriveva personalmente nella veste di No Labels Founding Chairman (“senza etichette”, sostanzialmente No Labels) al fine di avere un parere ed eventualmente un conforto, informandomi della attività del movimento politico centrista e indipendente che aveva costituito per cercare finalmente una terza via americana, libera per quanto possibile dalle oramai poco sopportabili morse imposte da un bipartitismo le cui difficoltà, per non dire peggio, e pastoie riteneva evidenti e condannabili e, nel contingente, per identificare un ticket elettorale alternativo che esulasse dal duo stancamente e assai poco educatamente duellante Biden/Trump.
Grande uomo politico Lieberman, davvero.
Certo, è stato il primo ebreo candidato alla Vicepresidenza da uno dei due partiti USA egemoni (sfortunato coprotagonista nel 2000 quando, secondo di Al Gore, con lui vinse per voti popolari ma perse per Delegati a seguito della politicamente drammatica questione relativa ai voti della Florida che venne infine risolta a favore del repubblicano George Walker Bush dalla Corte Suprema).
Certo, ha messo a segno nel 2006 una performance elettorale straordinaria quando, sconfitto nelle Primarie democratiche nel suo Stato, si ripropose per il Senato sostanzialmente da indipendente (fu costituito nella circostanza il movimento Connecticut for Lieberman) sbaragliando gli esponenti dei partiti maggiori ed ottenendo una magnifica rielezione.
Certo, aveva anche dimostrato la propria autonomia di pensiero e giudizio, la fede sostanzialmente liberale (non liberal, per carità) e centrista, dichiarandosi se del caso anche a favore di candidati alla Casa Bianca teoricamente avversi, come John McCain che sostenne nel 2008.
Soprattutto – sono fortemente e favorevolmente condizionato nel giudicare quando una persona in cotal modo mi si palesa – è stato per tutta la sua lunga ed articolata vita un vero gentiluomo.
Mille volte chapeau!

Non so se quanti con Lieberman avevano dato via al citato nuovo movimento No Labels avranno l’intento e la capacità di portare avanti l’ardua – lui vivente e molto più ora – impresa.

Varese, 25 marzo 2024

I Presidenti americani

schede individuali essenziali da
George Washington a Barack Obama
come scritte per il saggio
USA 1776/2016

James Monroe
nacque il 28 aprile 1758
e morì il 4 luglio 1831
Fu in carica dal 4 marzo 1817 al 4 marzo 1825

La scheda
Nato nel 1758 a Monroe Hall (Virginia), fu, insieme a Thomas Jefferson e James Madison, tra i fondatori del Partito Repubblicano-Democratico.
Segretario di Stato sotto Madison, riuscì a vincere in occasione delle elezioni del 1816 divenendo così il quinto Presidente degli Stati Uniti d’America, e ottenendo poi un secondo mandato nel 1820.
Presidente di forte popolarità e sostanzialmente privo di avversari (il partito federalista era ormai in condizioni disperate), la sua amministrazione è ricordata tanto per l’acquisizione della Florida quanto – soprattutto – per il suo approccio in politica estera: la cosiddetta ‘Dottrina Monroe’, esemplificata dallo slogan “l’America agli americani”.
Una posizione che respingeva ogni eventuale ingerenza europea nelle Americhe, sostenendo al contempo una sostanziale neutralità statunitense verso le questioni politiche del Vecchio Continente.
Concluso il secondo mandato, si ritirò a vita privata.
Morì a New York nel 1831.

Varese, 25 marzo 2024

La ‘promozione’ del Montana

Non poche le differenze quanto alla attribuzione Stato per Stato degli Electors/Elettori (con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni dato che loro specifico compito è eleggere effettivamente il Presidente) tra le votazioni del novembre 2020 e le future, in programma il 5 del penultimo mese del corrente 2024.
Questo, in conseguenza del risultato in relazione al numero degli abitanti dei singoli Stati esito dei Referenda rispettivamente del 2010 (determinante per la distribuzione del 2020) e del 2020 (reso ovviamente pubblico quell’anno dopo le consultazioni novembrine, per il 2024).
È guardando a tali differenze che si può concludere per una fioritura (la gente di trasferisce laddove l’economia tira ed è conseguentemente più facile trovare lavoro e vivere) in particolare del Texas (due Electors in aggiunta, arrivando in tal modo a quaranta!) Stato che va prosperando costantemente, come per un declino del New York (perde un solo Delegato dando però seguito alle precedenti costanti diminuzioni), del tradizionalmente di solito assai significativo dal punto di vista elettorale Ohio come dell’Illinois (a Chicago, il maggior agglomerato urbano interno al Paese, qualcosa non va).
Nel panorama, significativo anche per una specificità l’aumento da tre a quattro degli Electors del Montana.
Difatti, quando così accade, la Circoscrizione elettorale relativa ai Rappresentanti muta completamente.
Se uno Stato ha diritto a tre delegati (due Senatori e un solo componente la Camera Bassa) la Circoscrizione appena descritta coincide con l’intero territorio statale (viene definita ‘at large’).
Se i Rappresentanti da inviare a Washington diventano due, altrettante saranno (da delimitare) le Circoscrizioni.

Varese, 21 marzo 2024

I Presidenti americani

schede individuali essenziali da
George Washington a Barack Obama
come scritte per il saggio
USA 1776/2016

di Mauro della Porta Raffo

James Madison
nacque il 16 marzo 1851
e morì il 28 giugno 1836
Fu in carica dal 4 marzo 1809 al 4 marzo 1817

La scheda
Nato nel 1751 a Port Conway (Virginia), fu tra i protagonisti della rivoluzione americana, essendo tra i membri più attivi della Convenzione di Filadelfia, nonché il principale tra i Padri della Costituzione.
Dopo essere stato Segretario di Stato durante i due mandati di Jefferson (con cui aveva fondato il Partito Repubblicano-Democratico), Madison vinse le elezioni del 1808, divenendo il quarto Presidente degli Stati Uniti d’America.
Durante la sua Presidenza la politica estera divenne centrale nel dibattito pubblico: lo scacchiere politico statunitense iniziò difatti a spaccarsi su un’eventuale Guerra all’Inghilterra.
Una Guerra fortemente voluta dai cosiddetti ‘falchi’, soprattutto per ragioni commerciali: quei falchi che alla fine prevalsero, portando Madison a dichiarare guerra nel 1812.
Gli Stati Uniti subirono così il primo attacco sul proprio suolo in quanto le truppe inglesi conquistarono Detroit (pur perdendola poco dopo) per arrivare poi nella capitale, Washington, che fu messa a ferro e fuoco.
A queste vittorie britanniche fece tuttavia da contraltare un successo militare statunitense a New Orleans.
Il conflitto si concluse con un compromesso e un sostanziale nulla di fatto.
Scaduto il secondo mandato, si ritirò a vita privata.
Morì nel 1836 a Port Conway.

Varese, 21 marzo 2024

Biden al bivio: imiterà Jimmy Carter o Harry Truman?

di Massimiliano Herber
RSI

I sondaggi per ora non attestano lo sperato balzo in avanti di Joe Biden dopo il grintoso discorso sullo Stato dell’Unione. Gli indici di popolarità sono da prendere con le pinze, ma il rischio che il Presidente numero 46 possa diventare un “One Term President”, un presidente per un solo mandato, è reale.

Dall’autunno, più di un analista e molti avversari azzardano un infausto paragone con Jimmy Carter. Come il presidente sconfitto da Ronald Reagan nel 1980, Biden continua a fare i conti con l’inflazione e due crisi di politica estera condizionano gli umori del suo elettorato: una in Medio Oriente (oggi Israele, nel 1979 l’Iran) e una causata da un’invasione militare voluta da Mosca (allora in Afghanistan, oggi in Ucraina).

Ma c’è un precedente storico che parrebbe più calzante (e benaugurante): quello con Harry Truman, che nel 1948 si ricandidò per un secondo mandato contro il repubblicano Thomas Dewey. Bassa popolarità, Inflazione alle stelle del dopo Seconda Guerra Mondiale, minoranza al Congresso, scetticismo per l’impegno americano all’estero (allora per gli aiuti post-bellici all’Europa) sono le simili zavorre del primo mandato di Truman e di Biden. E oggi, sostiene Michael Kazin, professore di storia e della politica americana alla Georgetown University, la strategia del successore di Franklin Delano Roosevelt pare essere il copione della campagna di Biden.

Prima lezione: scegliere alcuni temi cardine per ricompattare la coalizione. E l’analogia è quella dei diritti: “Allora Truman si batté per maggiori tutele per i diritti dei lavoratori e più potere ai sindacati, “diritti” simili alla questione dell’aborto per i Democratici di oggi. Un tema chiave caro alla base democratica e che va (in qualche misura) pure oltre ad essa”.

Secondo punto: fare concessioni un po’ a tutti, senza aver timore di sembrare “populisti” con proposte come l’aumento delle imposte per i ricchi, gli sgravi per i figli o per l’acquisto della prima casa ammiccando al centro. “La maggior parte – continua Kazin – non vuole si tocchi la sicurezza sociale. Vuole un ampiamento della copertura sanitaria. Desidera norme ambientali e un’economia più sostenibile. Cose su cui i Democratici sono favorevoli, ma che, sotto la guida di Biden, non sono riusciti a comunicare come avrebbero dovuto”.

Terzo consiglio: come Truman fece campagna contro l’immobilismo del Congresso a maggioranza repubblicana, “la Camera dei rappresentanti – chiosa il professore – oggi pare in stato di caos, incapace di approvare perfino il finanziamento del governo.

Nel gennaio 1948 l’inflazione era al 10%, ma ad ottobre era dimezzata. Analogamente oggi la percezione dell’aumento dei prezzi rimane più alta rispetto ai dati reali: come Truman, Biden ha bisogno che gli americani possano vedere anche “nel portafoglio” gli effetti della sua politica economica.

Ma “la storia non si ripete”, ammonisce Kazin, Biden ha 81 anni mentre Truman ne aveva 64 e “la maggior parte di chi voterà per Biden voterà più contro Donald Trump che per Biden. E questo non era vero per Truman. Il giudizio su di lui era ambivalente, ma abbastanza persone lo apprezzavano, pensavano fosse stato un buon presidente e che lo sarebbe sarebbe stato anche in futuro”.

Un futuro che rimane incerto anche se la Storia quest’anno si è “divertita” a replicare la sfida del 2020.

Varese, 20 marzo 2024

Biden e Trump vincono le Primarie del 19, con qualche scricchiolio

da RSI

Tutto secondo il copione: Joe Biden e Donald Trump si riconfermano come i canditati preferiti del loro rispettivo elettorato. Durante le primarie di martedì entrambi i concorrenti hanno riscosso largo consenso in tutti gli Stati, superando il 70% di appoggio.

Il presidente in carica Joe Biden in particolare ha registrato vittorie schiaccianti: in Illinois e in Arizona ha conquistato il 90% degli elettori, portandosi a casa rispettivamente 147 delegati e 72. In Ohio e Kansas ha dovuto accontentarsi di un netto 80% delle preferenze, raccogliendo 115 e 33 rappresentanti. En plein invece in Florida, dove i democratici hanno semplicemente cancellato le primarie consegnando tutti e 224 i delegati al presidente. Tirando le somme, attualmente Biden dispone di 2’488 rappresentanti, ampiamente sopra la soglia di 1’968 necessari per la nomina.

Serata senza suspence anche per l’ex presidente Trump, che in tutti gli Stati ha convinto tre quarti degli elettori. In Florida ed in Illinois è piaciuto all’81% degli elettori, incassando rispettivamente 125 e 64 delegati; seguono Ohio (79%), Arizona ( 77%) e Kansas (75%), dove ha collezionato complessivamente 161 rappresentanti. Un risultato che lo porta a 1’623 delegati, quattrocento abbondanti in più di quelli richiesti per la corsa alla Casa Bianca (1’215).

Una primaria solida per il tycoon, macchiata solamente dalla presenza di Nikki Haley che, malgrado si sia ritirata dalle presidenziali ad inizio marzo, è riuscita a riscuotere almeno il 14% in ogni Stato; in Arizona ha convinto quasi un repubblicano su cinque (19%).

Varese, 20 marzo 2024

I Presidenti americani

schede individuali essenziali da
George Washington a Barack Obama
come scritte per il saggio
USA 1776/2016

di Mauro della Porta Raffo

Thomas Jefferson
nacque il 13 aprile 1743
e morì il 4 luglio 1826
Fu in carica dal 4 marzo 1801 al 4 marzo 1809

La scheda
Nato nel 1743 a Shadwell (Virginia), divenne un avvocato di successo, iniziando ad interessarsi ben presto alla vita politica.
Dapprima deputato del Congresso Continentale, durante la Guerra d’Indipendenza fu Governatore della Virginia per divenire poi Ambasciatore a Parigi.
Qui dal 1785 al 1789, entrò in contatto con quelle idee illuministe che avrebbero influenzato poi notevolmente il suo pensiero politico e religioso.
Segretario di Stato sotto George Washington, entrò presto in collisione con il federalismo di Hamilton.
In tal senso, Jefferson fondò il Partito Repubblicano-Democratico insieme a James Monroe e James Madison: uno schieramento fondato sull’idea di un profondo decentramento politico-amministrativo, in netto contradditorio con il centralismo dei federalisti.
Una polemica che Jefferson proseguì anche nella sua carica di Vicepresidente a fianco del Capo dello Stato federalista John Adams, di cui non condivise affatto l’approvazione unilaterale degli Alien and Sedition Acts, da lui giudicati espressione di autoritarismo.
Nel 1800 Jefferson vinse le elezioni, battendo Adams dopo una campagna elettorale durissima che suscitò profonde divisioni.
Tanto che lo stesso Jefferson, appena eletto, si sentì in dovere di asserire che sarebbe stato il Presidente di tutta la nazione e non solo della propria fazione politica.
I due mandati della sua Presidenza furono costellati da eventi importanti: l’acquisizione della Louisiana dalla Francia, l’apertura della frontiera verso Ovest (con un primo tentativo di salvaguardia degli indiani), l’abbattimento del debito pubblico statunitense.
In politica estera, per quanto di idee illuministe e sostanzialmente francofile, Jefferson si mantenne piuttosto cauto, mantenendo una posizione in buona parte isolazionista (soprattutto in relazione alle guerre napoleoniche che infiammavano l’Europa).
Varò anche un provvedimento che vietava l’importazione della schiavitù: provvedimento che rimase però sostanzialmente lettera morta.
Allo scadere del suo secondo mandato, rifiutò una terza candidatura, citando esplicitamente il caso di Washington.
Ritiratosi a vita privata, morì a Charlottesville nel 1826, alquanto incredibilmente il 4 luglio, nel cinquantesimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza, lo stesso giorno nel quale passava a miglior vita anche il rivale John Adams.

Varese, 19 marzo 2024

Comunicato del movimento No Labels (1) ricevuto il 18 marzo 2024

Caro
Mauro della Porta Raffo,
Il movimento No Labels è orgoglioso di annunciare di essersi garantito l’accesso alle urne nel grande Stato del Tennessee.
Tale avvenimento segna un altro passo avanti nel nostro lavoro per offrire alla maggioranza basata sul buon senso la scelta che desidera nelle elezioni del 2024.
La soglia legale delle firme per partecipare alla votazione in Tennessee è di 43.500 e No Labels ne ha raccolte oltre 48.000 valide dagli abitanti locali che desiderano una differente opzione in vista della votazione di questo autunno.
No Labels è ora in ballottaggio in diciassette Stati:
Alaska,
Arizona,
Arkansas,
Colorado,
Florida,
Hawaii,
Kansas,
Maine,
Maryland,
Mississippi,
Montana,
Nevada,
North Carolina,
Oregon,
South Dakota,
Tennessee e
Utah.
(Ricordiamo che nella campagna del 1992 Ross Perot, che a novembre era presente al ballottaggio in tutti i cinquanta Stati, alla fine di marzo aveva ottenuto l’accesso al voto in uno soltanto).
Mentre gli organi direttivi partigiani dei partiti stanno cercando di fermare No Labels, il nostro movimento di base sta costruendo un trampolino di lancio senza precedenti per un ticket presidenziale per l’Unità da mettere in campo per la corsa alla Casa Bianca.
La maggioranza degli americani ha chiarito di essere stanca dello status quo bipartitico che ha lasciato il Paese impantanato nell’inazione su alcune delle questioni più urgenti, dal confine non garantito a debito e deficit in ascesa, al sostegno dei nostri alleati in tutto il mondo.
No Labels è impegnata a lavorare per un futuro in cui i nostri leader metteranno il Paese al di sopra dei partiti politici e lavoreranno insieme per risolvere questi e altri problemi urgenti.
Nelle prossime settimane annunceremo l’esito del lavoro del nostro comitato Country Over Party, quando avrà selezionato personalità che soddisfino standard elevati e rappresentino
i nostri valori fondamentali
potendo competere in tutti i cinquanta Stati e vincere la Casa Bianca a Novembre.

(1) No Labels (Nessuna etichetta) è un’organizzazione politica americana la cui missione è sostenere posizioni di centro attraverso quella che chiama la “maggioranza del buon senso”.
No Labels è stata fondata nel dicembre del 2010 e, come si vede nel testo che ho ricevuto e pubblico, opera attivamente nella campagna presidenziale in corso.

Varese, 18 marzo 2024

I Presidenti americani

schede individuali essenziali da
George Washington a Barack Obama
come scritte per il saggio
USA 1776/2016

di Mauro della Porta Raffo

John Adams

nacque il 30 ottobre 1735

e morì il 4 luglio 1826

Fu in carica dal 4 marzo 1797 al 4 marzo 1801

La scheda

Nato nel 1735 a Braintree (Massachussets), divenne ben presto sostenitore dell’indipendenza politica ed economica delle tredici colonie rispetto alla madrepatria britannica.

Divenuto membro del Congresso di Filadelfia, vi portò le proprie istanze rivoluzionarie, appoggiò la nomina di George Washington a comandante supremo del neonato esercito americano e prese attivamente parte alla redazione della Dichiarazione di Indipendenza, proclamato il 4 luglio del 1776.

Nel corso della Guerra d’indipendenza diede prova della sua abilità diplomatica come Ambasciatore a Parigi e a Londra.

Insieme a Franklin negoziò il Trattato di Parigi nel 1783, sancendo così l’indipendenza delle colonie.

Vicepresidente durante l’amministrazione Washington, si avvicinò in questo periodo al Partito Federalista di Hamilton, proponendo un modello statale di stampo centralizzato.

Questa dottrina fu da lui messa in pratica una volta eletto Presidente nel 1796, dopo aver sconfitto Thomas Jefferson (che divenne suo Vice): fece difatti approvare i contestatissimi Alien and Sedition Acts (con cui si limitava l’acquisizione della cittadinanza e si ampliavano i poteri presidenziali in caso di emergenza).

In politica estera intrattenne rapporti burrascosi con la Francia, sfiorando addirittura la possibilità di una guerra (cosa che lo indusse a nominare nuovamente il vecchio Washington comandante delle truppe in capo).

Divenuto fortemente impopolare a causa del suo autoritarismo, perse le elezioni del 1800 che videro trionfare il suo Vice (e rivale) Thomas Jefferson, determinando così una vittoria dei repubblicani.

Ritiratosi a vita privata, morì nel 1826, proprio come il più volte citato rivale di una vita, esattamente il 4 luglio, giorno del cinquantesimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza, a Quincy nel suo Massachussets.

Varese, 17 marzo 2024

Stati Uniti d’America:
Der Stand der Dinge
(lo stato delle cose in tedesco, la più assertiva tra le lingue), l’Ipotesi McMullin e la ragione per la quale i terzi candidati splendono l’espace d’un matin.
Infine, un significativo Nota Bene

di Mauro della Porta Raffo

Uno.
Il Presidente degli Stati Uniti in carica e in cerca di un secondo mandato Joe Biden, democratico, e il defenestrato suo predecessore Donald Trump, repubblicano, da qualche giorno (sostanzialmente, dopo il Super Tuesday), per quanto invisi per differenti ragioni a non pochi, hanno la Nomination in tasca avendo superato il numero di delegati richiesto per ottenere l’investitura nell’ambito delle rispettive prossime Convention estive.

Due.
La sola vera competitrice in campo repubblicano, Nikki Haley, ha abbandonato il certame senza peraltro dichiarare il proprio endorsement a Trump, lasciando conseguentemente liberi i propri sostenitori (non pochi, dato che, sulla base delle votazioni finora effettuate, ammontano all’incirca ad un parziale venticinque/trenta per cento comprendendo non solo i repubblicani contrari al tycoon ma anche gli indipendenti che esprimendosi a suo favore hanno dato risalto ad un non trascurabile orientamento).
Come in sede novembrina si atteggeranno costoro?
I repubblicani dissidenti non andando alle urne preferendo la traversata del deserto già messa in atto nel 2008 – in verità, allora, ad opera dei più conservatori che non accettavano il poco deciso, l’accomodante sui temi etici John McCain – che fu tra le cause della vittoria di Barack Obama?
Gli indipendenti, in quale direzione dividendosi?

Tre.
La stessa ex Governatrice Haley ha escluso un proprio inserimento al secondo rango nel ticket repubblicano (non che Trump gliel’abbia offerto, per carità).
Ha però anche dichiarato – evidentemente, pensando già al 2028 – di non essere interessata a proporsi come indipendente o a correre per un terzo partito (rifiutando le avance ricevute in tal senso in particolare dal da poco costituito movimento No Labels).

Quattro.
D’altra parte, oggi come oggi stante la situazione non solo dal punto di vista politico ma da quello per così dire pratico, concreto, sul campo, solo i democratici e i repubblicani (ovviamente) hanno ottenuto da tutti gli Stati e dal District of Columbia il Ballot Access, sono cioè ammessi alle votazioni novembrine potendo contare sulla intera platea dei cinquecento trentotto Elettori (con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni perché effettivamente incaricati di eleggere il Capo dello Stato).
Cosa che i libertariani e i verdi – i soli altri due movimenti politici strutturati nell’intera Unione sia pure parzialmente – per non parlare dei partiti decisamente minori e degli indipendenti alla Robert Kennedy jr, non sono stati in grado di fare restando quindi a loro impedito l’intero pacchetto dei delegati e conseguentemente, anche avessero largo seguito (cosa non vera), avvicinare quote di Elettori non si dice vincenti ma significative.

Cinque.
È pur vero che resta in campo la cosiddetta ‘ipotesi McMullin’.
Nel 2016, David Evan McMullin, un repubblicano non intenzionato a seguire il nominato Donald Trump, si candidò come indipendente in alcuni Stati.
Mormone, fu per qualche momento in vantaggio nei sondaggi nello Utah.
Avesse vinto in quello Stato (vincesse il 5 novembre Tizio o Sempronio in un qualsiasi altro), avrebbe sottratto (sottrarrebbe Tizio) al computo totale degli Elettori (con l’iniziale maiuscola come sopra detto) quelli localmente spettanti rendendo più difficile il raggiungimento della maggioranza assoluta ai due principali contendenti se divisi da pochi voti delegazionali.
In astratto, portando alle estreme conseguenze l’iter procedurale (come accaduto una sola volta, nel 1824).
Per capirci: raggiungere
la maggioranza assoluta di duecento settanta Electors risulta più difficile se ai totali cinquecento trentotto si sottraggono, che so?, i quindici che spettano al Michigan conquistati da un terzo.
Ove accadesse quindi che in sede di Collegio gli Elettori non potessero arrivare alla nomina, la competenza passerebbe alla Camera dei Rappresentanti dove nei seguenti ballottaggi si voterebbe per Delegazione valendo uno il consenso di ciascuno Stato a prescindere dalla composizione del suo gruppo (la California e il Wyoming, cioè, pesano nella circostanza allo stesso modo pur avendo lo Stato con capitale Sacramento un’infinità di abitanti in più.
Questo perché a quel mentre – come per quanto riguarda il fatto che tutti i componenti l’Unione hanno diritto comunque a due Senatori anche se quasi disabitati – conta il fatto che gli USA sono una federazione tutti i membri della quale hanno pari dignità).

Sei.
Va qui ricordato – visto che molti ipotizzano alternative – che nelle ultime venticinque occasioni elettorali nazionali solo in due circostanze un terzo candidato ha preso un numero di voti popolari superiore al dieci per cento (nel 1924 Robert La Follette, nel 1992 Ross Perot) e che se altri ad urne ancora lontane (John Anderson nel 1980) parevano in grande spolvero, alla fine, nello urne, riducevano grandemente l’impatto.
(Tale fenomeno è stato spiegato ricordando – non che dipenda dall’accadimento ma per chiarire – quanto avvenuto nel 2000 con il verde Ralph Nader.
In Florida, come si ricorderà decisiva a favore di George W. Bush, secondo molti, le preferenze date al predetto Nader impedirono al democratico Al Gore di prevalere e di arrivare in tal modo alla Executive Mansion.
Accadrebbe quindi che temendo con il voto per un terzo al quale pure ci si sente all’inizio vicini di procurare la vittoria del candidato tra i due principali che meno si gradisce, alla fine si converga sul meno avverso.
Il predetto Anderson era accreditato di un bel venti per cento e al termine della corsa dovette accontentarsi di un sia pure onorevole sei e sei.
Così va il mondo).

Nota bene
Ho fatto riferimento alle votazioni del 1824 che trovarono esito solo nel voto camerale dei Rappresentanti.
Ebbene, fu in conseguenza di quel risultato assolutamente rifiutato dall’a quella maniera battuto Andrew Jackson che alla fine nacque il Partito Democratico.
Stante l’impasse nel quale – occorre pur dirlo – si trovano politicamente gli Stati Uniti non sarebbe affatto male se da una complicazione analoga si palesasse un nuovo movimento profondamente innovatore.

Varese, 17 marzo 2024

I Presidenti americani

schede individuali essenziali da
George Washington a Barack Obama
come scritte per il saggio
USA 1776/2016

di Mauro della Porta Raffo

George Washington
nacque il 22 febbraio 1732
e morì 14 dicembre 1799
Fu Presidente dal 30 aprile 1789 al 4 marzo 1797

La scheda
Nato nel 1732 a Bridges Creek (Virginia), intraprese la carriera militare nel corso della Guerra dei Sette Anni, battagliando contro i francesi e acquisendo la fama di valoroso combattente.
Avvicinatosi successivamente alla politica, fu eletto nel parlamento della Virginia nel periodo in cui le polemiche contro l’Inghilterra esplodevano vigorosamente.
Divenuto dunque membro del Congresso Continentale nel 1774, a causa del precipitare degli eventi, il Presidente John Hancock lo nominò comandante in capo del neonato esercito indipendentista nel 1775, avviando così la Guerra con la madrepatria.
Dopo aver riportato una serie di vittorie contro gli inglesi, sferrò loro il colpo di grazia nella battaglia di Yorktown: si giunse così alla Pace di Parigi nel 1783 con cui l’Inghilterra riconosceva l’indipendenza delle tredici colonie.
Divenuto un’autentica celebrità, fu Presidente della Convenzione di Filadelfia: in questo ruolo partecipò alla redazione della Costituzione, battendosi particolarmente per l’introduzione di un potere esecutivo forte.
Nel 1789 diventò il primo Presidente degli Stati Uniti d’America, il solo indipendente non avendo partito di riferimento, in un periodo storico decisamente turbolento.
Cercò costantemente di presentarsi come uomo della Nazione, assumendo quindi un atteggiamento il più possibile neutrale e super partes, non riuscendo comunque ad evitare il formarsi di una (seppur fisiologica) dialettica interna alla politica statunitense tra i federalisti, guidati da Hamilton (che propugnavano la tesi di uno Stato centralizzato, una tesi cui lo stesso Washington guardava con un certo favore) e i repubblicani, guidati da Jefferson (favorevoli ad un maggiore decentramento politico-amministrativo).
Sul fronte estero poi, Washington tese a mantenere una posizione molto cauta nello scontro tra Francia e Inghilterra, evitando di schierarsi a fianco dei rivoluzionari francesi e attirandosi per questo numerose critiche in patria, accusato di fare il gioco dell’odiata politica britannica.
Terminato il secondo mandato nel 1797, rifiutò un terzo incarico, ritirandosi a vita privata.
Morì due anni dopo a Mount Vernon.

Varese, 15 marzo 2024

William Jennings Bryan, Clarence Darrow e Charles Darwin, nientemeno.

1925, Dayton, Tennessee.
Nel ‘Profondo Sud’ americano, sulla scorta di una legge approvata pochissimo tempo prima, ecco aprirsi un processo per qualche verso di poco conto (l’imputato finirà per essere condannato al pagamento di una multa di cento dollari!) nei cui confronti, però, si appunta, sollecitata dal famoso giornalista Henry Louis Mencken, l’attenzione dell’intera nazione.
Alla sbarra, John T. Scopes, giovane insegnante di biologia presso il locale liceo, accusato di aver violato (lo aveva fatto volontariamente per attirare l’attenzione dei media sulla nuova disposizione) la legge che, come detto da pochi mesi, proibisce anche solo di accennare a scuola alle teorie evoluzionistiche darwiniane.
In sua difesa, appositamente arrivato dalla metropoli, nientemeno che il grande penalista Clarence Darrow, celebre in tutto il Paese, al quale l’accusa contrappone un ‘esperto’ della Bibbia di primissimo piano, William Jennings Bryan, già Segretario di Stato con Woodrow Wilson dal 1912 al 1915 e, per parte sua, in precedenza, tre volte invano candidato alla Casa Bianca.
‘Esperto della Bibbia’ ed è questo il punto.
In Tennessee, come in molti altri Stati dell’Unione (e non solo fra quanti appartenenti alla cosiddetta ‘Bilble Belt’) è – allora e per molto tempo a venire se non ancora ai nostri giorni – quel libro sacro il fondamento incontrovertibile, anche e soprattutto riguardo alla creazione dell’uomo. Tutti, in quelle e nelle vicine terre, rifiutando assolutamente l’Evoluzionismo che “va contro il dettato divino”, sono ‘creazionisti’!
Assalto dei media (il processo sarà il primo seguito via radio in tutto il Paese).
Grandi emozioni.
Contrasti insanabili di educazione, di stile e di carattere tra Darrow e Bryan che peraltro si conoscevano benissimo ed erano in qualche modo amici.
Memorabile, l’interrogatorio del primo al secondo:
“Crede che il sole sia stato creato il quarto giorno?”
“Si”.
“E c’erano già il mattino e la sera?”…
Come si è detto, vittoria dell’accusa, del tutto effimera visto che il verdetto verrà annullato in sede di Corte Suprema.
Infine, morte per infarto, pochissimi giorni dopo e probabilmente in conseguenza dell’aspra contesa verbale, di William Jennings Bryan, in qualche modo personalmente sconfitto considerato che di fronte all’intera nazione, alla radio, ne erano state svelate le posizioni oscurantiste.
L’appassionante vicenda verrà rappresentata a teatro con grande successo (‘Inherit the Wind’, autori, Jerome Lawrence e Robert E. Lee) e quindi trasposta cinematograficamente due volte.
Da Stanley Kramer nel 1960 – ‘…e l’uomo creò Satana’ – con Spencer Tracy e Fredric March sul grande schermo, e molti anni dopo, in un film tv (‘1925, Il processo della scimmia’), con Kirk Douglas e Jason Robards.

Varese, 14 marzo 2024

Biden e Trump hanno superato il numero di delegati alle Convention necessario per essere in quell’ambito ‘nominati’

RSI app

I giochi erano già fatti, ma dalla notte su mercoledì lo attestano anche i risultati delle primarie repubblicane e democratiche tenutesi in quello che è stato definito il “mini super Tuesday”.

L’ex presidente Donald Trump, che aveva già in carniere un bottino di 1’075 delegati, ha raggiunto la fatidica soglia dei 1’215 delegati necessari per assicurarsi la nomination repubblicana. Tutto questo alla luce di quanto ottenuto, o in via di ottenimento, in quattro Stati, tra cui Mississippi e Georgia, dove il tycoon era stato incriminato per per aver tentato di ribaltare i risultati delle elezioni presidenziali del novembre 2020.

Dal canto suo il presidente in carica, il democratico Joe Biden, aveva bisogno di 1’968 delegati per avere la matematica certezza della futura nomination. Secondo Edison Research, questo numero era stato superato martedì sera, dopo l’inizio del conteggio delle schede in Georgia.

Ora i due anziani sfidanti, Biden ha 81 anni e Trump 77, sono “presumptive nominee”, candidati impalmati, si potrebbe dire, in attesa della consacrazione ufficiale alle convention estive dei loro partiti.

Per l’ex presidente è comunque arrivato un segnale d’allarme, dato che la sua ex rivale Nikki Haley, pur essendosi ritirata dalla corsa, ha ottenuto in Georgia circa il 15% dei voti. Tra i repubblicani resta quindi uno zoccolo duro anti Trump, che negli Stati in bilico come la Georgia appunto, potrebbe essere decisivo.

Varese, 12 marzo 2024

‘American Fiction’, meritata condanna ad opera di assolutamente adeguati neri dell’inadeguatezza culturale di larga parte dei dominanti bianchi americani

di Mauro della Porta Raffo

Guardare – senza arrivare alla secessione come verrebbe naturale fare vedendo la dura rappresentazione della realtà offerta – l’ottimo ‘American Fiction’ per capire in qual modo i neri americani di alto livello culturale (tutti gli autori e senza dubbio gli interpreti della pellicola – nella quale, come raramente accaduto, appare e si evidenzia la scala sociale che nell’ambito razziale li divide – evidentemente lo sono e viene da pensare votino repubblicano!) giudicano i ‘radical chic’ bianchi della imperante sinistra USA (che ha fatto e fa scuola, altroché) sullo schermo spietatamente rappresentata da scodinzolanti idioti per la maggior parte squittenti e checche.
Il film (cominciando dai nomi e dai soprannomi dei personaggi, primo fra tutti quelli del protagonista Thelonious ‘Monk’ Ellison, un dai tempi dell’oramai lontano ‘Basquiat‘ efficacemente complicato Jeffrey Wright) propone fra l’altro riferimenti, citazioni e dialoghi che certamente gli stessi bianchi messi in campo o ai quali ci si riferisce (“A Hollywood nessuno legge”, afferma l’agente letterario, concludendo “Tutti si fanno fare dei riassunti”) non possono comprendere, ignoranti come sono.
Calci negli stinchi sprecati però quelli assestati dato che nella sinistra melma nulla cambierà se non in peggio.
Notevole, incidentalmente, il fatto che uno dei film candidati all’Oscar assieme ad ‘American Fiction’ – segnatamente ‘Maestro’ voluto da Bradley Cooper – narri di Leonard Bernstein e della moglie Felicia Montealegre i quali organizzarono al tempo una frequentata festa per raccogliere fondi per le Pantere Nere (?!), festa i cui partecipanti, maestri di mascherata superficialità, ispirarono a Tom Wolfe (non per niente autore del dissacrante e tuttavia consacrante ‘Il falò delle vanità’) la creazione appunto del significativo neologismo ‘radical chic’.

Varese, 12 marzo 2024

Non Martha, Dolley, Lady e First Lady

di Mauro della Porta Raffo

Martha Dandridge Custis, consorte del primo Presidente degli Stati Uniti d’America George Washington, ai tempi, era alternativamente denominata Lady Washington, Mrs. President o Mrs. Presidentress.
Non First Lady, anche se poi, abitualmente, così venne e viene definita.
Non First Lady perché tale appellativo fu usato per la prima volta dal Presidente Zachary Taylor nel 1849 nella orazione funebre pronunciata al funerale di Dolley Payne Todd, vedova di James Madison.

Vanno sottolineate alcune particolarità in merito alle due Signore.
Per cominciare, Martha in aramaico significa padrona di casa (non per niente la cognata di Ethan Edwards che lo accoglie nella costruzione familiare in tronchi all’inizio di The Searchers viene in questo modo chiamata da Frank Nugent) e, per quanto in effetti Lady Washington non abbia mai risieduto nella definitiva dimora presidenziale inaugurata dopo la fine del secondo mandato del coniuge ed anzi successivamente anche alla di lui dipartita, resta significativo che la moglie del primo Capo dello Stato americano si chiami proprio così.
Poi, Dolley Madison è la sola consorte di un Presidente USA che abbia dovuto precipitosamente scappare dalla dimora presidenziale.
Accadde il 24 agosto del 1814 allorquando le truppe inglesi impegnate sul territorio americano a combattere in quella che viene chiamata Guerra del 1812 (che, come si vede, si protrasse ben oltre quell’anno) o Anglo-Americana diedero fuoco all’edificio.
Leggenda vuole che la colazione preparata quella mattina per lei e per il marito sia stata consumata ancora tiepida dall’ufficiale comandante le in quella circostanza vincenti truppe britanniche.
Nessuna delle due, in effetti – ed è questa la ragione per la quale nel testo non si parla mai di White House – ha vissuto nella Casa Bianca quale a noi nota perché è appunto in conseguenza dell’incendio di cui abbiamo parlato che l’edificio verrà ricostruito e dipoi, sostanzialmente a causa del colore esterno, denominato.

Varese, 11 marzo 2024

Miami, come da me narrata il 2 aprile del 2013, esattamente cinquecento anni dopo l’arrivo in Florida del primo europeo

Collocata sulla costa orientale nel Sud della Florida, la città è capoluogo della Contea Miami-Dade.
Gli abitanti sono meno di cinquecentomila ma considerandone l’area metropolitana si avvicinano ai sei milioni.
Per quanto, nel comune sentire, Miami Beach venga ritenuta un tutt’uno con Miami, così non è essendo costituita in comune autonomo.

1) La scoperta della Florida
Governatore all’epoca di Portorico, Juan Ponce de Leon, a quel che dice la leggenda, sessualmente impotente ed avendo avuto notizia dell’esistenza da quelle parti inesplorate del continente settentrionale americano della ‘Fontana dell’Eterna giovinezza’ abbeverandosi alla quale avrebbe superato il gravissimo problema, cinquecento anni fa, il 2 aprile 1513, primo tra gli europei, mise piede in Florida.
Era la Domenica di Resurrezione, in spagnolo della ‘Pasqua Florida’.
Non guarì, purtroppo non trovò la mitica fontana né l’acqua di Bimini, dotata delle medesime capacità, ma collocata, ahilui, in una delle isole omonime facenti parte delle Bahamas laddove ancora oggi non pochi accorrono nella speranza, bevendo, di ritrovare la perduta virilità.

2) Gli anni che vanno dal 1817 al 1858 videro i nativi americani via, via arrivati in Florida opporsi agli Stati Uniti.
Denominati ‘Seminole’ ma facenti parte di tribù diverse, combatterono strenuamente tanto che la Seconda Guerra (la Prima, iniziata come detto nel 1817 cessò l’anno dopo), durata dal 1835 al 1842, fu il più lungo conflitto combattuto dagli USA tra la Guerra di Liberazione e quella del Vietnam.

3) Trattandosi in queste righe di Miami, quei lontani accadimenti vanno ricordati perché portarono all’edificazione dell’unico monumento storico della città: Fort Dallas, sito in Downtown.
Città che comunque non esisteva, essendo data ufficiale di fondazione il 28 luglio 1896.
(All’epoca, non pochi proponevano che il nuovo insediamento si chiamasse ‘Flagler’ in onore di Henry Morrison Flagler, il magnate che aveva molto investito in Florida in particolare nelle comunicazioni ferroviarie.
Fu lo stesso Flagler a dire di no).

4) Miami, prima
Pubblicato nell’edizione definitiva a Parigi nel 1961, il capolavoro di Raymond Cartier ‘Les cinquante Amériques’ dedica alla Florida quattro striminzite pagine e a Miami non molte e poco benevole righe principalmente riservate alla sua attrattività turistica e alla ‘clientela’:
“Lo stile di Miami si chiama ‘florido-mediterraneo’, ciò che dispensa dal descriverlo.
Miami conta quattro spiagge, novantuno piscine di acqua salata, dodici parchi, cinquanta campi da tennis, cinque da golf di cui due privati.
Un quarto di tutte le stanze d’albergo della Florida, suddivise tra decine di enormi edifici, si trova su questa lingua di sabbia che fu, fino al 1913, un isolotto coperto di piante tropicali e quasi impenetrabile.
Le folle di Miami, contrariamente alle élites di Palm Beach, non sono ciecamente raccomandabili quanto a distinzione.
Quella che si reca lì è essenzialmente l’America vistosa, l’America strepitosa e l’America recente.
New York è la principale rifornitrice della grande città floridiana, il che fa dire che Miami è un prolungamento del Bronx.
Non si trova né a Miami né in nessuna parte della Florida nulla che equivalga alla vita letteraria e artistica californiana.
I pochi tentativi fatti per acclimatarvi il cinema sono falliti.
Uomini d’affari della costa del Pacifico fondarono nel 1921 una località che chiamarono Hollywood, ma si trattò solo di una speculazione immobiliare che produsse una piccola città di yachtmen.
Al di fuori degli aranci, la Florida e Miami non forniscono all’America che pelli abbronzate”.
E, per quanto si cerchi, riesce difficile trovare pagine letterarie di rilievo dedicate alla città così come pellicole cinematografiche che, trattandone esclusivamente come località turistica non di serie a, la presentino altrimenti, ivi compreso il capolavoro in commedia di Billy Wilder ‘A qualcuno piace caldo’ che proprio a Miami trova il suo epilogo.
Da un altro particolare punto di vista, si può seriamente concludere per una specie di subalternità di Miami durata fino a tutti gli anni Cinquanta del Novecento: nessuno dei due partiti dominanti la scena politica americana la volle come sede per una Convention, per quanti non lo sapessero il congresso nazionale nel quale repubblicani e democratici ufficializzano la scelta del loro candidato alla Presidenza.
Accadrà, e vedremo come e perché, solo nel 1968 e nel 1972 per i primi e nello stesso 1972 per i secondi.
Ma cosa era cambiato nel frattempo?

5) 1 gennaio 1959, altrove
“Immagini televisive, questa volta.
Una lunga colonna di guerriglieri entra lacera ma vittoriosa l’1 gennaio 1959 a L’Avana.
Se ben ricordo, non molte persone osannanti ai lati delle strade.
Forse non si crede ancora alla fuga notturna, poche ore prima, di Fulgencio Batista.
Certo, non si sa cosa riserva il futuro.
Si spera… si aspetta.
Alla testa dei rivoltosi, Ernesto Che Guevara, Camilo Cienfuegos (Fidel è dall’altra parte dell’isola e arriverà nella capitale solo una settimana più tardi) e, incredibilmente, Errol Flynn, l’attore hollywoodiano di origini tasmaniane.
Cercano di intervistarlo.
Domande dettate da una giusta curiosità: ‘Ma davvero ha partecipato alla lotta?’
Banalità: ‘E’ stanco?’
Eccetera.
Non mi pare abbia voglia di parlare.
Bofonchia qualcosa di non memorabile.
Rammento che in quei momenti ho sperato che davvero avesse lottato con il Che e con Castro e nel contempo mi assaliva il sospetto che si trattasse solo di una abilissima mascheratura tesa a rinverdirne la fama attoriale da qualche tempo in declino.
Non ho mai saputo quale fosse la verità”.

Queste, le parole con le quali, nel capitolo dedicato a Cuba e alla rivoluzione guidata da Fidel Castro, a suo tempo, nel volume ‘Il continente della speranza?’, tratteggiai lo storico momento nel quale la storia dell’isola caraibica veniva sconvolta, successivamente, e allora ben pochi potevano anche solo sospettarlo, sconvolgendo anche quella della Florida, di Miami e, per il vero, degli Stati Uniti tutti.

6) Miami, dopo e oggi
Marco Rubio.
Nato nel 1971, figlio di emigrati cubani, americano di prima generazione, avvocato, già membro della Camera dello Stato, il repubblicano conservatore Marco Rubio, senatore a Washington a seguito della netta vittoria elettorale del 2010, è stato nel trascorso 2012 fra i papabili per comporre, al fianco di Mitt Romney, il ticket appunto repubblicano nella corsa verso White House.
Il fatto che alla fine gli sia stato preferito Paul Ryan è, visto il risultato nell’occasione favorevole a Barack Obama, una fortuna.
Rubio può ora pensare eventualmente a correre in proprio nel 2016 allorquando, non essendo in pista nel partito democratico un Presidente uscente, le possibilità per esponente del Grand Old Party dovrebbero essere maggiori.
Ma perché, trattando di Miami, soffermarsi sul giovane Senatore?
Presto detto: è lì che è nato e la sua carriera in costante ascesa è la dimostrazione di quanto in città, ma invero in tutta la Florida, gli ispanici e in particolare i cubani abbiano preso piede.
Gli è che a seguito della predetta affermazione castrista all’Avana, un gran numero di cubani avversi al conseguente regime e avversati dallo stesso si sono trasferiti con ogni mezzo, e per lunghi anni legalmente, nella a loro vicinissima penisola.
Non che tale situazione abbia prodotto solo persone ‘alla Rubio’, tutt’altro.
Miami è stata per lunghissimi anni, ed è ancora, una delle capitali mondiali del malaffare, in specie del commercio della droga.
Al punto che Brian De Palma, dovendo girare il remake di un film di culto quale ‘Scarface’, che Howard Hawks aveva a suo tempo ambientato a Chicago, ‘gangster’s city’ per eccellenza, non altrove pensò di girarlo.
E’ pur vero, peraltro, che per merito anche della fortunatissima serie televisiva ‘Miami Vice’ – narrava le storie, le avventure di due poliziotti infiltrati nella malavita per combatterla – un certo e pare duraturo risveglio si è avuto in città sia nel campo artistico, che in quello della moda, che ancora del cinema e della musica.
Una ulteriore dimostrazione del fatto che l’immigrazione (anche quella successiva degli haitiani, quella interna dagli altri Stati, nel mentre non va certo trascurata la presenza degli italo americani e di alcune decine di migliaia di italiani tout court) ha totalmente cambiato Miami è data dalle attività sportive a livello professionistico: le squadre sono state tutte fondate in anni recenti, i ‘Miami Dolphins’, football americano, nel 1966; i ‘Miami Heat’, pallacanestro, nel 1988; i ‘Miami Marlins’, baseball, nel 1993.

Certo, se oggi il citato Raymond Cartier avesse la possibilità di aggiornare le sue misere quattro pagine sulla terra scoperta da Juan Ponce del Leon ben cinquecento anni fa nonché le poche righe riservate a Miami, molto di più avrebbe da scrivere, altresì guardando alla locale particolare creatività latino americana che, pur non arrivando a formare una ‘scuola’, propone diversi e diversificati talenti artistici in specie nel campo dello spettacolo.
Parrebbe questa una affermazione scontata e in fondo applicabile a qualsiasi altro Stato o a qualsivoglia città USA, ma così non è.
Gli Stati, le città, le civiltà vivono, prosperano, declinano, muoiono.
La Florida e Miami sono ora in grande spolvero.
Che se lo godano!

Varese, 9 marzo 2024

“No Labels”, alternativa a Biden e Trump, potrebbe proporre un candidato indipendente

da RSI

Un movimento politico americano ha annunciato venerdì l’intenzione di presentare un candidato indipendente per le elezioni presidenziali americane di novembre.
Secondo i democratici, questa decisione potrebbe dividere gli elettori del presidente in carica Joe Biden.

L’organizzazione centrista chiamata “No Labels”, che si descrive come un “movimento nazionale di americani di buon senso”, ha detto che inizierà un processo di selezione dei candidati la prossima settimana.
“No Labels” non ha ancora nominato alcun potenziale candidato.
I media statunitensi hanno riferito che diversi politici legati al movimento si sono ritirati dalla corsa.

Tuttavia, i democratici hanno espresso sommessamente il timore che “No Labels” possa allontanare gli elettori indecisi da Joe Biden, a vantaggio del suo rivale repubblicano Donald Trump.

“Anche se ci siamo incontrati virtualmente, la loro emozione e il loro desiderio di riunire questa nazione divisa trasparivano dallo schermo”, ha dichiarato il leader di No Labels Mike Rawlings in una dichiarazione dopo un incontro con i suoi aderenti.

“Questi cittadini credono che questa sia una causa giusta e che No Labels debba fornire agli americani ciò che vogliono, un’altra scelta”, ha aggiunto Rawlings, assicurando che 800 delegati hanno votato “quasi all’unanimità” a favore della presentazione di un candidato alla presidenza.

“No Labels” è stata fondata nel 2009 da Nancy Jacobson, un’ex raccoglitrice di fondi per i politici democratici e che ora è la direttrice dell’organizzazione, con lo slogan
“Non a sinistra.
Non a destra.
In avanti”.

Varese, 9 marzo 2024

2024 Presidential Election Interactiv Map come proposta alle ore 11.00 di sabato 9 marzo dall’autorevole sito 270towin

Nel titolo si indica l’ora di riferimento precisa perché le mutazioni sono molto frequenti adeguandosi il quadro all’arrivo di nuovi e aggiornati sondaggi dai singoli Stati.

Ciò detto e ricordato che la maggioranza assoluta necessaria nel Collegio formato dagli Elettori (iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni essendo loro specifico compito nominare il Presidente) è pari appunto a duecentosettanta, come indica il nome del sito, ecco i dati:
Repubblicani 239
Democratici 222
Il totale dei primi consta di 155 delegati certi, 67 probabili e 17 possibili.
Quello dei secondi, di 191 certi, 26 probabili e 5 possibili.
Il numero complessivo degli incerti è pari a 77 e fa riferimento agli Electors di Arizona, Georgia, Michigan, Minnesota, Nevada e Pennsylvania.

Varese, 9 marzo 2024

Gli ‘Articoli di Confederazione’, in qualche modo la prima Costituzione

Come non molti sanno, quella in essere non è la prima Legge fondamentale che i neonati Stati Uniti si sono dati ma la seconda.
In effetti, già il 12 giugno 1776 il Congresso aveva creato un Comitato formato da tredici persone (una per ciascuno degli Stati fondatori) al quale fu affidato l’incarico di stendere la Costituzione.
Solo un mese di lavoro, ed ecco gli ‘Articoli di Confederazione’, elaborati in gran parte dal delegato della Pennsylvania John Dickinson: prevedevano un governo centrale con poteri molto limitati.
Era in sua facoltà dichiarare guerra, concludere trattati e alleanze, dividere tra gli Stati le spese comuni, battere moneta, istituire uffici postali e regolare le questioni pendenti con i pellirosse.
Gli mancavano, però, due attributi essenziali per un effettivo esercizio della sovranità: il potere di imporre le tasse e quello di regolare il commercio.
Ovviamente, tutte le potestà non specificamente delegate alla Confederazione spettavano ai singoli Stati, che, come recitava il disposto, “mantenevano sovranità, libertà e indipendenza”.
Di più, non erano previsti organi esecutivi e giudiziari nazionali e i poteri sopra elencati venivano esercitati dal Congresso formato da un’unica assemblea legislativa alla quale partecipavano tutti gli Stati che avevano in quel consesso diritto ad un voto ciascuno.
I trattati e le altre delibere di maggior peso dovevano essere approvati da almeno nove Stati.
Le eventuali modifiche, infine, degli stessi Articoli di Confederazione richiedevano l’unanimità.
La Carta, così come delineata, fu fatta propria dal Congresso nel novembre del 1777 mentre l’iter di ratifica da parte dei singoli Stati si concluse solamente nel febbraio del 1781.
Da subito, la permanente carenza di mezzi finanziari della Confederazione e la minaccia di una vera e propria guerra commerciale fra gli aderenti fecero capire ai più avvertiti quanto fosse necessaria una riforma.
Il cammino verso la nuova Costituzione prese effettivamente avvio nel 1785.

Varese, 8 marzo 2024

La grinta di Joe Biden nel discorso sullo stato dell’Unione

RSI app

Durante il suo discorso sullo Stato dell’Unione, durato oltre un’ora, l’81enne democratico ha fatto 13 riferimenti al suo “predecessore”, che quasi sicuramente affronterà di nuovo alle elezioni presidenziali di novembre. Promettendo di incarnare l’”ottimismo” contro il “rancore” di Donald Trump, la “forza morale” contro l’”odio” alimentato dal repubblicano, giovedì davanti al Congresso, Joe Biden ha attaccato il suo rivale con rara ferocia.

Senza mai nominarlo, ha accusato il 77enne repubblicano di “sottomettersi” al presidente russo Vladimir Putin e di “mettere in pericolo” la democrazia americana. E rispondendo animatamente e persino con gusto alle invettive di alcuni eletti trumpiani, Joe Biden potrebbe anche aver placato, per un certo periodo, i dubbi persistenti degli elettori sulla sua resistenza fisica e mentale.

“Alla mia età, certe cose diventano più chiare che mai”, ha detto, promettendo di difendere “onestà, forza morale, dignità e uguaglianza”. Donald Trump, che a più riprese ha fatto una serie di dichiarazioni incendiarie contro l’avversario tanto in campagna elettorale, quanto in precedenza, ha denunciato, sui social network il discorso di Biden come “arrabbiato, divisivo e pieno di odio”.

Del resto, giovedì sera il presidente Biden ha ribadito davanti al Congresso il suo appello per “un cessate il fuoco immediato” per sei settimane nella Striscia di Gaza. Ha inoltre esortato Israele a fare di più per far entrare gli aiuti umanitari. “Sto lavorando duramente per ottenere un cessate il fuoco immediato di almeno sei settimane”, che consentirebbe il rilascio degli ostaggi israeliani detenuti a Gaza, ha dichiarato nel suo discorso sullo Stato dell’Unione al Congresso.

Ha invitato il governo israeliano a “permettere l’ingresso di più aiuti umanitari a Gaza”, sottolineando che gli aiuti umanitari “non possono essere una considerazione secondaria o una merce di scambio”. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione di giovedì, il capo di Stato americano ha anche annunciato la costruzione di un porto temporaneo a Gaza per portare più aiuti al territorio palestinese, dove le speranze di una rapida tregua tra Israele e Hamas stanno scemando.

Tuttavia, secondo gli alti funzionari delle Nazioni Unite, consegnare gli aiuti umanitari con un paracadute o via mare non può sostituire il trasporto via terra, e si avverte che “una carestia diffusa è quasi inevitabile” a Gaza. E ponendo l’accento sulla situazione della popolazione civile nella Striscia, Joe Biden ha esortato Israele a non usare gli aiuti umanitari come “merce di scambio” nella Striscia di Gaza, con tante persone che rischiano di morire di fame dopo cinque mesi di combattimenti, affermando di lavorare per “un cessate il fuoco immediato”.

Sempre davanti al Congresso, Biden ha lanciato un’accesa difesa dei diritti all’aborto durante il suo discorso, facendo riferimento al potere elettorale delle donne otto mesi prima delle elezioni presidenziali in cui è candidato. “È chiaro che coloro che si vantano di aver cancellato la protezione federale del diritto all’aborto non hanno idea del potere delle donne”, ha detto Biden.

“Ma se ne sono resi conto quando la libertà di controllare il proprio corpo era in gioco alle urne, e abbiamo vinto nel 2022 e nel 2023, e vinceremo di nuovo nel 2024”, ha aggiunto questo cattolico convinto, che difende il diritto all’aborto, tra gli applausi del suo campo, andando controcorrente rispetto ai suoi compagni di partito.

L’aborto è uno dei temi cardine della campagna presidenziale di novembre. Nell’estate 2022 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ribaltato la propria decisione in merito e ha annullato la protezione federale dell’aborto, consegnando una vittoria ai conservatori.

Varese, 7 marzo 2024

Gli ‘orfani’ di Nikki Haley e la possibile “traversata del deserto”

di Mauro della Porta Raffo

Cosa farà il 5 novembre prossimo il ventisette per cento degli elettori che nelle finora portate a termine votazioni primarie hanno votato Nikki Haley?
Una parte consistente (assai probabilmente di tale portata anche negli Stati che non si sono finora espressi) questa del novero non solo dei repubblicani (di certo, dove le regole locali lo permettevano, non pochi indipendenti e qualche democratico si erano dichiarati suoi sostenitori).
Immediate, naturalmente, le rilevazioni sondaggistiche in proposito con risultati discordi.
La CNN conclude affermando che l’ottanta per cento non si esprimerà comunque per Donald Trump (l’ex Ambasciatrice non ha assolutamente dato indicazioni cotali e detto al contrario che il tycoon dovrà meritarsi quei voti evidentemente dubitando che ne sia capace) aggiungendo che i due terzi di costoro non lo ritengono adatto a ricoprire l’incarico.
Quinnipiac University invece conclude che la metà di questi ‘orfani’ finirà per votare Trump e poco meno del quaranta per cento addirittura Biden.
Comunque sia, il panorama cambia ed occorrerà tempo per avere indicazioni più serie al riguardo.

Ricordando in particolare quanto accaduto nel 2008 (la destra religiosa repubblicana non si riconosceva assolutamente in John McCain), può certamente accadere che i più convinti tra i simpatizzanti di Nikki Haley decidano per “la traversata del deserto”.
Per astenersi dal voto aspettando tempi diversi, dal loro punto di vista migliori.
McCain anche per questo perse.
Vedremo quanto a Trump.

Varese, 6 marzo 2024

Nikki Haley: “È tempo di lasciare”

Nikki Haley si ritira dalla corsa alla Casa Bianca.
È la conferma della notizia circolata nelle scorse ore dopo la sua netta sconfitta nel “Super Tuesday”.
In un discorso pronunciato martedì in Sud Carolina, il suo Stato, l’ex ambasciatrice all’ONU ha annunciato che “ora è tempo di lasciare”.
Ma prima ha spiegato il perché della sua corsa contro Donald Trump:
“Ho lanciato la mia campagna per la presidenza perché amo il mio Paese e una settimana fa mia madre, un’immigrata, ha votato per sua figlia.”
Haley abbandona dunque la sfida per le presidenziali 2024, ma non fa nessun endorsement.
La repubblicana non ha dichiarato ancora il suo sostegno a Donald Trump ma, citando Margaret Thatcher, ha avvertito:
“Si deve guadagnare i miei voti”.

Varese, 6 marzo 2024

Democrazia in America?!

Sei americani su dieci non vogliono una riedizione del confronto Biden/Trump.
Questo dicono unanimi i sondaggi.
Ciò malgrado, quasi certamente i due si troveranno faccia a faccia dopo le Convention.
È il sistema elettorale che prevede Caucus e Primarie che sostanzialmente impedisce le alternative.
Si guardi all’esito del Super Tuesday.
Tra i democratici recatisi alle urne – ovviamente, una minoranza – un venti per cento circa in verità non sostiene Biden pur non esprimendosi per altri.
Tra i repubblicani, facendo una media, dal venticinque al trenta per cento preferisce Nikki Haley.
Tenendo conto degli indipendenti, si vede come effettivamente la maggioranza non voglia i due vecchi nemici ma debba subirli.
Quanto a seri candidati terzi alle Presidenziali, le procedure per ottenere nei singoli Stati il ‘Ballot Access’ sono scoraggianti e sostanzialmente impediscono a chi non abbia una organizzazione capillare di presentarsi.
Democrazia in America?
Mah???

Varese, 4 marzo 2024

La Corte Suprema ha deciso: Trump è eleggibile!

La Corte suprema degli Stati Uniti conferma l’eleggibilità di Donald Trump in Colorado, uno dei 15 Stati che vota domani nel Super Tuesday. I giudici hanno accolto il ricorso dell’ex presidente contro la decisione della Corte suprema statale di bandirlo per il suo ruolo nell’assalto a Capitol Hill in base al 14/mo emendamento, che vieta le cariche pubbliche ai funzionari coinvolti in insurrezioni contro la costituzione.
La sentenza farà da precedente anche per tutti gli altri ricorsi pendenti negli altri Stati.

Varese, 4 marzo 2024

Hannibal Hamlin

Sapete, quelle figure politiche alle quali si dà un peso relativo e che meritano decisamente di più?
Una tra queste, certamente, Hannibal Hamlin.
Originalmente, un democratico sui generis per le posizioni decisamente anti schiaviste pubblicamente assunte, passò al Partito Repubblicano nel 1856.
Governatore, Senatore e qualsiasi altra cosa del suo Maine (è tuttora considerato tra i massimi politici prodotti da quello Stato), fu candidato alla Vice Presidenza con Abraham Lincoln nel 1860.
Per il prestigio ovviamente.
Anche però con l’intenzione di convincere altri democratici su posizioni vicine a compiere il medesimo percorso.
Eletto, non ebbe con Lincoln il migliore dei rapporti.
Nel 1864 – messo in atto dal GOP il marchingegno per il quale Lincoln si presentava come Unionista e con lui doveva correre un Democratico doc – fu sostituito nel ticket da Andrew Johnson.
Primo Vice Presidente repubblicano della storia, pensò dopo quella parentesi ad altro.
Rientrato al Senato nel 1869, vi resterà per due interi mandati.
Se fosse restato accanto a Lincoln gli sarebbe subentrato e…
Con i se e con i ma, dove vogliamo andare?

Varese, 3 marzo 2024

Madeleine Albright

Madeleine Albright, democratica, studiosa e docente di grandi capacità, agli inizi della carriera vicina quale consigliera per la politica internazionale ad Edmund Muskie, poi membro del National Security Council con Zbigniev Brzezinski, negli anni di Bill Clinton Ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU e in seguito Segretario di Stato (la prima donna a ricoprire l’incarico)…
Un curriculum eccezionale sulla base del quale una sua candidatura alla Presidenza negli anni che l’hanno vista operare con sapienza a quei massimi livelli sarebbe parsa normale…
Normale e invece impossibile, perché Marie Jana Korbelová (questo il suo nome all’anagrafe) era nata a Praga, era quindi in origine una cittadina cecoslovacca arrivata negli USA (nel 1948) e non possedeva uno dei tre requisiti dettati e richiesti dalla Costituzione americana per aspirare alla Presidenza: la cittadinanza USA dalla nascita.

Da questo punto di vista, nella medesima situazione di un suo illustre predecessore agli Esteri: il tedesco d’origine Henry Kissinger (1).
Una regola ferrea alla quale, per quanto la Signora Albright si fosse grandemente distinta, dovette sottostare.
Chapeau, ovviamente e comunque.

(1) I due, per questa ragione, pur essendo il Segretario di Stato ai primi posti nella Lista di Successione alla Casa Bianca, erano dalla stessa linea personalmente esclusi.

Varese, 2 marzo 2024

Il voto alle donne. Il diciannovesimo Emendamento

Per oltre settant’anni, dal 1848 – allorché, a Seneca Falls, alcune signore della più evoluta borghesia sottoscrissero una famosa ‘Dichiarazione dei diritti’ – al 1920, il movimento protofemminista americano si è battuto per ottenere, da padri e mariti, una completa eguaglianza politica.
Per il vero, le richieste avanzate nell’occasione riguardavano anche una effettiva parità economica e sociale, secondo alcuni non raggiunta neppure ai nostri giorni.
Finalmente, il 26 agosto del 1920 entrò in vigore il diciannovesimo Emendamento alla Costituzione che nel primo comma recita: “Il diritto di voto conferito ai cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da uno degli Stati in considerazione del sesso”.
La norma in questione era stata approvata dal Congresso nel gennaio del 1918 a seguito di una improvvisa iniziativa del presidente Woodrow Wilson che si era presentato al Senato per chiederne l’accoglimento dopo che cinque anni prima ne aveva respinto un’altra di pari contenuto.
Il periodo intercorso tra il gennaio 1918 e l’agosto 1920 era occorso per consentire ai singoli Stati di approvare anch’essi (come detta la Carta costituzionale) il deliberato congressuale.
Impone infatti la normativa in merito che gli Emendamenti entrino in vigore quando accolti da almeno tre quarti degli Stati aderenti all’Unione.
Nel caso, fu solo con l’approvazione della legge da parte del Tennessee che il diritto di voto venne effettivamente esteso alle donne.
Leggenda vuole, però, che a portare il Tennessee nel campo suffragista sia stato, essendo determinante il suo parere, il più giovane dei membri del legislativo di quello Stato, il ventiquattrenne Harry Burn, un vero ‘cocco di mamma’, il quale, prima del voto, avrebbe ricevuto dalla genitrice il seguente messaggio: “Esprimiti a favore del suffragio femminile.
Sii un bravo ragazzo e adoperati perché la ratifica sia ottenuta.”
I precedenti: Wyoming e New Jersey
Come detto, negli Stati Uniti il diritto di voto fu concesso alle donne con un Emendamento costituzionale datato 1920.
Peraltro, in precedenza, nel 1869, il territorio del Wyoming – non ancora Stato dell’Unione della quale entrerà a far parte nel 1890 – aveva già riconosciuto al gentil sesso tale diritto.
Nell’anno 1900, le donne potevano votare pienamente anche nel Colorado, nello Utah e in Idaho mentre in altri Stati il diritto era loro riconosciuto solo nelle elezioni dei comitati scolastici.
A ben guardare, però, la Costituzione del New Jersey del 1776, non distinguendo in termini di sesso riguardo al voto, aveva per prima – e a livello mondiale – aperto al suffragio delle signore.
Le donne, colà, poterono esercitare tale diritto solo fino al 1807, allorquando una riforma lo riservò esclusivamente agli uomini.

Varese, 1 marzo 2024

Franklin Pierce, vittorioso nel tramonto dei whig

In un momento di grave crisi politica e quasi in attesa che nascesse un nuovo movimento (due anni dopo verrà fondato il partito repubblicano), le elezioni del 1852 videro fronteggiarsi Franklin Pierce, Winfield Scott e, per il declinante Free Soil, John Hale.
Il primo era un quasi sconosciuto avvocato del New Hampshire ed aveva lasciato la vita pubblica già dal 1842.
Il secondo era un militare di carriera e i whig (vicini, oramai, alla resa e pronti a disperdersi, cosa che accadrà prima dello scoppio della Guerra di Secessione tanto che appunto Scott sarà, storicamente parlando, il loro ultimo candidato a White House), che non intendevano riproporre Millard Fillmore, lo scelsero proprio per questo sperando di ripetere il vittorioso percorso a suo tempo compiuto presentando due altri generali, William Harrison e Zachary Taylor.
Quanto ad Hale – autorevole Senatore da annoverarsi tra i più attivi contro la schiavitù – nel frangente, raccolse nell’occasione solo la metà dei voti conquistati quattro anni prima per il suo Free Soil da Martin Van Buren.

Pierce – uomo di compromesso e moderato, debole ed esitante – e i suoi democratici ottennero una facile ed ampia vittoria, ma i seguenti quattro anni furono tra i più travagliati in particolare per le accese polemiche e le discussioni in atto a proposito del cosiddetto Compromesso del 1850.
Nel Kansas, per il contrasto tra schiavisti e abolizionisti, si arrivò addirittura a una Guerra civile che vide anche un paio di centinaia di morti.

Da tanto bailamme, la figura del Presidente uscì, se possibile, ancora più sminuita.

Non di meno, il Nostro, qualcosa di buono aveva pur fatto.
A lui si devono infatti la progettazione di una linea ferroviaria intercontinentale e l’acquisto dal Messico di ottantamila chilometri quadrati di territorio per favorire i collegamenti con la California.

Varese, 29 febbraio 2024

Eugene Victor Debs

Per quanto, a partire dal confronto elettorale per White House del 1856, siano soltanto due i partiti in grado di concorrere seriamente per la presidenza USA, molti altri movimenti hanno nel tempo proposto, per il vero con un successo quasi sempre limitato, propri candidati.
Fra i tanti, in particolare nei primi decenni del Novecento, il partito socialista.
Formatosi nel 1901 a seguito dell’unione di altri movimenti, tra i quali quello socialdemocratico, il partito socialista americano affidò le sue speranze in ben quattro votazioni (1904, 1908, 1912, 1920) a Eugene Victor Debs, fondatore e primo presidente della American Railway Union.
Pur non riuscendo mai a conquistare Stati e per conseguenza delegati, il Nostro, nelle ultime due occasioni citate, ottenne oltre novecentomila voti popolari.
Attivo, come detto, nelle vesti di sindacalista e direttore di giornali fin dagli anni Novanta dell’Ottocento, Debs, prima e dopo l’intervento degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale, si distinse per le posizioni e attività pacifiste.
Condannato a dieci anni di prigione nel 1918 per avere tenuto comizi e pronunciato discorsi contro il reclutamento, riuscì a candidarsi per lo scranno presidenziale pur essendo recluso.
Malato, non ebbe la grazia da Woodrow Wilson ma, successivamente, nel 1921, da Warren Harding.
Morì nel 1926.

Dopo di lui, il partito socialista candiderà più volte a White House Norman Thomas il cui miglior risultato quanto a voti popolari fu conseguito nel 1932: quasi novecentomila voti.

Per inciso, i socialisti sono ancora attivi negli USA, anche se divisi dal 1973 in tre diverse organizzazioni.

Varese, 28 febbraio 2024

Trump e Biden vincono facile in Michigan evidenziando qualche crepa

da RSI

Come era ampiamente previsto, l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha vinto le primarie presidenziali repubblicane nello Stato del Michigan. Lo hanno riferito le emittenti statunitensi CNN e NBC mercoledì notte, citando le proprie previsioni. L’ultima rivale di Trump, l’ex ambasciatrice all’ONU Nikki Haley, ha subito una netta sconfitta: i due erano distanziati di ben 30 punti percentuali già dopo lo spoglio di circa il 10% dei voti

La Haley aveva già perso contro Trump nelle primarie in Iowa, New Hampshire e lo scorso fine settimana in South Carolina. La 52enne è considerata politicamente e retoricamente più moderata del suo rivale. Resta da vedere per quanto tempo rimarrà in corsa per la candidatura, dato che di fatto non si ritiene più che abbia la possibilità di battere Trump. Senza contare che il politico newyorkese 77enne gode di un forte sostegno da parte della base del partito.

Dal canto suo, il presidente in carica Joe Biden ha vinto le primarie democratiche anche in Michigan, secondo le previsioni delle emittenti statunitensi. Il capo di Stato americano non ha rivali seri all’interno del partito nella corsa alla candidatura presidenziale.

Tuttavia, molti elettori hanno votato “indecisi” e si saprà quanto tale cifra sia effettivamente alta solo dopo lo spoglio dei voti. Ma in Michigan vivono molti musulmani che non condividono il sostegno di Biden a Israele nella guerra a Gaza e che quindi potrebbero non averlo sostenuto al voto come espressione di protesta

Il Michigan è considerato un cosiddetto “Swing State”, che non può essere classificato né come democratico, né come repubblicano. E con il voto dele primarie dem, Biden ha visto erodere significativamente il suo sostegno tra i musulmani e gli americani di origine araba, un blocco che era stato cruciale per lui nel 2020 contro Donald Trump in Michigan. Il leader democratico si era imposto in questo Stato settentrionale per soli 150’000 voti quattro anni fa.

Varese, 28 febbraio 2024

Vitus Jonassen Bering

Da dove l’uomo sarebbe arrivato nel Continente americano?
Certamente, in tempi antichissimi, almeno per il Nordamerica, anche e prevalentemente, attraverso la Beringia.
Mille anni fa – mi verrebbe da dire – in un periodo nel quale mi ero appassionato all’antropologia, lessi e praticamente imparai a memoria tra gli altri un libro oggi indubbiamente datatissimo, visto che era stato pubblicato nel 1943: ‘Le origini dell’uomo americano’, del grande Paul Rivet.

Interessato maggiormente al Sudamerica che aveva a lungo esplorato, l’etnologo francese, in soldoni (non posso certo qui riportare i suoi studi relativi ai gruppi sanguigni prevalenti, alle attitudini degli Amerindi in specie, e via elencando), concludeva quanto al Continente meridionale per una colonizzazione australiana e polinesiana e, quanto a quello settentrionale, per una arrivo di Asiatici attraverso l’istmo che una volta congiungeva Asia e America.

Ora sommersa dal mare, la Beringia (che ovviamente prende nome dal navigatore danese naturalizzato russo – Vitus Jonassen Bering – che per primo percorse lo stretto che porta il suo nome) è stata studiata con attenzione e si è giunti a confermare l’intuizione, per il vero di numerosi altri studiosi, di Rivet relativa al Nord.
Tra l’altro, sott’acqua, si sono rinvenute tracce di quegli antichissimi passaggi e molti resti di mastodonti.

Varese, 27 febbraio 2024

‘Ombre rosse’. Digressione dovuta essendo il Western assolutamente americano

Da oltre dodici anni lontano dalla Frontiera (e dire che in molte occasioni, presentandosi, recitava “Mi chiamo John Ford e faccio western”), l’irlandese d’America Sean Aloysius O’Feeney – J.F. era il suo pseudonimo – intenzionato a girare ‘Stagecoach’ dopo aver letto su Cosmopolitan ‘Stage to Lordsburg’ che lo scrittore Ernest Haycock aveva vergato riprendendo i temi del famoso racconto ‘Boule de suif’ di Guy de Maupassant, si trovò ad affrontare una notevole serie di ostacoli.
Primo fra tutti, la decisione degli studios di abbandonare il West che, da qualche tempo, sullo schermo, non sembrava più raccogliere il plauso degli spettatori.
Difficile, poi, anche trovare gli attori, ‘giusti’ visto che per lui tali non erano Gary Cooper e Marlene Dietrich ai quali la United Artists pensava di assegnare i ruoli principali.
Alla fine, convinse la produzione ad ingaggiare per la parte di Ringo l’allora poco noto John Wayne (al quale proprio ‘Ombre rosse’ darà imperitura fama) e la “bravissima” (parola dello stesso Ford) Claire Trevor.
Particolare attenzione fu poi data alla scelta dei caratteristi tra i quali l’eccellente Thomas Mitchell (guadagnò l’Oscar come miglior attore non protagonista e in quello stesso 1939 fu interprete nientemeno che di ‘Via col vento’!), nelle vesti del medico schiavo della bottiglia, e John Carradine in quella del giocatore professionista gentiluomo.

Il film si compone di otto episodi legati tra loro dei quali il più lungo (ventiquattro minuti) corrisponde alla sequenza nella stazione di posta dove nasce il bambino della signora Malloy.
Il celeberrimo attacco degli indiani alla diligenza dura sei minuti e mezzo. Eccezionali in quest’ambito gli stuntmen pellirosse, capitanati da Yakima Canutt capace di balzi prodigiosi dal cavallo in corsa alle stanghe e poi al suolo passando sotto i restanti cavalli e la lanciatissima diligenza restando incolume.

Alla fine, cinque candidature alle mitiche statuette delle quali solo due andate a segno.
Con Mitchell, vinsero l’Oscar per la musica Richard Hageman, Frank Harling, John Leipold e Leo Shuken che adattarono per la bisogna ben diciassette diversi motivi popolari americani famosi tra il 1880 (anno nel quale si svolge l’avventura narrata nella pellicola) e il 1890.

Varese, 25 febbraio 2024

Perdere di venti punti e continuare credendo di farcela

Ieri 24.
Le attese Primarie repubblicane del South Carolina.
I sondaggi, impietosi nei suoi confronti, lasciavano poco margine all’ex Governatrice dello Stato Nikki Haley: settanta a trenta grosso modo per Trump il vaticinio.
Chiuse le urne, la candidata dal punto di vista del repubblicanesimo ‘vecchia guardia’ (e per questo rispettabilissima) ha perso, ma di venti: sessanta a quaranta, all’incirca.
Inoltre, vincendo nettamente (sessantadue a trentotto) a Charleston.
Una o due ragioni per continuare?
Certamente, se si aggiungono alla convinzione ribadita a fine voto di avere il dovere di battersi per le idee del GOP, per svecchiare prima il partito e poi, defenestrando Biden a novembre, il Paese.
Ha raccolto l’ex Ambasciatrice all’ONU più contributi economici del rivale e questo significa che, per una ragione o per l’altra, i finanziatori credono ancora in lei.
“Domani sarò in Michigan”, ha annunciato visto che il 27 le urne si apriranno colaggiù.
Certamente, sarà battaglia tra i due fino al Super Tuesday.
Chapeau!

Varese, 25 febbraio 2024

Come dai Repubblicani all’estero si arrivi a Francis Vigo e, volendo, a Juan Domingo Peron

Corre il 1978 e, tenendo conto dell’Overseas Citizens Voting Rights Act del 1975 a firma Gerald Ford che concedeva ai cittadini americani residenti all’estero di votare nelle elezioni federali, si costituisce l’organizzazione politica Republican Abroad.
Vissuti intensamente lunghi anni mantenendo con il Grand Old Party il miglior possibile rapporto, la RA viene a cessare l’attività nel 2013.
Non pochi tra i suoi aderenti, a questo punto, decidono di continuare la propria azione iscrivendosi alla Republicans Overseas.
Ha questa seconda organizzazione sede a Terre Haute, Indiana, capoluogo della Vigo County.
Contea, questa, che vanta davvero una specificità in campo elettorale quanto alle Presidenziali: salvo rarissime eccezioni, il candidato che ottiene più voti laggiù siede dal successivo 20 gennaio alla Casa Bianca.
Deve il proprio nome a Giuseppe Maria Francesco Vigo, per gli americani Francis, notevole personaggio che aiutò grandemente i coloni ribelli durante la Guerra di Indipendenza.
Era nato Vigo nel 1747 a Mondovì, in Piemonte, dati i tempi, parte del Regno di Sardegna (Kingdom of Sardinia).
Notevole lo scompiglio provocato tra quanti indagavano e tuttora si interrogano sulle provenienze degli immigrati ‘italiani’ dalla indicazione “sardo” che accompagnava sostanzialmente per tutto il Settecento e fino al 1861 i nati, va bene in Sardegna, anche, usando la attuale terminologia, in Liguria, Val d’Aosta, fino al 1860 Nizza e, come visto, Piemonte.
Celebre il caso concernente Juan Domingo Peron (naturalmente, la questione riguardava anche l’America Latina), di origini genovesi, dei cui supposti antenati isolani si è lungamente cercata traccia.

Varese, 24 febbraio 2024

Wendell Wilkie, cambiare cavallo al momento giusto 
Sapete.
Negli ‘States’ occorre iscriversi alle liste elettorali.
Non è che perché uno è maggiorenne voti.
Ha il diritto di farlo ma deve dichiarare iscrivendosi alle citate liste di volerlo esercitare, quel benedetto diritto.
Ora, all’atto, i cittadini possono (nessun obbligo) dire quale sia il loro partito di riferimento.
Servirà dipoi conoscere questo dato allorquando dovesse essere indetta da un partito una ‘Primaria chiusa’.
Il ‘cambio di cavallo’ è raro ma se ne hanno esempi davvero particolari.
Nel tardo 1939, Wendell Wilkie si registrò come repubblicano.
Fino al giorno prima era stato democratico.
Uno tra i più attivi.
Pochi mesi – nel 1940 si votava per White House – eccolo in corsa per la Nomination repubblicana.
Non che fosse tra i favoriti, ma insomma.
Arrivata la Convention del Grand Old Party a un punto morto (‘Deadlocked Convention’), fu nominato.
Aveva quattro anni prima dichiaratamente contribuito con versamenti alla campagna del Roosevelt che adesso affrontava.
Lo aveva votato.
Perse nettamente.

 

Varese, 23 febbraio 2024

Ad Hollywood per via di una stalla
Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, il regista e pioniere del cinema americano Cecil B. De Mille, alla ricerca di una località adatta ad ospitare la sua troupe, si recò a Flagstaff, cittadina dell’Arizona a nord di Phoenix, all’epoca nota quasi esclusivamente per l’importante osservatorio astronomico fondato da Percival Lowell.
Forse per via dell’altitudine (Flagstaff si colloca sull’altopiano del Colorado a duemilacentotrenta metri di quota), De Mille non trovò di suo gradimento il piccolo centro.
Decise così di spostarsi altrove e, pochi giorni dopo, scrisse in questi termini ai suoi finanziatori Jesse Lasky e Samuel Goldwyn:
“Flagstaff non va bene.
Ho proseguito per la California.
Chiedo autorizzazione ad affittare una stalla in posto chiamato Hollywood per settantacinque dollari al mese”.
Gli risposero di si.
Così va il mondo, naturalmente, ma mi domando cosa sarebbe successo se De Mille avesse invece gradito la sua prima destinazione.
Quasi certamente, oggi, parleremmo dei divi e delle stelle di Flagstaff e non di Hollywood.
Nel successivo 1930, comunque, un astronomo dell’osservatorio di Lowell (il fondatore era morto nel 1916), Clyde Tombaugh, scoprì Plutone.
Niente stelle (cinematografiche), quindi, a Flagstaff, ma almeno un pianeta (per quanto ‘nano’)!

 

Varese, 21 febbraio 2024

Sei possibili Vice per Trump

da ATS/AP/RSI

C’è anche Ron DeSantis tra i sei possibili vice di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. Lo ha detto il tycoon in un dibattito su Fox News, quando l’anchor Laura Ingraham gli ha elencato sei nomi chiedendogli se sono tutti nella sua shortlist e ottenendo una risposta affermativa

Si tratta, oltre a DeSantis, del senatore afroamericano Tim Scott, dell’imprenditore tech Vivek Ramaswamy, del deputato della Florida Byron Donalds, della governatrice del Sud Dakota Kristi Noem, come pure dell’ex deputata democratica delle Hawaii Tulsi Gabbard.

Non è dato sapere quanto tale affermazione sia da considerare come una risposta tattica davanti alle telecamere da parte di Trump. Quest’ultimo del resto deve fare i conti in questi giorni anche con un calo dei sostegni economici al suo impegno verso le elezioni presidenziali di novembre.

La sua campagna infatti ha raccolto solo 8,8 milioni di dollari in gennaio, contro i 42 di quella del suo rivale Joe Biden. Lo rivelano le dichiarazioni finanziarie alla Commissione elettorale federale USA. L’esponente repubblicano newyorkese aveva in cassa 30 milioni di dollari alla fine del mese scorso, tre milioni in meno rispetto a dicembre, mentre il presidente in carica può contare su 130 milioni. Da questo punto di vista quindi il leader democratico sta surclassando il suo avversario.

Varese, 20 febbraio 2024

National Bureau of Standards, l’unificazione quanto alle manichette delle pompe antincendio e ai semafori ma, naturalmente, non solo

Come li metti d’accordo?
Come riesci ad ottenere che un camion qualsiasi che può misurare fino a cinquanta piedi nel Vermont e nel contempo è troppo lungo (di ventiquattro piedi e mezzo) per entrare nel Kentucky possa infine accedervi?
Come ottieni – dal 1927 – che i semafori funzionino tutti allo stesso modo e non capiti che a Manhattan ci si fermi col verde e si riparta col giallo mentre a Chicago funziona differentemente?
Come – soprattutto, visto che a Baltimora nel 1904 bruciarono oltre millecinquecento edifici senza che i pompieri arrivati in soccorso perfino dalla Grande Mela potessero intervenire perché i manicotti delle pompe in dotazione erano diversi – rendi omogenei gli strumenti?
Standardizzando!

Cosa che fu fatta negli Stati Uniti con difficoltà – date le usanze e le distanze – ma fu fatta.
Uno Stato – specie se federale – funziona e progredisce anche per questo.
Perché, oltre a uniformarlo (non troppo, però) dal punto di vista istituzionale lo si adegua ed unifica in questi infinitamente numerosi campi pratici.
E gli Stati Uniti d’America si resero conto del (sormontabile solo se e quando ci si dedichi a farlo) problema già nei primissimi anni del ventesimo secolo.
Crearono per la bisogna il ‘National Bureau of Standards’!

Varese, 20 febbraio 2024

La Dichiarazione di Indipendenza (perché Jefferson come principale estensore della prima stesura)

Scelto con Thomas Jefferson, Benjamin Franklin, Roger Sherman e Robert Livingstone per redigere il documento in seguito noto come ‘Dichiarazione di indipendenza’, John Adams propose che l’ispiratore e alla fine l’estensore del testo fosse Jefferson.
Avrebbe detto al futuro terzo Presidente:
“Lo farete voi.
In primo luogo, siete un virginiano ed è un virginiano che deve sbrigare questa faccenda.
In secondo luogo, io sono antipatico, sospetto e impopolare, mentre voi siete esattamente il contrario.
In terzo luogo, scrivete dieci volte meglio di me”.

Varese, 19 febbraio 2024

Gli ‘Articoli di Confederazione’, in qualche modo la prima Costituzione

Come non molti sanno, quella in essere non è la prima Legge fondamentale che i neonati Stati Uniti si sono dati ma in qualche modo la seconda.
In effetti, già il 12 giugno 1776 il Congresso aveva creato un Comitato formato da tredici persone (una per ciascuno degli Stati fondatori) al quale fu affidato l’incarico di stendere la Costituzione.
Solo un mese di lavoro, ed ecco gli ‘Articoli di Confederazione’, elaborati in gran parte dal delegato della Pennsylvania John Dickinson: prevedevano un governo centrale con poteri molto limitati.
Era in sua facoltà dichiarare guerra, concludere trattati e alleanze, dividere tra gli Stati le spese comuni, battere moneta, istituire uffici postali e regolare le questioni pendenti con i pellirosse.
Gli mancavano, però, due attributi essenziali per un effettivo esercizio della sovranità: il potere di imporre le tasse e quello di regolare il commercio.
Ovviamente, tutte le potestà non specificamente delegate alla Confederazione spettavano ai singoli Stati, che, come recitava il disposto, “mantenevano sovranità, libertà e indipendenza”.
Di più, non erano previsti organi esecutivi e giudiziari nazionali e i poteri sopra elencati venivano esercitati dal Congresso formato da un’unica assemblea legislativa alla quale partecipavano tutti gli Stati che avevano in quel consesso diritto ad un voto ciascuno.
I Trattati e le altre delibere di maggior peso dovevano essere approvati da almeno nove Stati.
Le eventuali modifiche, infine, degli stessi Articoli di Confederazione richiedevano l’unanimità.

La Carta, così come delineata, fu fatta propria dal Congresso nel novembre del 1777 mentre l’iter di ratifica da parte dei singoli Stati si concluse solamente nel febbraio del 1781.
Da subito, la permanente carenza di mezzi finanziari della Confederazione e la minaccia di una vera e propria guerra commerciale fra gli aderenti fecero capire ai più avvertiti quanto fosse necessaria una riforma.
Il cammino verso la nuova Costituzione prese effettivamente avvio nel 1785.

 

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