In tempi come questi, nei quali impera l’incubo del Grande Reset, scrivere di cultura della tecnologia è un esercizio che va condotto con grande responsabilità. ll problema è culturale e politico.
E’ culturale perché, come si avverte nell’atteggiamento di molte persone, vi è paura del controllo che la tecnologia può esercitare sulle nostre vite, tentando di definire un ordine sociale, fino a quello mondiale, nel periodo post-pandemico: questo atteggiamento, che molti adottano sinceramente, è una paura eccessiva e portata dal dilagante pensiero antagonista (quello che ci ha abituati a ragionare in termini di contrapposizione bianco/nero, amico/nemico, bene/male).
Qui privilegiamo il pensiero critico, laddove consideriamo che se la tecnologia non è esente da rischi, essa ha permesso all’uomo (inventandola egli stesso) di implementare la propria intelligenza per risolvere problemi complessi. Attraverso il pensiero critico, ad esempio, possiamo cogliere il valore delle tecnologie emergenti (si pensi alle soluzioni della “the science of where”, data-driven) per aiutarci a migliorare la sanità pubblica, la governance delle città e dei territori, i servizi delle multiutility e i servizi pubblici in generale, la difesa e la sicurezza, l’agricoltura di precisione. Fino allo spazio.
Attraverso il pensiero critico possiamo comprendere quante opportunità nascano con l’applicazione di soluzioni tecnologiche finalizzate allo sviluppo sostenibile, all’equità sociale, al bene comune. Possiamo immaginare la tecnologia, anziché come parte di un grande progetto di ricostituzione dell’ordine mondiale, come un qualcosa che – semplicemente ma non semplicisticamente – ci aiuta a vivere meglio ?
Per quanto riguarda il tema della protezione della privacy, assai sensibile, vorrei anzitutto sottolineare come la scelta apparentemente banale di collegarci a Internet già ci ponga in una condizione di visibilità e metta i nostri dati in un oceano-cyber vasto quanto il mondo. Si evidenzia, allora, il problema di definire regole adeguate: regole che non possono più essere nazionali ma che devono avere un respiro continentale e globale. Richiamo qui, nel merito, una intervista da noi realizzata con Robert Fay del Centre for International Governance Innovation.
Il secondo problema, dicevo, è politico. I nostri rappresentanti si divertono con i social e quello sembra essere il loro modo di interagire con la tecnologia. Il tema è, con tutta evidenza, molto diverso. La politica dovrebbe riflettere su quanto la tecnologia l’abbia cambiata, ponendo in metamorfosi l’intera realtà. Perché si arrivi a un sano realismo, allora, occorre che le classi dirigenti davvero considerino, PNRR compreso e a parte, la trasformazione digitale come la nuova frontiera dell’evoluzione democratica. In questa prospettiva, è responsabilità dei “politici” e di ciascuno di noi lavorare insieme per individuare i nuovi paradigmi che possano com-prendere l’innovazione tecnologica nell’innovazione sociale. Tutto questo avviene nei contesti “dove” vive la nostra vita e chiede una “rinnovata” consapevolezza “glocale”.
Dal punto di vista culturale e politico, per concludere, i nostri paradigmi sono fermi a un mondo che non c’è più. C’è un grande lavoro da fare, superando gli antagonismi e accogliendo – guardando alla storia e non solo alla cronaca – la complessità che siamo.